di Francesca La Bella
Domenica 24 giugno si
terranno le prime elezioni dopo il voto referendario che ha modificato,
nell’aprile 2017, la struttura governativa dello stato di Turchia. Elezioni che coinvolgeranno circa 60 milioni di elettori e che rappresenteranno un significativo test per la tenuta del governo dell’AKP. Erdogan e il suo partito sperano, infatti, di riuscire a mantenere il consenso ottenuto in tutte le passate tornate elettorali e di
legittimare, ancora una volta, le politiche di controllo e repressione
che negli ultimi anni hanno segnato la vita politica turca. Sul
fronte opposto, le forze politiche di opposizione hanno cercato durante
questa campagna elettorale di trovare nuove vie per riacquistare
consensi e imporsi de facto come protagonisti nella politica del Paese e
sperano di raccogliere i frutti di questo rinnovato impegno.
Il supremo consiglio elettorale (YSK) annuncia che i partiti
ammessi alle elezioni sono otto di cui quattro già presenti in
Parlamento grazie al superamento della soglia di sbarramento del 10% alle elezioni del 2015: il
Partito giustizia e Sviluppo (AKP) del Presidente Erdogan, il Partito
Popolare Repubblicano (CHP), partito nazionalista di tradizione
kemalista, il Partito democratico dei Popoli (HDP), partito
turco-curdo il cui candidato premier, Selahattin Demirtas, si trova
attualmente in carcere con l’accusa di terrorismo e lo storico partito
della destra nazionalista, MHP, che si presenta in coalizione con l’AKP.
A questi quattro partiti principali si aggiungono il Partito Buono (IYI), nato da una scissione dello stesso MHP, che ha scelto di dare il suo sostegno al CHP, il Partito Saadet, partito islamista conservatore nato nel 2001 conosciuto anche nella sua traduzione inglese come Felicity Party, anch’esso
in coalizione con il CHP, il Partito della giusta causa, Huda Par,
legato al movimento Hizbollah turco, e il Partito patriottico, Vatan
Party, partito di sinistra che si pone in continuità con i partiti
socialisti e comunisti turchi nati ad inizio ‘900. Questi ultimi, considerati da commentatori e analisti le ali più radicali dello spettro elettorale, si presenteranno in maniera indipendente al voto e, secondo i sondaggi, difficilmente riusciranno a superare l’alta soglia di sbarramento.
Il quadro, ad una prima occhiata, non appare molto più complesso
rispetto ad una qualunque tornata elettorale. Ad uno sguardo più attento
appare, però, evidente come queste elezioni abbiano caratteri molto
particolari. In primo luogo, in una logica di netta
contrapposizione tra pro e contro Erdogan, sembra essere in atto un
rimescolamento delle alleanze che ha avvicinato islamici e laici,
progressisti e conservatori, turchi e curdi.
A seguito della diffusa repressione governativa ed al tracollo dell’economia del Paese, infatti, alcune delle principali linee di frattura sembrano essersi assottigliate aprendo nuovi spazi per la mediazione. Non tanto una rinuncia ai propri valori e, dunque, alle differenze quanto un tentativo di trovare un punto di equilibrio funzionale ad un percorso politico condiviso.
Questo l’aspetto che, insieme ad una meno nobile strategia elettorale,
possiamo trovare alla base delle coalizioni così come nella selezione
dei candidati. In questo senso deve essere considerata significativa la scelta di Muharrem Ince per il CHP.
Una candidatura elogiata dai sostenitori e criticata
ferocemente dagli oppositori in quanto in discontinuità rispetto alla
tradizione del partito kemalista. Un cambio di passo del
Partito che, però, potrebbe risultare vincente in quanto funzionale sia
per la tenuta della coalizione in corsa per le elezioni grazie
all’apertura ai conservatori islamici ed ai dissidenti provenienti dalla
destra nazionalista sia in vista di futuri ballottaggi in cui la
componente curda potrebbe avere un ruolo centrale.
La questione curda, insieme alla crisi economica, è, infatti, una delle problematiche maggiormente dibattute in questa campagna elettorale. Nonostante
decine di parlamentari, giornalisti e comuni cittadini siano in carcere
e la guerra portata da Ankara verso il sud-est del Paese, l’HDP ha mantenuto consenso nella popolazione curda e turca e potrebbe riuscire, nonostante le difficoltà, a raggiungere la soglia di sbarramento anche in questa occasione. Se questo dovesse succedere e il CHP dovesse riuscire, come prevedono i sondaggi, a raggiungere il 30-35% di consensi, una vittoria dell’AKP al ballottaggio potrebbe non essere scontata.
Le incognite all’orizzonte sono, però, molte e non solo legate ai
temuti brogli elettorali. Per quanto riguarda il momento del voto esiste
il forte timore che le nuove norme sulla validità di urne non vidimate,
lo spostamento dei seggi elettorali dalle zone considerate a rischio e
la sospetta mancanza di imparzialità del YSK possano incidere fortemente
a favore del governo attualmente in carica. Da questo punto
vista la presenza di centinaia di osservatori internazionali non sembra
poter essere garanzia sufficiente anche date le pregresse esperienze
durante le precedenti tornate elettorali.
I possibili scenari che si potrebbero aprire post-elezioni
presentano, però, delle gravi problematiche a prescindere dalla
correttezza formale del voto. Con la fine del “processo di pace” tra
Ankara e il popolo curdo e a seguito del fallito colpo di stato, se
alcune fratture si sono assottigliate, altre faglie si sono allargate in
profondità. Se quella di questi ultimi tre anni può, dunque, essere
considerata una “guerra a bassa intensità”, la rottura dell’attuale
status quo o un importante rafforzamento dello stesso potrebbero indurre
ad una recrudescenza di questo conflitto ed alzare ulteriormente il livello dello scontro, non necessariamente solo a livello interno.
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