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22/06/2018

Turchia - Le incognite del voto

di Francesca La Bella

Domenica 24 giugno si terranno le prime elezioni dopo il voto referendario che ha modificato, nell’aprile 2017, la struttura governativa dello stato di Turchia. Elezioni che coinvolgeranno circa 60 milioni di elettori e che rappresenteranno un significativo test per la tenuta del governo dell’AKP. Erdogan e il suo partito sperano, infatti, di riuscire a mantenere il consenso ottenuto in tutte le passate tornate elettorali e di legittimare, ancora una volta, le politiche di controllo e repressione che negli ultimi anni hanno segnato la vita politica turca. Sul fronte opposto, le forze politiche di opposizione hanno cercato durante questa campagna elettorale di trovare nuove vie per riacquistare consensi e imporsi de facto come protagonisti nella politica del Paese e sperano di raccogliere i frutti di questo rinnovato impegno.

Il supremo consiglio elettorale (YSK) annuncia che i partiti ammessi alle elezioni sono otto di cui quattro già presenti in Parlamento grazie al superamento della soglia di sbarramento del 10% alle elezioni del 2015: il Partito giustizia e Sviluppo (AKP) del Presidente Erdogan, il Partito Popolare Repubblicano (CHP), partito nazionalista di tradizione kemalista, il Partito democratico dei Popoli (HDP), partito turco-curdo il cui candidato premier, Selahattin Demirtas, si trova attualmente in carcere con l’accusa di terrorismo e lo storico partito della destra nazionalista, MHP, che si presenta in coalizione con l’AKP.

A questi quattro partiti principali si aggiungono il Partito Buono (IYI), nato da una scissione dello stesso MHP, che ha scelto di dare il suo sostegno al CHP, il Partito Saadet, partito islamista conservatore nato nel 2001 conosciuto anche nella sua traduzione inglese come Felicity Party, anch’esso in coalizione con il CHP, il Partito della giusta causa, Huda Par, legato al movimento Hizbollah turco, e il Partito patriottico, Vatan Party, partito di sinistra che si pone in continuità con i partiti socialisti e comunisti turchi nati ad inizio ‘900. Questi ultimi, considerati da commentatori e analisti le ali più radicali dello spettro elettorale, si presenteranno in maniera indipendente al voto e, secondo i sondaggi, difficilmente riusciranno a superare l’alta soglia di sbarramento.

Il quadro, ad una prima occhiata, non appare molto più complesso rispetto ad una qualunque tornata elettorale. Ad uno sguardo più attento appare, però, evidente come queste elezioni abbiano caratteri molto particolari. In primo luogo, in una logica di netta contrapposizione tra pro e contro Erdogan, sembra essere in atto un rimescolamento delle alleanze che ha avvicinato islamici e laici, progressisti e conservatori, turchi e curdi.

A seguito della diffusa repressione governativa ed al tracollo dell’economia del Paese, infatti, alcune delle principali linee di frattura sembrano essersi assottigliate aprendo nuovi spazi per la mediazione. Non tanto una rinuncia ai propri valori e, dunque, alle differenze quanto un tentativo di trovare un punto di equilibrio funzionale ad un percorso politico condiviso. Questo l’aspetto che, insieme ad una meno nobile strategia elettorale, possiamo trovare alla base delle coalizioni così come nella selezione dei candidati. In questo senso deve essere considerata significativa la scelta di Muharrem Ince per il CHP.

Una candidatura elogiata dai sostenitori e criticata ferocemente dagli oppositori in quanto in discontinuità rispetto alla tradizione del partito kemalista. Un cambio di passo del Partito che, però, potrebbe risultare vincente in quanto funzionale sia per la tenuta della coalizione in corsa per le elezioni grazie all’apertura ai conservatori islamici ed ai dissidenti provenienti dalla destra nazionalista sia in vista di futuri ballottaggi in cui la componente curda potrebbe avere un ruolo centrale.

La questione curdainsieme alla crisi economica, è, infatti, una delle problematiche maggiormente dibattute in questa campagna elettorale. Nonostante decine di parlamentari, giornalisti e comuni cittadini siano in carcere e la guerra portata da Ankara verso il sud-est del Paese, l’HDP ha mantenuto consenso nella popolazione curda e turca e potrebbe riuscire, nonostante le difficoltà, a raggiungere la soglia di sbarramento anche in questa occasione. Se questo dovesse succedere e il CHP dovesse riuscire, come prevedono i sondaggi, a raggiungere il 30-35% di consensi, una vittoria dell’AKP al ballottaggio potrebbe non essere scontata.

Le incognite all’orizzonte sono, però, molte e non solo legate ai temuti brogli elettorali. Per quanto riguarda il momento del voto esiste il forte timore che le nuove norme sulla validità di urne non vidimate, lo spostamento dei seggi elettorali dalle zone considerate a rischio e la sospetta mancanza di imparzialità del YSK possano incidere fortemente a favore del governo attualmente in carica. Da questo punto vista la presenza di centinaia di osservatori internazionali non sembra poter essere garanzia sufficiente anche date le pregresse esperienze durante le precedenti tornate elettorali.

I possibili scenari che si potrebbero aprire post-elezioni presentano, però, delle gravi problematiche a prescindere dalla correttezza formale del voto. Con la fine del “processo di pace” tra Ankara e il popolo curdo e a seguito del fallito colpo di stato, se alcune fratture si sono assottigliate, altre faglie si sono allargate in profondità. Se quella di questi ultimi tre anni può, dunque, essere considerata una “guerra a bassa intensità”, la rottura dell’attuale status quo o un importante rafforzamento dello stesso potrebbero indurre ad una recrudescenza di questo conflitto ed alzare ulteriormente il livello dello scontro, non necessariamente solo a livello interno.

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