Il Centrum für Europäische Politik dimostra, come vedremo, che l'euro ha tolto soldi ai cittadini italiani ma ha riempito le tasche dei cittadini tedeschi. Questo non basta: si prospetta una nuova recessione economica. L'Italia sembra oggettivamente paralizzata sull'orlo del precipizio (e questa volta non per sua colpa). Per rilanciare l'economia il governo italiano dovrebbe finanziare estesamente molti piccoli e grandi investimenti pubblici, ma mancano i soldi necessari. Il problema è che la Banca Centrale Europea non può sovvenzionare gli stati e pompa moneta solamente per le banche; ma le banche commerciali non hanno interesse a fare credito a favore di una economia depressa. Gli operatori finanziari lucrano invece sui debiti pubblici e chiedono tassi di interesse sempre più elevati per prestare denaro agli stati. Così i paesi dell'eurozona non trovano le risorse per fare gli investimenti necessari a rivitalizzare l'economia. Inoltre, l'Unione Europea impone ulteriori restrizioni di bilancio pubblico. Il cappio si sta stringendo. La crisi italiana potrebbe facilmente precipitare.
In questo contesto di crisi annunciata tocca alla politica percorrere strade innovative e alternative per difendere e risollevare l'economia nazionale. A mali estremi estremi rimedi. Una maniera concreta di dare ossigeno monetario e fiscale al nostro Paese è che il governo emetta urgentemente dei titoli quasi-moneta complementari all'euro. Pur restando nell'eurozona i Titoli di Sconto Fiscale a favore delle famiglie, delle imprese e degli enti pubblici potrebbero legittimamente (e senza infrangere nessuna regola europea) affiancare l'euro e neutralizzare gli effetti deflazionistici della moneta unica.
L'euro fa male all'Italia ma fa molto bene alla Germania
Dal 1999, anno di introduzione della moneta unica europea, al 2017 la Germania ha guadagnato quasi 1900 miliardi di euro dall'euro, mentre l'Italia nello stesso periodo di tempo ha perso la somma enorme di 4325 miliardi. Ogni cittadino tedesco ha guadagnato più di 21mila euro grazie alla moneta unica, mentre ogni italiano ha perso la bellezza di 73mila euro a causa della moneta europea. Questi i risultati di uno studio condotto dal Centrum für Europäische Politik e intitolato: 20 Years of the Euro: Winners and Losers[1]. Il CEP conta tra i suoi fondatori Hans Tietmeyer e Jürgen Stark, due ex pesi massimi della Banca Centrale Europea: quindi non si può certo affermare che sia pregiudizialmente contro l'euro. L'istituto ordoliberale (versione tedesca del liberismo) ha condotto la ricerca utilizzando il metodo del “controllo sintetico”. Con questo metodo la dinamica reale del PIL pro capite di un paese della zona euro viene confrontata con la tendenza ipotetica dell'economia di quello stesso paese supponendo che non abbia introdotto l'euro (scenario controfattuale).
Fonte: Centrum für Europäische Politik, febbraio 2019
Lo scenario controfattuale è generato estrapolando la tendenza del PIL pro-capite nei paesi che non hanno introdotto l'euro e che però negli anni precedenti hanno riportato andamenti economici molto simili a quelli del paese indagato dell'area dell'euro (gruppo di controllo). L'indagine è basata su serie di dati storici ed algoritmi statistici: ovviamente – come tutte le indagini del tipo “cosa sarebbe successo se invece di un evento ne fosse accaduto un altro” – non dimostra nessi causali e non può dare risultati precisi: tuttavia lo studio statistico indica certamente delle tendenze attendibili e inequivocabili. I risultati sono che Germania e Olanda hanno guadagnato centinaia di miliardi dall'euro, mentre Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Belgio hanno perso. E l'Italia è quella che ha perso di più, oltre 4000 miliardi, per l'impossibilità di attuare politiche espansive e l'impossibilità di svalutare per riallineare i suoi prezzi – come invece ha fatto con successo a partire dagli anni '60 fino all'avvento dell'euro – e tornare competitiva verso la Germania e gli altri Paesi europei.
I dati della Banca Mondiale: l'eurozona è ferma. E c'è un nuovo rischio di recessione.
L'euro, con la sua architettura deflazionistica, è un freno potente per lo sviluppo dell'economia europea. Impedisce di contrastare le dinamiche negative dell'economia aumentando la spesa pubblica in funzione anti-ciclica anche grazie ai deficit di bilancio. Per questo motivo l'eurozona non è mai veramente uscita dalla crisi. Secondo la Banca Mondiale nell'area dell'euro il Prodotto Interno Lordo (PIL) espresso in dollari nel 2017 è stato inferiore rispetto a quello del 2009; nello stesso periodo il PIL è cresciuto del 139% in Cina, del 96% in India e del 34% negli Stati Uniti[2]. Espresso in euro e non in dollari, il PIL nell'eurozona è cresciuto solo di un misero 0,6% all'anno[3]. I paesi europei fuori dall'euro – come Danimarca, Polonia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia, Bulgaria, Croazia, e Ungheria – sono cresciuti di più e hanno tassi di disoccupazione generalmente inferiori.
Le previsioni sull'economia dell'eurozona sono tutte al ribasso. Secondo l'agenzia statistica Eurostat il PIL nei 19 paesi della moneta unica è aumentato dello 0,2% nell'ultimo trimestre 2018 e dell'1,2% su base annua. Secondo la Commissione Europea nel 2019 se tutto andrà bene (e questo non è facile...) la crescita dell'eurozona sarà intorno all'1,3% rispetto all'1,9% del 2018[4].
In Italia il PIL del 2018 è ancora inferiore per circa il 5% a quello di 10 anni fa. Affermare che l'euro ci ha difeso dalla crisi è quindi assolutamente falso. La colpa del declino italiano non è certamente solo dell'euro. Le classi dirigenti italiane hanno dimostrato inettitudine e debolezza. Ma l'euro non è certamente innocente e l'Europa non ci ha aiutato: anzi gli stati dominanti, Germania e Francia hanno approfittato delle nostre ingenuità europeiste per imporre la loro prevalenza.
E' del tutto ragionevole ipotizzare che se venti anni fa non avessimo aderito all'euro avremmo inizialmente sofferto a causa delle svalutazioni della lira, e quindi per l'aumento dei prezzi dei beni importati, ma poi ci saremmo ripresi presto anche grazie all'aumento delle esportazioni conseguenti alla svalutazione stessa. Così del resto avvenne dopo che abbandonammo il Sistema Monetario Europeo nel 1992. Il colpo iniziale sarebbe stato duro ma poi l'economia sarebbe ripartita, e oggi quasi certamente non ci troveremmo con una diminuzione del 5% del PIL, con tutte le grandi banche privatizzate, e quasi tutte le grandi banche e le maggiori imprese (vedi per esempio Telecom Italia e Pirelli) in mano agli stranieri, gran parte dell'industria pubblica chiusa o svenduta all'estero e la disoccupazione e la povertà ai massimi livelli.
La svalutazione non è (sempre) un male
Apro una breve parentesi sulla svalutazione. Purtroppo quasi tutti i politici e molti economisti, soprattutto di sinistra, demonizzano le svalutazioni e credono, in buona o cattiva fede – che le svalutazioni siano il male assoluto e la rovina dell'Italia. Per molti il grande merito dell'euro è che finalmente non possiamo più svalutare[5]. Questo però non è certamente un merito: infatti tutti i Paesi – come gli Stati Uniti di Donald Trump, il Giappone di Shinzō Abe, la Cina nel recente passato, la Gran Bretagna, e la stessa Germania (che ha guadagnato entrando nell'area dell'euro una moneta più debole del precedente marco) – per uscire dalla crisi hanno usato, e stanno tuttora usando, la svalutazione delle loro monete.
Se il mercato internazionale svaluta una moneta significa solo che i compratori esteri impongono una diminuzione dei prezzi di quel Paese, ma non significa perdere la faccia o l'“onore”, come ci fanno credere i media più blasonati: non a caso praticamente tutti i Paesi cercano di svalutare quando sono in crisi. La svalutazione permette di guadagnare tempo per tornare a essere competitivi e riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Certamente questo tempo guadagnato non va sprecato e, se le svalutazioni continuano a spirale, portano alla rovina del Paese. Ma di per sé svalutare non è certamente un “peccato mortale”. Anzi, il riallineamento monetario – previsto peraltro anche nel celebrato sistema di Bretton Woods di cambi fissi – è un fatto normale nella vita economica. E' anormale e suicida agganciarsi invece a una moneta troppo forte. Ed è anormale “fottere” i paesi esteri tenendo artificialmente basso il valore della propria moneta per conquistare un surplus enorme a danno degli altri Paesi, come fa da decenni la Germania grazie all'euro.
Se non fossimo entrati nell'euro – come del resto hanno fatto paesi come la Gran Bretagna e la Svezia – avremmo certamente subito delle svalutazioni all'inizio della crisi. Avremmo subito un colpo duro, i mercati avrebbero svalutato la lira, ma poi prevedibilmente l'Italia con la sua forte manifattura avrebbe ripreso a marciare. Grazie alla possibilità di attuare manovre anticicliche non ci ritroveremmo dopo più di dieci anni dalla “Grande Crisi dei Subprime” con il 5% di PIL in meno e il 10% e oltre di disoccupazione, con una generazione perduta senza un lavoro dignitoso, e il Paese spaccato e diviso tra il ricco Nord da una parte e il Sud dall'altra parte in caduta libera e in mano alle mafie (gli unici soggetti, insieme alle banche, che dispongono ancora di grande liquidità). Oggi però uscire dall'euro è troppo rischioso, dividerebbe il Paese, ed è meglio trovare soluzioni nazionali dentro il quadro dell'eurozona.*
Il mondo affoga nei debiti. Vincono i “padroni della moneta”
L'eurozona e Italia stanno entrando di nuovo in una fase di stagnazione, o anche peggio, di recessione. La causa della debolezza dell'economia dell'eurozona è l'architettura deflazionistica della moneta unica e la crescita abnorme del debito globale fuori dall'eurozona. Praticamente tutte le maggiori economie del globo – a partire da quella americana, cinese e giapponese – sono frenate dal peso crescente dei debiti, che sono arrivati a livelli francamente pazzeschi e insostenibili. Il Fondo Monetario Internazionale calcola il debito mondiale in 184 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari, pari al 225% del Pil globale.
Di più: secondo un'analisi dell'Institute of International Finance, i debiti del mondo si aggirano intorno al record di 244 trilioni di dollari, pari a più di tre volte la dimensione dell'economia globale. Paradossalmente il debito pubblico dei paesi dell'eurozona è invece sostenibile, perché è pari solo all'87% del PIL dei Paesi dell'area euro. Il vero problema è il debito privato, e in particolare quello fuori dall'area dell'euro. Tuttavia Berlino insiste nel diminuire rapidamente – fino al 60% del PIL totale – i debiti dei paesi dell'euro: i quali però sono già sostenibili! In realtà il governo tedesco vuole solo imporre tagli selvaggi e la privatizzazione del sistema del welfare universalistico che caratterizza la civiltà e le società europee.
Il colossale debito che grava sull'economia mondiale deriva essenzialmente da un'economia malata di capitalismo finanziario e di speculazione, sconvolta dai derivati e dai titoli tossici (le forme più spurie e pericolose di debito) che hanno continuato a proliferare senza limite e senza regolazione, nonostante l'esperienza della crisi del 2008. Il capitalismo finanziario non è riuscito a riformare sé stesso e si avvicina una nuova grave crisi finanziaria. Chi guadagna dal debito crescente sono le grandi banche d'affari, e poi gli enti finanziari come i fondi di investimento, gli hedge fund, i fondi speculativi, insomma i “padroni della moneta”.
L'aumento dei debiti e le guerre commerciali prima o poi provocheranno una nuova devastante crisi, nell'eurozona e altrove. Non c'è dubbio che l'eurozona sia il vaso di coccio tra quelli di ferro. L'euro è infatti certamente più fragile del dollaro, dello yen e dello yuan o del franco svizzero. La crisi dell'euro continua ancora e l'Italia è il punto debole dell'eurozona. Almeno fino a quando i governi italiani non riconquisteranno la loro autonomia e non subiranno più passivamente tutti i vincoli dell'euro.
Le riserve liquide delle banche sono colme ma agli stati mancano i soldi
La politica dell'eurozona impone di aumentare le tasse e tagliare la spesa pubblica per ripagare il più presto possibile i debiti pubblici. Ma l'austerità ammazza l'economia già colpita dalla crisi. Il trattato di Maastricht e il Fiscal Compact impongono il suicidio per strangolamento dei paesi debitori a favore di quelli creditori. Il dogma dettato dalla UE è la restituzione immediata dei debiti attraverso l'austerità. Se gli stati dell'eurozona cercano invece di attuare manovre espansive, i mercati alzano il prezzo dei loro prestiti a livelli difficilmente sostenibili. Così gli stati più deboli sono obbligati a pagare interessi più elevati e i debiti aumentano a spirale. Per uscire dal tunnel dei debiti gli stati dovrebbero rivitalizzare le loro economie, fare crescere le attività produttive e i redditi, creare occupazione mettendo in circolo nuova moneta. Se il PIL aumenta è facile ripagare i debiti. Ma agli stati mancano i soldi per avviare gli investimenti pubblici indispensabili per riaccendere l'economia. Così il cappio si stringe.
La moneta è il fertilizzante dell'economia. Ma proprio la moneta non gira nell'economia italiana. La moneta è congelata nelle riserve bancarie. Anche la Banca Centrale Europea di Mario Draghi non può fare quasi nulla per immettere moneta nell'economia. Per questo motivo gli stati dell'eurozona dovrebbero intervenire autonomamente con misure alternative. La domanda è insufficiente e, se non c'è abbastanza domanda, l'attività produttiva stagna e dilagano disoccupazione e povertà. Non a caso l'economia dell'area euro è nuovamente sull'orlo della recessione. E ancora una volta la BCE è chiamata a pompare denaro per cercare di salvare una economia soffocata dalla mancanza di liquidità[6].
Il problema però è che la Banca Centrale Europea può solo tappare temporaneamente delle falle che diventano sempre più ampie. Anche perché – nonostante quello che scrivono i grandi media, in buona o cattiva fede – la BCE non dà e non può offrire direttamente liquidità all'economia reale, ma può solo gonfiare le riserve delle banche. L'attività della BCE migliora semplicemente i coefficienti patrimoniali della banca. Ma le riserve costituiscono un sistema chiuso e non possono essere collegate al credito[7]. Non a caso le riserve bancarie depositate in BCE si stanno gonfiando a dismisura, sono pari a circa 1900 miliardi, ma nell'intera eurozona il credito cresce invece in maniera insufficiente e disequilibrata. Crescono i valori finanziari (e le bolle finanziarie) ma i crediti all'economia produttiva non ripartono.
In Italia, secondo i dati dell’Abi, il credito bancario erogato alle società non finanziarie e alle famiglie è addirittura diminuito con il QE: è passato dai 1420 miliardi del marzo 2015 (quando è iniziato il QE) ai 1329 miliardi del dicembre scorso, con un saldo negativo di 91 miliardi. Il problema è che la BCE non può obbligare le banche a concedere prestiti. E siccome le banche usano le riserve della BCE per rimettere a posto i loro conti disastrati dai titoli tossici e dai crediti deteriorati, esitano a prestare denaro. L'offerta di moneta bancaria è carente ma i problemi riguardano anche la domanda.
Le imprese – soprattutto quelle piccole e medie – sono già indebitate e non vedono prospettive positive, e quindi non vogliono indebitarsi ulteriormente per investire nel futuro. Anche le famiglie esitano a contrarre nuovi debiti dal momento che diminuiscono i redditi e crescono disoccupazione e precarietà lavorativa. Insomma: i tassi di interesse della BCE sono a zero, la BCE dà soldi alle banche, ma “il cavallo non beve”.
Senza domanda e senza crescita della produzione il debito pubblico italiano aumenterà, e quindi c'è il rischio molto concreto che lo spread cresca ancora e che l'Unione Europea ci chieda un'austerità sempre più dura: aumenti di tasse (vedi aumento dell'IVA) e tagli selvaggi alla spesa pubblica (vedi spending review di Carlo Cottarelli). Il governo giallo-verde non avrà vita facile.
Per rompere il circolo vizioso bisognerebbe attuare una politica keynesiana, cioè occorrerebbe che gli stati aumentassero la spesa pubblica ricorrendo anche al deficit di bilancio. Ma questo viene impedito dalla UE. Le decisioni della diarchia franco-tedesca a proposito sono chiare: in caso di crisi l'accesso al cosiddetto Fondo Salvastati (l'European Stability Mechanism) sarà garantito solo ai Paesi che si sottosteranno pienamente ai vincoli restrittivi dell'austerità. La diarchia vorrebbe che l'Italia si sottomettesse come la Grecia.
Tocca ai governi emettere titoli quasi-moneta per rivitalizzare l'economia
A questo punto della crisi occorrono proposte nuove prima che tutto precipiti. In questa situazione gli stati nazionali devono trovare autonomamente le risorse monetarie per rilanciare gli investimenti pubblici e l'economia, senza aspettarsi aiuti dalla UE o dalla BCE. Tocca alla politica nazionale riprendere l'iniziativa e risanare l'economia ammalata di debiti, pubblici e privati. Tutto questo restando saldamente dentro i vincoli dell'euro per non provocare una nuova crisi che colpirebbe innanzitutto il lavoro e gli strati più poveri della popolazione. La risposta del governo, dentro il quadro dell'euro, non può essere che l'emissione di titoli pubblici con valore di moneta.
L'unica maniera possibile di rilanciare la domanda è che gli stati e i governi nazionali – il governo italiano auspicabilmente per primo – prendano coraggiosamente l'iniziativa di emettere una “quasi-moneta” nazionale, ovvero dei titoli convertibili in euro da assegnare senza debito e senza compensi agli enti pubblici, alle famiglie e alle imprese per ridare ossigeno ad una economia da troppi anni artificialmente compressa dalla austerità teutonica dell'euro.
Per evitare la crisi il governo italiano dovrebbe emettere urgentemente Titoli di Sconto Fiscale negoziabili a maturità differita per almeno il 2-3% del PIL. La manovra espansiva potrebbe durare complessivamente tre anni[8].
Al quarto anno dall'emissione i TSF potrebbero essere usati per ridurre i pagamenti delle tasse, dei contributi, delle tariffe pubbliche, ecc. I TSF sarebbero però immediatamente convertibili in euro sul mercato finanziario a un tasso di sconto minimo. Queste titoli di stato andrebbero distribuiti a titolo gratuito agli enti pubblici, alle famiglie (circa 100 euro in più al mese di media) e alle imprese come riduzione del cuneo fiscale per creare occupazione e rilanciare gli investimenti. Così si incrementerebbe il potere di acquisto dei soggetti economici, ripartirebbe la domanda, e con essa gli investimenti pubblici e privati e i consumi.
La manovra non aumenterebbe però il deficit pubblico perché all'emissione lo stato non sborsa nulla e non chiede assolutamente nulla al mercato finanziario. Quindi niente aumento dello spread. Alla scadenza dei TSF, cioè al quarto anno, la crescita del PIL – dovuta al moltiplicatore e a un delta di inflazione – sarà tale che il gettito fiscale sicuramente coprirà il valore nominale di emissione dei TSF creati tre anni prima. Quindi niente deficit.
Il fattore vincente di questa proposta è che i TSF sarebbero sicuramente accettati dalla BCE e dal sistema bancario. Emettere TSF significa infatti emettere dei titoli certamente considerati investment grade dalle agenzie di rating, perché completamente garantiti dal loro valore fiscale (infatti anche se lo stato fallisse e non avesse più gli euro per pagare i BTP, i TSF potrebbero essere ugualmente utilizzati per ottenere riduzioni fiscali). Come titoli investment grade i TSF sarebbero certamente accettati dalla BCE come collaterale per i prestiti alle banche, e allora verrebbero pienamente accettati anche dal sistema bancario. Questo garantirebbe il loro pieno successo.
NOTE
[1] Alessandro Gasparotti und Matthias Kullas, cepStudy “20 Years of the Euro: Winners and Losers. An empirical study”, February 2019
[2] Walter Russell Mead, Wall Street Journal, “Incredible Shrinking Europe. The Continent’s grand unity project is failing, and its global influence is fading” 11 Febbraio 2019 .
[3] Walter Russell Mead, Wall Street Journal, “Europe’s Challenge Is Decline, Not Trump Even George Soros warns that the EU may ‘go the way of the Soviet Union in 1991”18 Febbraio 2019
[4] Reuters “EU slashes euro zone growth outlook, expects inflation to slow”, 7 Febbraio 2019
[5] Vedi per esempio Alfonso Gianni, ex sottosegretario allo Sviluppo Economico nel secondo governo Prodi, che sul Manifesto ha scritto “Non si possono dimenticare esperienze storiche anche recenti, come quella del nostro paese (ma non solo) che nel 1992 vide contemporaneamente la svalutazione della lira e il seppellimento definitivo della scala mobile”. 15 Gennaio 2019
[6] Enrico Grazzini, Micromega on line “Quantitative easing: un bilancio fallimentare”, 31 Gen 2019
[7] Banca Centrale Europea “Cos’è la liquidità in eccesso e perché è importante?”, 27 Dic 2017
[8] Enrico Grazzini, Micromega on line “L’Italia e l’euro potrebbero rafforzarsi con l’emissione di Titoli di Sconto Fiscale”, 26 giugno 2018
(1 marzo 2019)
Enrico Grazzini
Fonte
* opinabile ovviamente ma qui interessano le soluzioni concrete proposte dall'autore che a sinistra, nonostante una finissima analisi della situazione contingente, mancano del tutto.
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