Sono quattro i paesi arabi che hanno confermato l’appoggio al
cosiddetto accordo del secolo, il piano di pace tra israeliani e
palestinesi su cui sta lavorando l’amministrazione Trump. A riportarlo è
la stampa israeliana che sottolinea come le capitali interessate non
abbiano intenzione di tenere in alcun conto la posizione favorevole o
meno della leadership palestinese di Ramallah.
Secondo il quotidiano filo-governativo Israel Hayom,
che riportava ieri interviste a funzionari di Arabia Saudita, Emirati
Arabi, Egitto e Giordania, i quattro paesi hanno garantito al genero di
Trump, nonché suo consigliere sul Medio Oriente, Jared Kushner il
sostegno al piano statunitense. In questi giorni Kushner,
insieme a Jason Greenblatt, inviato Usa nella regione, è impegnato in un
tour mediorientale che ha toccato i paesi sopra citati, oltre al Qatar e
a Israele. Non si è recato in visita a Ramallah, al palazzo
presidenziale, per incontrare il presidente dell’Autorità Nazionale
Palestinese Mahmoud Abbas dopo il rifiuto di quest’ultimo legato al
riconoscimento unilaterale da parte Usa di Gerusalemme come capitale di
Israele, compiuto lo scorso 6 dicembre.
Una frattura visibile anche nelle aperte critiche mosse da Kushner
alla leadership palestinese, durante un’intervista rilasciata domenica
al quotidiano palestinese al-Quds (pare su consiglio dei leader arabi): “Il
presidente Abbas dice di essere impegnato per la pace e non ho ragione
di non credergli – ha detto Kushner – Tuttavia mi chiedo quanto Abbas
abbia la capacità, o la volontà, di arrivare ad un accordo. Ha
argomenti che non sono cambiati negli ultimi 25 anni. E nessun accordo
di pace è stato siglato in questo periodo di tempo. Per fare un accordo
entrambe le parti devono compiere un avanzamento e incontrarsi. Non sono
certo che il presidente Abbas sia in grado di farlo”.
Torna, dunque, la nota narrativa israelo-statunitense:
responsabili dello stallo sono i palestinesi, a cui si chiedono
compromessi che Israele al contrario non è disposto minimamente a
compiere. Gli “argomenti” che Kushner addebita a Ramallah a Tel Aviv
diventano quelle “clausole” che nessun governo israeliano ha mai deciso
di togliere dal tavolo a favore della pace: lo status di
Gerusalemme, il diritto al ritorno dei profughi, il controllo dei
confini, lo smantellamento delle colonie.
Al genero di Trump ha risposto a stretto giro Saeb Erekat, capo
negoziatore palestinese, che ha ribadito la posizione assunta negli
ultimi mesi, gli Stati Uniti non sono più considerabili mediatori nel
(presunto) processo di pace: “L’intervista del signor Kushner chiarifica
una volta di più che l’amministrazione statunitense del presidente
Trump si è mossa dal piano del negoziato a quello delle imposizioni.
Sono determinati a imporre una soluzione”, ha detto Erekat.
Il problema ricade sui palestinesi, schiacciati tra una
leadership incapace e una comunità internazionale appiattita sulle
posizioni israeliane. Da cui l’interesse, palese da tempo, di alcuni
regimi arabi a normalizzare definitivamente i rapporti con lo Stato
ebraico, a spese di diritti riconosciuti da numerose
risoluzioni Onu. Significative le dichiarazioni del funzionario giordano
raccolte da Israel Hayom: “I paesi arabi non saranno quelli
che lanceranno una chiave inglese tra le ruote del processo di pace e
questo continuo rifiuto di Abbas di lavorare con gli americani porterà a
un piano di pace regionale senza di lui”.
Ovvia è la pressione sulla testa della leadership palestinese,
costretta a scegliere tra un isolamento ancora peggiore dell’attuale e
un piano di pace che non serve in alcun modo gli interessi e i diritti
di autodeterminazione del popolo palestinese. Ma paesi arabi e Stati
Uniti dimenticano proprio questo elemento, il popolo palestinese,
che non accetterà un’ulteriore sconfitta, un falso compromesso che
nasconde la resa.
Intanto è arrivato a Gerusalemme il principe William nella
prima visita ufficiale di un membro della casata Windsor tra Israele e
Territori Occupati. Oggi inizierà il suo tour, non affatto scontato per
un discendente di coloro che avallarono con la dichiarazione Balfour e
poi permisero – armi in pugno – al movimento sionista di fondare uno
Stato ebraico in terra palestinese. Tanto da far storcere la
bocca ai vertici israeliani: oltre a Gerusalemme e al premier Netanyahu,
visiterà Ramallah e incontrerà la leadership palestinese.
Nella città santa visiterà il Museo dell’Olocausto ma anche la Città
Vecchia e il Monte degli Olivi, a Gerusalemme est; alloggerà al King
David Hotel, usato negli anni del Mandato britannico come quartier
generale delle autorità di Londra e teatro nel 1946 di un attentato
terroristico da parte delle milizie paramilitari sioniste (oltre 90 le
vittime).
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