di Chiara Cruciati
Ieri le proteste a Bassora
sono riprese, dopo qualche ora di di “pausa” in attesa di risposte: gli
organizzatori delle manifestazioni di fronte al consiglio provinciale e
al giacimento petrolifero di Qurna avevano dato tre giorni alle autorità
per rispondere alle richieste dei dimostranti: “E’ responsabilità loro
se i manifestanti scendono di nuovo in piazza per chiedere i diritti,
servizi, lavoro, e sostegno finanziario per ridare vita ai progetti in
sospeso”, ha detto Ali Shaddad, il consigliere provinciale citato da Agenzia Nova.
Da domenica centinaia di persone si sono accampati davanti
all’impianto di Zubair, a Bassora, gestito dall’italiana Eni, la
statunitense Occidental Petroleum Corporation, la sudcoreana Korea Gas
Corporation e dall’irachena Missan Oil Company.
Domenica era intervenuto l’esercito iracheno a disperdere due diverse
manifestazioni, una di fronte al giacimento petrolifero di Qurna e una
fuori dal consiglio provinciale, dove si erano accampate sotto le tende
migliaia di persone. In entrambi i casi teatro della rabbia popolare è
Bassora, scossa dall’8 luglio da proteste che in breve tempo
hanno contagiato il sud sciita per arrivare a Baghdad.
Gli organizzatori delle proteste a Bassora avevano detto ad Agenzia Nova di aver dato tre giorni di tempo alla Basra Oil Company per rispondere alle richieste. E denunciano:
l’esercito blocca l’arrivo di acqua e cibo ai manifestanti. Alcuni di
loro, estrema forma di protesta, hanno stracciato le proprie lauree.
Con 48 gradi la carenza di elettricità ha spinto la gente
nelle strade, a bloccare i giacimenti di greggio (l’80% delle riserve
nazionali, eppure i black out elettrici sono continui tanto da doverne
importare dall’Iran) e a portare in piazza la frustrazione per un
cambiamento che non arriva mai. Sono già 14 le vittime della
repressione della polizia, uccisi da proiettili o gas lacrimogeni. Oltre
300 gli arrestati e quasi 800 i feriti a Najaf, Bassora, Karbala,
Nassiriya, Dhi Qar, tra manifestanti e forze di sicurezza, con la gente
che ha preso d’assalto uffici pubblici e le sedi di alcuni partiti
politici.
A Baghdad il clima è incandescente: il premier al-Abadi, ancora al
suo posto dopo le elezioni del 12 maggio che non hanno portato ancora
alla formazione di un governo, vuole essere riconfermato e cerca di
placare la rabbia. Dopo aver tentato senza successo di soffocare
le proteste inviando l’esercito e oscurando internet, domenica ha
sospeso il ministro dell’Energia, Qassim al-Fahdawi e ordinato
un’inchiesta sul suo operato, capro espiatorio al disastro energetico
del paese quinto al mondo per riserve petrolifere.
Ma il problema non è solo l’elettricità. Nelle piazze si sta
protestando – in modo spontaneo, senza la direzione di una fazione
politica – per la mancanza di lavoro (non a caso a Bassora le tribù
hanno bloccato gli stabilimenti chiedendo che le compagnie
internazionali assumano i giovani della zona, invece di dipendenti stranieri), per la corruzione rampante, per la carenza di acqua potabile e di un servizio efficiente di raccolta dei rifiuti.
Il tutto a fronte di 40 miliardi di dollari spesi dal 2003, dalla
caduta di Saddam, per rimettere in piedi il sistema energetico distrutto
dall’invasione Usa. Secondo al-Abadi, che cerca conferme
nell’inchiesta, da allora le istituzioni irachene avrebbero siglato
oltre 5mila contratti-fantasma che non si sono mai tradotti in lavori
effettivi.
A parlare a favore degli iracheni è l’ayatollah Ali al-Sistani, la
guida spirituale sciita irachena che fin dalle prime proteste ha preso
le parti dei manifestanti. Nel tradizionale sermone del venerdì, pochi
giorni fa, ha fatto appello alle forze politiche perché formino al più
presto un esecutivo in grado di affrontare seriamente la questione
corruzione e lo stato misero dei servizi. Nell’attesa, ha detto
al-Sistani da Karbala, anche questa scossa dalle proteste, «l’attuale
governo lavori duro, con urgenza, per rispondere alle richieste dei
cittadini e ridurre sofferenza e miseria».
Una miseria concreta, terribile, che è tornata a prevalere sulle
speranze che il voto di due mesi e mezzo fa aveva in parte riacceso. Se
la metà degli iracheni aveva disertato le urne, l’altra metà aveva
votato per partiti “alternativi” all’establishment post-Saddam, la
coalizione sadristi-comunisti e le milizie sciite.
Ma a prevalere è lo stallo, fomentato anche dal riconteggio dei voti
dopo denunce di scorrettezze. In un simile contesto la Repubblica Islamica manda un messaggio al fronte
anti-Iran e all’amministrazione Trump in particolare: possiamo generare
il caos nella regione.
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