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19/06/2018

Gig economy, la retromarcia di Di Maio

Avere a che fare con una mandria di neo-politici specializzati soltanto in “comunicazione” significa dover fare le pulci a quel che fanno, trovando lo scarto rispetto a ciò che dicono.

E’ il caso del “decreto dignità”, annunciato da Luigi Di Maio in pompa magna, anche se subito sommerso – mediaticamente – dalle sparate razziste o neonaziste del suo teoricamente pari grado leghista.

Di Maio se l’era preparata per benino, incontrando alcuni riders (fattorini in bicicletta o motorino) e garantendo loro il superamento di una condizione abnorme, tra precarietà, cottimo e paghe da fame. Sarebbe stato illogico attendersi una rivoluzione rispetto a quanto permesso dal Jobs Act alle aziende, ma sicuramente qualche miglioramento avrebbe potuto innescare una dinamica positiva tra l’ala grillina del governo e il mondo della precarietà pedalante.

Sulla bozza di decreto – immediatamente svelata da uno scoop del confindustriale Sole24Ore – era scattata la minaccia delle aziende, a partire dalla più nota, Foodora: “se è così chiudiamo tutto e lasciamo l’Italia”.

Tanto è bastato per cambiare progetto incorsa: niente legge presentata dal governo, per ora, e apertura di un tavolo di trattativa tra le aziende e i sindacati (CgilCislUil). La prima perplessità riguarda questi ultimi, notoriamente assenti dal settore, dove soltanto l’Usb – negli ultimi tempi – ha iniziato a organizzare i riders. Che proposte possono portare, se non conoscono neppure la materia e le condizioni reali di lavoro? Una risposta, agghiacciante, è subito arrivata da Guglielmo Loy, segretario confederale Uil, preoccupato dalla possibilità che qualche diritto ai lavoratori costringa le aziende ad alzare i prezzi del servizio oltre i limiti della praticabilità: «Questo non giustifica paghe da fame e la mancanza di un giusto equilibrio. Ma se tu fissi un costo superiore a ciò che il mercato chiede stai decidendo che quello è un servizio che non potrà più funzionare». In pratica, il salario “giusto” per il lavoratore è quello che consente all’impresa di fare profitti anche praticando prezzi bassissimi...

Non c’è dubbio che con una impostazione sindacale tanto “combattiva”, da quel tavolo non potrà che uscire una presa per i fondelli.

Resta sul tavolo, ma parecchio scarica, la minaccia di Di Maio di affidarsi ad una legge in caso di mancato accordo. Anche se l’accordo non ci dovesse essere – ma con le premesse poste dalla Uil, ne dubitiamo – un eventuale decreto ministeriale dovrà comunque prendere atto dei desiderata delle imprese, annacquando di molto i contenuti previsti dalla prima bozza.

La quale, appunto, non prevedeva nulla di rivoluzionario, ma qualcosina sì:

Classificazione dei fattorini della gig economy come «lavoratori subordinati», anche quando si utilizzano mezzi propri; abrogazione dell’articolo 2 del Jobs act, quello che disciplinava le «Collaborazioni organizzate dal committente»; stop al cottimo per tutti i servizi intermediati da piattaforme online, come Foodora o Uber. E ancora, istituzione di «indennità di disponibilità» e «diritto alle disconnessione» per lavoratori assediati da notifiche.

Il che si portava dietro una serie di modifiche:

l’abolizione dell’articolo 2 del decreto legislativo 81/2015, ossia l’articolo del Jobs act “renziano” che stabiliva i confini precedenti fra collaborazione e subordinazione; l’obbligo di fornire un trattamento economico minimo, da parametrare a seconda dei minimi del contratto collettivo di categoria (articolo 2); il divieto di pagare a cottimo i lavori svolti per «piattaforme, applicazioni e algoritmi elaborati dal datore di lavoro o per suo conto» (articolo 4); l’istituzione di una «indennità di disponibilità» divisibile in quote orarie, oltre al diritto a ferie, malattia e maternità (5).

Per le aziende della gig economy, infatti, la cosa davvero inaccettabile è considerare “dipendenti” quelli che per loro debbono restare “collaboratori”. Il modello economico è del resto ben noto e praticamente identico per tutte le piattaforme digitali (che distribuiscano cibo o passaggi auto, come Uber): pochissimi dipendenti veri e propri (tecnici informatici, per lo più) e migliaia di “collaboratori” pagati a prestazione, ossia a cottimo. E’ il modello di business dell’intermediazione, in cui il guadagno è possibile se il prezzo per l’utente resta basso, quasi marginale, perché quel servizio offerto non è una necessità indispensabile, ma solo una comodità; il che significa che anche il salario del “collaboratore” deve essere molto basso. Comunque meno di quel che l’azienda chiede al cliente.

E quindi nessun diritto può essere concesso (figuriamoci – per esempio – se un’azienda del genere può mettersi a retribuire malattia e maternità).

Non è la modernità, ma un medioevo tecnologico.

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