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26/06/2018

Palestina - Il sostegno arabo al piano Trump

Sono quattro i paesi arabi che hanno confermato l’appoggio al cosiddetto accordo del secolo, il piano di pace tra israeliani e palestinesi su cui sta lavorando l’amministrazione Trump. A riportarlo è la stampa israeliana che sottolinea come le capitali interessate non abbiano intenzione di tenere in alcun conto la posizione favorevole o meno della leadership palestinese di Ramallah.
 
Secondo il quotidiano filo-governativo Israel Hayom, che riportava ieri interviste a funzionari di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto e Giordania, i quattro paesi hanno garantito al genero di Trump, nonché suo consigliere sul Medio Oriente, Jared Kushner il sostegno al piano statunitense. In questi giorni Kushner, insieme a Jason Greenblatt, inviato Usa nella regione, è impegnato in un tour mediorientale che ha toccato i paesi sopra citati, oltre al Qatar e a Israele. Non si è recato in visita a Ramallah, al palazzo presidenziale, per incontrare il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas dopo il rifiuto di quest’ultimo legato al riconoscimento unilaterale da parte Usa di Gerusalemme come capitale di Israele, compiuto lo scorso 6 dicembre.

Una frattura visibile anche nelle aperte critiche mosse da Kushner alla leadership palestinese, durante un’intervista rilasciata domenica al quotidiano palestinese al-Quds (pare su consiglio dei leader arabi): “Il presidente Abbas dice di essere impegnato per la pace e non ho ragione di non credergli – ha detto Kushner – Tuttavia mi chiedo quanto Abbas abbia la capacità, o la volontà, di arrivare ad un accordo. Ha argomenti che non sono cambiati negli ultimi 25 anni. E nessun accordo di pace è stato siglato in questo periodo di tempo. Per fare un accordo entrambe le parti devono compiere un avanzamento e incontrarsi. Non sono certo che il presidente Abbas sia in grado di farlo”.

Torna, dunque, la nota narrativa israelo-statunitense: responsabili dello stallo sono i palestinesi, a cui si chiedono compromessi che Israele al contrario non è disposto minimamente a compiere. Gli “argomenti” che Kushner addebita a Ramallah a Tel Aviv diventano quelle “clausole” che nessun governo israeliano ha mai deciso di togliere dal tavolo a favore della pace: lo status di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei profughi, il controllo dei confini, lo smantellamento delle colonie.

Al genero di Trump ha risposto a stretto giro Saeb Erekat, capo negoziatore palestinese, che ha ribadito la posizione assunta negli ultimi mesi, gli Stati Uniti non sono più considerabili mediatori nel (presunto) processo di pace: “L’intervista del signor Kushner chiarifica una volta di più che l’amministrazione statunitense del presidente Trump si è mossa dal piano del negoziato a quello delle imposizioni. Sono determinati a imporre una soluzione”, ha detto Erekat.

Il problema ricade sui palestinesi, schiacciati tra una leadership incapace e una comunità internazionale appiattita sulle posizioni israeliane. Da cui l’interesse, palese da tempo, di alcuni regimi arabi a normalizzare definitivamente i rapporti con lo Stato ebraico, a spese di diritti riconosciuti da numerose risoluzioni Onu. Significative le dichiarazioni del funzionario giordano raccolte da Israel Hayom: “I paesi arabi non saranno quelli che lanceranno una chiave inglese tra le ruote del processo di pace e questo continuo rifiuto di Abbas di lavorare con gli americani porterà a un piano di pace regionale senza di lui”.

Ovvia è la pressione sulla testa della leadership palestinese, costretta a scegliere tra un isolamento ancora peggiore dell’attuale e un piano di pace che non serve in alcun modo gli interessi e i diritti di autodeterminazione del popolo palestinese. Ma paesi arabi e Stati Uniti dimenticano proprio questo elemento, il popolo palestinese, che non accetterà un’ulteriore sconfitta, un falso compromesso che nasconde la resa.

Intanto è arrivato a Gerusalemme il principe William nella prima visita ufficiale di un membro della casata Windsor tra Israele e Territori Occupati. Oggi inizierà il suo tour, non affatto scontato per un discendente di coloro che avallarono con la dichiarazione Balfour e poi permisero – armi in pugno – al movimento sionista di fondare uno Stato ebraico in terra palestinese. Tanto da far storcere la bocca ai vertici israeliani: oltre a Gerusalemme e al premier Netanyahu, visiterà Ramallah e incontrerà la leadership palestinese.

Nella città santa visiterà il Museo dell’Olocausto ma anche la Città Vecchia e il Monte degli Olivi, a Gerusalemme est; alloggerà al King David Hotel, usato negli anni del Mandato britannico come quartier generale delle autorità di Londra e teatro nel 1946 di un attentato terroristico da parte delle milizie paramilitari sioniste (oltre 90 le vittime).

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