Mikhail Denisenko, al secolo il patriarca Filaret, capo della Chiesta ortodossa autocefala ucraina, ha proclamato che il signore è venuto in soccorso dell’Ucraina concedendole una guerra. Lo ha dichiarato al canale ucraino Prjamij in un’intervista, peraltro sostanzialmente incentrata sui rapporti tra i patriarcati di Kiev e di Mosca. “Il nostro obiettivo” ha detto Filaret, “è la crescita del patriarcato di Kiev. E in questo ci aiuta il Signore. In che modo? Ha fatto sì che ci fosse una guerra. Le persone vedono chi sia a difendere lo stato ucraino: è il patriarcato di Kiev che li difende, mentre quello di Mosca difende l’aggressore. Prendete ad “esempio il Donbass” ha detto ancora, “la chiesa ucraina nel Donbass appartiene al patriarcato moscovita e sostiene in pieno i separatisti e la Russia”.
Insomma, tra un “Hitler mandato dalla provvidenza” e un onnipotente che comanda di attaccare i senzadio del Donbass, sembra proprio che Denisenko-Filaret non possa stare più di qualche settimana senza mettersi l’elmetto, a difesa di quello “stato ucraino” che, però, dà sempre più segni di agonia, non solo a est.
La situazione non è nuova e si è arricchita in questi giorni di un nuovo capitolo nei rapporti Kiev-Budapest. Dopo ripetute reciproche punzecchiature; dopo la questione della cittadinanza ungherese concessa a cittadini “ucraini”, nel solco della “politica antiucraina” che l’Ungheria, secondo Pravyj Sektor, conduce “su ordine di Putin”, ecco che ora il governo magiaro ha insediato un incaricato ad hoc per la Transcaparzia.
Già coordinatore dei rapporti ugro-ucraini e commissario del governo ungherese per la cooperazione tra la provincia di Szabolcs-Szatmar-Bereg e la Transcarpazia, la nuova figura è ora qualificata come “plenipotenziario per le questioni dello sviluppo della Transcarpazia e delle istituzioni prescolastiche del bacino dei Carpazi”.
Kiev ha immediatamente accusato i vicini occidentali di ingerenza negli affari interni ucraini e definisce “non amichevoli” i passi del governo magiaro, che a parere di Kiev riflettono un approccio di “confronto, invece che di collaborazione”, tipico di uno “stato aggressore” e “sulla scia delle posizioni filo-russe” di Victor Orban. Per parte sua, Budapest si oppone ai contatti UE con Kiev e ha posto il veto (gli scorsi febbraio e aprile, e ancora a metà luglio) alle sedute della commissione Ucraina-NATO, che dovrebbe tracciare la road map dell’ingresso del paese nell’Alleanza atlantica.
Il pretesto ufficiale, è la legge adottata dalla Rada lo scorso settembre, che limita sensibilmente i diritti delle lingue diverse dall’ucraino in tutte le scuole e istituti superiori: Budapest insiste perché nella Transcarpazia anche l’ungherese ottenga lo status di lingua ufficiale. Secondo il censimento del 2001, nella regione l’81% della popolazione sarebbe di lingua ucraina, solo il 2,9% russa e il 2,6% rumena, ma ben il 12,7% di lingua ungherese. Questo, a fronte dell’intero paese, in cui l’ucraino era dato quale lingua madre del 67,5% della popolazione; mentre, secondo un sondaggio Gallup, nel 2008 l’83% di persone usava la lingua russa.
In effetti, a Kiev avrebbero voluto che la legge riguardasse solo la lingua russa (usata da oltre il 90% degli abitanti delle aree meridionali e orientali, e anche di Karkhov e Kiev), ma, come osserva Aleksandr Zapolskis su iarex.ru, per darle una parvenza di “democraticità”, la Rada l’ha estesa a tutte le lingue delle minoranze nazionali presenti nel paese, comprese ungherese, moldavo, rumeno, polacco, bulgaro, slovacco, yiddish, gagauso, oltre ovviamente al russo, anche se almeno un quarto degli ucraini sembra far largo uso del cosiddetto “suržik”, un misto di russo-ucraino che non corrisponde appieno a nessuno dei due idiomi.
Ai tentativi di Budapest di risolvere “in via amichevole” la questione, Kiev ha opposto la “non ingerenza” nei propri affari interni; di contro, all’iniziale neutralità della NATO, ora anche Washington ha rinunciato a schierarsi per gli uni o gli altri, pur devolvendo ulteriori 250 milioni di dollari a Kiev per le necessità militari della junta.
Sul campo, si fanno però sempre più frequenti le azioni violente dei nazionalisti ucraini nella Transcarpazia: incendi alla Società di cultura ungherese a Užgorod; atti di vandalismo contro turisti ungheresi, scorribande nazionalistiche contro rom e chiunque abbia a che fare con l’Ungheria. Budapest ha dunque chiesto che venga resa permanente la presenza nella regione della missione OSCE, che in effetti monitora da anni la situazione, in particolare per le violenze contro i rom della Transcarpazia; ma il Ministro degli esteri ucraino Pavel Klimkin ha risposto che non c’è alcun bisogno di missioni: già così è chiara “la mano del FSB russo in queste provocazioni”!
Se non stupisce la reazione ucraina, il fatto però che la proposta ungherese sia stata tutt’altro che accantonata, non dovrebbe tranquillizzare Kiev: altre esperienze, nota Zapolskis, mostrano come l’introduzione di missioni di monitoraggio o forze di pace, costituisca l’anticamera a una divisione territoriale e, nel caso della Transcarpazia, sembra proprio che Budapest non faccia nemmeno tanto mistero delle proprie intenzioni, non solo linguistiche. Non a caso, il nuovo plenipotenziario ungherese ha tenuto la conferenza stampa di insediamento il 1 agosto non in Ungheria, ma a Beregovo, e ha ribadito la continuità degli aiuti di Budapest agli ungheresi transcarpatici.
Così, se a marzo l’Ucraina aveva deciso la riattivazione del distretto militare di Beregovo, vicinissimo alla frontiera con l’Ungheria (Užgorod, pur essendo capoluogo regionale, è prossima al confine slovacco) ora Kiev pianifica il dispiegamento in quel distretto di un battaglione della 128° brigata d’assalto di montagna e già il 2 agosto il Ministro della difesa golpista, Stepan Poltorak, è volato nella regione; dove, con il governatore Gennadij Moskal, ha deciso la realizzazione delle relative infrastrutture anche a Užgorod e Mukačevo, non da ora centro di scontri tra squadristi di Pravyj Sektor e padrini locali per il controllo del narcotraffico frontaliero e del contrabbando di materie prime.
Anche il capo della nuova OUN, l’organizzazione dei nazionalisti ucraini, Bogdan Cervak, che ricopre anche l’incarico di vice Presidente del Comitato di stato per radio e televisione, ha suggerito di considerare “la visita del plenipotenziario ungherese come inizio “dell’occupazione” e di arrestarlo immediatamente. Il governo ungherese”, ha dichiarato Cervak “ha superato la linea rossa. La nomina di un “plenipotenziario per le questioni della Transcarpazia” è una diretta ingerenza negli affari interni dell’Ucraina, un attentato alla sua integrità territoriale”. Non solo: è anche “il risultato della mancanza di spina dorsale delle autorità locali, che ascoltano più Budapest di Kiev” e, come risultato, abbiamo oggi “insolenza e disprezzo per il paese. Il Ministero degli esteri ha consegnato una nota di protesta. Ma, a quanto sembra, questo è poco. C’è bisogno di passi decisi che dimostrino che l’Ucraina deve essere rispettata”.
Quali sono questi passi? Introdurre “unità dell’esercito nella Transcarpazia e prepararsi a combattere; presentare a Budapest le richieste di risarcimento morale e materiale, per i crimini commessi nel 1939 dagli occupanti ungheresi nei Carpazi ucraini. Infine, qualcuno dovrà pur rispondere delle vittime del passo di Veretskii, allorché centinaia di ucraini furono uccisi perché volevano vivere nel proprio stato”. E, per quanto riguarda personalmente il plenipotenziario: “Portiamolo al passo Veretskij: che si penta e chieda perdono; dopo di che, lo si può cacciare fuori dai confini statali: ma facciamolo in modo tale che dimentichi una volta per tutte la strada per tornarci”.
Il riferimento di Cervak è alla fucilazione da parte dei nazionalisti ungheresi di circa cinquecento ucraini dell’organizzazione Seč (accampamento) dei Carpazi, una delle varie formazioni armate nazionaliste presenti all’epoca in Ucraina; in seguito all’occupazione nazista, parte dei suoi componenti passò direttamente nelle file della Wehrmacht, parte andò a infoltire i ranghi della filonazista OUN-UPA di Bandera e Shukhevic.
Tra nazionalismi, è difficile che, prima o poi, la parola non passi alle canne dei fucili.
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