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18/06/2018

L’italia ai tempi della schiavitù: tre storie di sfruttamento e morte che non hanno colore

Il sistema della grande distribuzione commerciale (Coop, Esselunga, Conad, Pam ecc.) e quello dei grandi marchi (Cirio, Mutti ecc) si regge nel nostro paese su una rete formata da 80 distretti agricoli in cui lavorano mezzo milione di schiavi che lavorano sotto dei caporali per 2,5 euro all’ora.

Questo consente ai grandi marchi di tenere prezzi molto bassi su frutta, ortaggi ed altro, nonché di strozzare le piccole imprese agricole comprando a prezzi stracciati. I “nuovi schiavi” su cui si regge questa filiera che consente ai grandi gruppi di massimizzare i profitti attraverso lo sfruttamento intensivo e fuori da ogni regola dei lavoratori, sono in prevalenza africani. Ma ci sono indiani, srilankesi e tanti tanti italiani, soprattutto del sud, tra cui moltissime donne.

Intorno alle 8 del mattino del 13 luglio del 2015, Paola Clemente, una bracciante italiana di 49 anni di San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto, si era accasciata nelle campagne di Andria, dove lavorava nell’acinellatura dell’uva: circa cinque ore di viaggio fra andata e ritorno per raggiungere un tendone dove la temperatura arriva fino a 40 gradi, e dove insieme ad altre donne diradava gli acini scartando i chicchi più piccoli.

Il marito disse che la moglie «andava via di casa alle 2 di notte. Prendeva l’autobus alle 3. Ai campi, ad Andria, da San Giorgio Jonico, arrivava intorno alle 5.30. Noi a casa la rivedevamo non prima delle 3 del pomeriggio, in alcuni casi anche alle 6. Guadagnava 27 euro al giorno». Paola, ha aggiunto l’uomo, lavorava nei campi da sempre nell’acinellatura: «Tolgono gli acini più piccoli per fare bello il grappolo. È necessario quindi che le braccianti salgano su una cassetta e tolgano l’acinino. Significa stare con le braccia tese e con la testa alzata per tutta la giornata. È un lavoro molto faticoso, ma non potevamo fare altrimenti».

Dopo la morte di Paola, la Procura di Trani ha aperto un’inchiesta: le indagini hanno escluso l’iniziale ipotesi di omicidio colposo (poiché la donna era deceduta a causa di un infarto) ma hanno accertato lo sfruttamento lavorativo della quarantanovenne e di altri braccianti nella provincia di Brindisi-Andria-Trani. È stato chiesto il rinvio a giudizio per sei persone, accusate a vario titolo di aver gestito la rete del caporalato nella zona, reclutando braccianti agricoli attraverso un’agenzia interinale di Noicattaro, in provincia di Bari.

Secondo la Procura di Trani, le braccianti sfruttate nei campi percepivano ogni giorno 30 euro per 12 ore di lavoro: l’appuntamento era alle 3 e 30 del mattino per essere portate nei campi a bordo dei pullman, il rientro era alle 15 e 30. Il compenso, in base ai contratti di lavoro, sarebbe dovuto essere di circa 86 euro, circa tre volte di più rispetto a quello effettivamente percepito. La Guardia di Finanza e la Polizia hanno accertato che nelle buste paga non venivano calcolate tutte le giornate di lavoro effettive e neppure gli straordinari. In questo modo, in soli tre mesi, l’agenzia interinale che aveva reclutato le braccianti aveva evaso 48mila euro di contributi.

Subito dopo, il 20 luglio 2015, quando la temperatura in Salento sfiorava i 42 gradi, Abdullah Muhamed, un uomo sudanese di 47 anni che raccoglieva pomodorini in un campo tra Nardò e Avetrana, dopo qualche ora di lavoro senza pause e dopo essersi era lamentato un paio di volte per il caldo, si era accasciato a terra esanime per un malore. Altri due braccianti stranieri avevano provato a soccorrerlo, ma per lui non c’era stato niente da fare.

Muhamed non era stato sottoposto a nessuna visita medica prima di iniziare la raccolta e non aveva un contratto di lavoro, solo un accordo verbale con un altro uomo sudanese che lo aveva reclutato per lavorare al campo: un caporale, che faceva da intermediario per un imprenditore salentino. La paga era a cottimo (sei-sette euro per ogni cassone da riempire di pomodorini). Una cifra alla quale, però, andavano sottratti la quota per il caporale, il trasporto fino ai campi e il panino per il pranzo. In tasca, sostanzialmente, potevano rimanergli circa due euro per ogni ora di lavoro.

La moglie di Muhamed, in un’intervista a Repubblica, ha raccontato cosa ha visto quando è andata a riprendere le cose del marito, nel ghetto dell’ex falegnameria dove dormiva insieme agli altri braccianti: «Li fanno vivere peggio delle bestie. Mio marito dormiva su un materasso poggiato su un balcone, in mezzo alla sporcizia». I pomodorini raccolti da Muhamed, secondo quanto accertato dalla Procura di Lecce, venivano consegnati ad alcune delle maggiori aziende italiane di trasformazione del pomodoro, titolari di marchi come Mutti, Conserve Italia (Cirio) e La Rosina. Per la morte del 47enne la pm ha chiesto il rinvio a giudizio con le accuse di omicidio colposo e caporalato per Mohamed Shaa Eldei (il caporale che fungeva da intermediario, anche lui sudanese) e Giuseppe Mariano, detto Pippi, imprenditore salentino titolare dell’azienda, già rinviato a giudizio insieme ad altri (ma poi assolto) nel 2011 nel processo Sabr sullo sfruttamento dei braccianti nei campi – la prima sentenza che ha riconosciuto in Italia la “riduzione in schiavitù” dei lavoratori.

Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari della Procura di Lecce c’è scritto che Muhamed e gli altri braccianti “erano sottoposti a ritmi sfiancanti di 10-12 ore al giorno, spesso in nero, in condizioni atmosferiche e climatiche usuranti, senza il riposo settimanale, senza il rispetto della normativa sulle pause, per poi immettere nel mercato corrente il prodotto con un maggiore guadagno per lo stesso titolare dell’azienda”. I compensi, invece, “erano di gran lunga inferiori rispetto a quelli previsti dai contratti.” *.

E come Paola e Muhamed anche la bracciante 39enne Giuseppina Spagnoletti, il 31 agosto del 2017, muore nelle campagne di Ginosa (Taranto) accasciandosi senza vita mentre era al lavoro nei campi.

Giuseppina era giunta di primo mattino nelle campagne di Ginosa e si era messa all’opera. Intorno alle 11 il malore che l’ha fatta accasciare al suolo. Pare che Gispeppina soffrisse di una lieve forma di cardiopatia ma è certo che il caldo intenso, i ritmi durissimi e gli orari interminabili che le erano stati imposti nel lavoro nei campi, hanno nel tempo accentuata la sua patologia ed aggravate le sue condizioni causandone, infine, il decesso.

E’ stato accertato, infatti, che la donna, pur sofferente, era in realtà sfruttata, tant’è che l’inchiesta della procura di Taranto ha portato a sei arresti, fra cui il titolare dell’azienda e il titolare dell’agenzia interinale che l’aveva assunta.

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