di G. Jack Orlando
Dagli anni ‘90 ad oggi il cosiddetto secolo breve
è andato chiudendosi con una recrudescenza delle tendenze fasciste in
seno alle società occidentali, tendenze che vanno dal risorgere di
organizzazioni militanti neonaziste, ad un clima sociale segnato dal
sospetto e dall’aggressività xenofoba, fino ad un modus operandi
delle democrazie rappresentative che fa sempre più a meno del suo ruolo
di mediatore tra classe subalterna e classe dominante, ponendosi come
strumento di governo unilaterale e unicamente funzionale all’economia di
mercato.
Il terzo millennio, quello del neoliberismo, ha emesso i suoi primi
vagiti nel momento stesso in cui metteva una pietra tombale sull’assalto
al cielo che la gioventù ribelle dei Sessanta e Settanta aveva tentato,
spesso con realistiche possibilità di successo.
La grande stagione rivoluzionaria di livello mondiale che ha
caratterizzato il ventennio ‘60-‘70 invece è stata soffocata a vario
titolo ovunque, per lo più tramite una strategia contro-insurrezionale
di triplo livello: in primis gli Stati capitalisti si sono
attrezzati con dispositivi repressivi di nuova foggia, armandosi contro
le cosiddette classi pericolose con tutto un arsenale
militare-poliziesco volto al contenimento delle istanze proletarie e
all’annichilimento delle sue organizzazioni d’avanguardia; vedasi in
questo senso i casi emblematici del COINTELPRO in USA o della Strategia
della Tensione e del circuito delle carceri speciali italiane, o di
quei provvedimenti legislativi d’emergenza mai smantellati come la Legge
Reale tutt’ora in vigore.
In secondo luogo si è puntato a dividere i fronti progressisti
assorbendo le istanze dei settori borghesi, isolandone così gli elementi
intellettuali dalla loro internità alla rivolta e privando quest’ultima
delle sue possibilità teoriche e rappresentative ed il boom economico
degli anni ‘80, ad esempio, ha assolto anche questa funzione deviando le
forze intellettuali dal conflitto verso il riformismo e il carrierismo.
In ultimo, affinché non potesse più ripetersi l’ipotesi di un nuovo
slancio rivoluzionario, si sono letteralmente frantumate la comunità di
appartenenza proletaria, andando a distruggere ogni legame sociale, ogni
elemento di solidarietà ed identità collettiva che potessero riunire la
classe subalterna in un nuovo slancio sovversivo: è tragicamente
esemplare la strategia adottata in USA, Spagna ed Italia per cui crimine
organizzato e apparati di intelligence inondarono i quartieri
proletari di eroina e crack falcidiando un’intera generazione,
devastando il tessuto dei territori e lasciando pesanti strascichi anche
oltre il breve periodo.
Una tale opera di oppressione, ovviamente accompagnata da una
generale ristrutturazione del capitalismo, è madre del Neoliberismo
attuale: lo Stato occidentale, così come lo conosciamo ora è una
creatura covata nel grembo della Commissione Trilaterale. Le forze
politiche dei lavoratori vengono via via ridotte all’osso e si erodono
parallelamente i cardini dello Stato Sociale; in molti casi il
rapporto principale che ha un proletario con la sua amministrazione è
mediato dalle divise della polizia, mentre la responsabilità dei governi
è diretta verso gli organismi che controllano il Mercato e prescinde,
in modo a volte grottesco, dai meccanismi del suo stesso sistema
elettorale-rappresentativo.
Sul cosiddetto scacchiere internazionale è la fase 1989-91 che segna
un punto di svolta: il crollo del Muro di Berlino e dell’URSS, anche se
ormai in declino tra gli stessi socialisti/rivoluzionari, trascina nel
baratro con sé anche il più solido punto di riferimento storico e
politico di antagonismo al sistema capitalista. Senza il socialismo reale anche tutte le altre eresie
socialiste autonome occidentali e/o terzomondiste ne escono indebolite,
e così il neoliberismo anglosassone si estende a macchia d’olio
imponendo ovunque i suoi meccanismi, imponendosi come unico pensiero dominante e come unica
cultura ufficiale. La sua narrazione dipinge una società in cui sono
scomparse tutte le divisioni di classe in virtù di un comune cammino
dell’umanità intera verso un progresso che altro non è che accumulazione
compulsiva di capitale su scala planetaria: la Storia si vuole finita.
Ma nonostante tutte le mistificazioni la Storia continua il suo
corso. Le crisi economiche sempre più frequenti, le crescenti disparità
sociali che dalla seconda metà dei ‘90 fino ad oggi, con la crisi
strutturale che dura dal 2008 e segna una nuova fase storica del
capitalismo globale, scadenzano il ritmo della Democrazia del Libero
Mercato e dimostrano come sotto la cenere ci siano braci che ancora
scottano e ferite che sono ben lungi dal rimarginarsi: se per alcuni la
ricchezza sale vertiginosamente, per molti altri il piatto si
impoverisce di giorno in giorno.
Esplosioni incontrollate di rabbia delle periferie (dalla Los Angeles del ‘92 alla Parigi dei Gilets Jaunes),
movimenti di critica antisistemica (No Global, Occupy, Indignados ecc.)
stanno a testimoniare come non ci sia effettivamente nulla di
pacificato sotto il sole d’Occidente.
La Storia continua a riemergere dall’abisso ogni volta che un ghetto
americano insorge contro la brutalità della polizia, ogni volta che una
nuova manovra finanziaria viene battezzata a colpi di molotov davanti al
parlamento ellenico, ad ogni resistenza ai tentativi di golpe in
America Latina, ad ogni resistenza del popolo curdo ai disegni genocidi
ed imperialisti che si stendono sulla Siria.
Il neoliberismo voleva la Storia finita perché voleva, sostanzialmente,
la resa incondizionata dei popoli al suo volere, ogni resistenza avrebbe
dovuto perdere la sua ragion d’essere di fronte ad una sconfitta
annunciata, ma, parafrasando il vecchio Marx: la violenza, o il
conflitto, continua ad essere levatrice del corso degli eventi.
La risposta degli Stati è, a grandi linee, sempre la stessa: da un
lato repressione, zero tolleranza, disciplina del manganello; dall’altro
la normalizzazione delle richieste più compatibili, la cooptazione
delle frange più moderate nella gestione del presente.
Lo Stato Neoliberista non ammette critiche né compromessi che devino
dalla sua rotta, è uno Stato dominato dalle logiche di polizia: uno
Stato di controinsurrezione permanente.
Anche senza i connotati e le liturgie tipici dei totalitarismi di
destra, un’istituzione statuale che ha come obbiettivi cardine il
contenimento preventivo di ogni istanza proletaria e la tutela assoluta
delle necessità del Capitale, non fatica a essere definito fascista; questo d’altronde è il ruolo storico che qualsiasi lettura materialista della Storia assegna al fenomeno fascismo.
Quello che il Capitale cerca è un popolo che non conosce divisioni al
suo interno, che opera in armonia per la prosperità della propria
nazione, un popolo che dall’alto della sua superiorità morale, della sua
bianchezza, si definisce a partire dalla negazione dell’altro e
che non può accettare una critica volta al cambiamento radicale della
sua essenza, un popolo che per sentirsi sicuro deve percepirsi
asserragliato tra nemici dai lineamenti tanto vaghi da essere quelli di
chiunque attorno a sé.
Una tale fisionomia calza a pennello alla società di Reagan, di Salvini o
di Hitler praticamente alla stessa maniera. Neoliberismo e Fascismo si
somigliano già nel guardarsi allo specchio.
È ovvio, poi, che se una società si vuole senza contrasti, deve
trovare il suo nemico all’infuori della propria cornice comune, un capro
espiatorio verso cui indirizzare tutte le pulsioni violente determinate
dalla propria costante alienazione. Ed è altrettanto ovvio che il capro
espiatorio perfetto siano proprio quei prodotti di scarto che l’ordine
neoliberista produce nel suo incedere: clochard, hustlers
e marginali che non trovano posto nel mercato del lavoro, migranti e
profughi partoriti dalle deliranti avventure militariste NATO o dei
disastri ambientali causati dallo sfruttamento esasperato delle risorse,
in ultimo i ribelli, i rivoluzionari e tutti i devianti che in qualche modo risultano come anomalie consapevoli ed incompatibili con l’ordine regnante.
In un clima socio-culturale asfittico come questo, è quasi scontato
che emergano rigurgiti neofascisti che si richiamino direttamente alle
esperienze del fascismo storico. Così, come complemento e
ricaduta della controinsurrezione permanente, si sviluppano aggregati di
individui dalla faccia ribelle ma dal cuore di sbirro. Ecco allora che
negli anni ‘90 iniziano a circolare i nomi e le estetiche dei nuovi
interpreti dello squadrismo: HammerSkin, Blood & Honour, Front
National, Fiamma Tricolore e molti altri ancora. Formazioni di nicchia
con scarso seguito e rapporti spesso ambigui con i milieu del
crimine organizzato e dei servizi di intelligence, in cui alle volte
operano al loro interno personaggi legati alla destra radicale della
stagione dei ‘70, con precedenti relativi alla repressione parastatale,
allo stragismo o alle guerre per procura.
Il fenomeno neofascista è attualmente un movimento politico con al
suo interno profonde differenze in merito a linee strategiche,
riferimenti ideologici e referenze tattiche. Una galassia che va da
forme partitiche, rappresentate a livello istituzionale anche in maniera
cospicua (si veda il Front National di Marine Le Pen, la Lega
salviniana o lo Jobbik ungherese), a organizzazioni con un discreto
potenziale militante e dall’indirizzo più sociale (Casapound Italia,
Hogar Social, Bastion Social, Genaration Identitaire e affini), nuclei
più piccoli di ispirazione estremista, un’attitudine più violenta ed una
vocazione presuntamente contro-culturale (i già citati Hammerskin o il
Veneto Fronte Skinhead) fino a vantare la presenza di strutture
paramilitari con tanto di arsenali a disposizione (Pravy Sector,
Battaglione Azov o la Magyar Garda).
Quale che sia il profilo dell’organizzazione, tutte le strutture convergono su alcuni punti specifici:
la denuncia del sistema finanziario (argomentato spesso con imbarazzanti
pregiudizi antisemiti), visto come causa del deterioramento dei valori
tradizionali dell’Occidente; esaltazione del concetto di Nazione in
chiave revanscista e imperialista; adozione di un modello di militanza
marziale ed aggressivo; azione politica fortemente xenofoba e
indirizzata contro i migranti accusati di portare degrado, malattie,
criminalità se non addirittura di invadere la patria per attuare non ben
precisati piani di sostituzione etnica; utilizzo di una retorica
mistificatoria imperniata attorno ai concetti di “razzismo a rovescio” e
“scontro di civiltà”.
La galassia nera, come è definita da qualche giornalista,
vive un rapporto mutualistico con lo Stato neoliberista. Si muove
all’interno di quella cultura di paranoia e securitarismo diffusa dallo
Stato stesso, intercettandone le componenti più esasperate e spingendo
il discorso politico verso destra, grazie al risalto che i media
destinano loro in chiave sensazionalistica/scandalistica.
Pur dichiarandosi nemici irriducibili, nei fatti Stato e neofascisti
flirtano continuamente: stringono alleanze tra partiti destrorsi, godono
di internità nelle polizie e ottengono, a vario titolo, finanziamenti
ingenti da apparati statali. Queste organizzazioni si configurano come
gruppi di pressione politico-ideologica dai tratti a volte lobbisti,
in grado di esercitare il proprio peso all’interno di settori chiave
della vita pubblica e che, pur non cercando quasi mai una maggioranza
effettiva nelle istituzioni o nell’arco parlamentare, funzionano
essenzialmente come influencer minoritari ed attivi tanto dell’azione politica statale che del sentire comune dell’opinione pubblica, a questa funzionale.
In parole povere, il fenomeno del neofascismo militante, lungi
dall’essere un prodotto nemico e contrario allo Stato attuale, è un
prodotto naturale del neoliberismo, funzionale e complementare a questo:
un agente di repressione, disciplinamento ed orientamento informale.
Dovrebbe ricordarsene l’opinione pubblica liberale, ora che strepita
davanti a governi sovranisti, che è stata proprio la sua
socialdemocrazia a realizzare il perfetto terreno di coltura per
l’infezione neofascista: hai voglia a disprezzare le masse incolte e
retrive, a tagliare salari e servizi, a manganellare operai, a delirare
continuamente di sicurezza e polizia, a fare accordi con criminali di
guerra per istituire campi di concentramento anti-immigrati.
La sinistra da salotto borghese, amica delle imprese e dei diritti
civili, carrierista e mercante fino al midollo, ha lavorato per incubare
il germe della paura nella popolazione per farle ingerire politiche
mortifere, fino a che quella paura non gli si è girata contro in termini
di voti, di consensi, di legittimità. Fino a che la popolazione non si è
rivolta verso chi della paura e del manganello ne ha fatto una fede ed
una risposta tout court.
Ed ora che il vento gira in loro favore, i camerati calano per le
strade, imbrancano giovani disillusi e li armano di idee aberranti,
rispolverano criminali di guerra e li celebrano in pompa magna come
salvatori della Patria, riscrivono la Storia secondo fandonie e
ribaltoni imbarazzanti. Alla vulgata democratica che voleva il fascista
come sempliciotto ignorante e violento, il presente risponde
snocciolando tutta una sfilza di miti e concetti che riemergono dalle
latrine della storia, mai morti, mai dimenticati del tutto.
Questo in molti paiono non capirlo ancora, o non volerlo ammettere: il
fascismo non è ignoranza, il fascismo ha una propria cultura che tramite
il culto dell’azione, dell’ordine e della forza risponde alle esigenze
spirituali di una civiltà in declino, assediata dalle paranoie e
dall’insicurezza, senza speranza nel futuro. Il fascista addita gli ultimi come
responsabili di ogni male, crea un nemico sulla cui negazione violenta
può costruire identità di popolo. Laddove la sinistra ha smesso di
parlare la lingua del conflitto per abbracciare quella delle start-up, il fascismo ha portato l’idioma, più comprensibile, della vendetta.
E mentre le organizzazioni neonaziste tornano a marcettare ed
aggredire, i loro colleghi più presentabili scalano i sondaggi e si
accreditano come forze di governo.
Ed ecco la violenza e il revisionismo che la borghesia liberale ha per
lungo tempo esercitato di sottecchi, divenire evidenti in tutta la loro
grottesca pericolosità.
Con i governi sovranisti la critica ed il dibattito sono diventati
sterili stanzoni riempiti di retorica e roboanti proclami che coprono,
nel clamore, provvedimenti legislativi volti alla restaurazione di un
ordine gerarchico e autoritario che, partendo dalla persecuzione dei
migranti, può allargarsi alla soppressione del dissenso radicale, alla
gogna di chi ancora dimostra un pensiero tutto sommato umano ed
equilibrato: i cosiddetti buonisti, traditori anti-italiani. La
critica non è più semplicemente ignorata ma espressamente stigmatizzata
ed umiliata con grossolani ed incontestabili concetti quali il buon senso, il pragmatismo.
Si avviano crociate contro l’aborto e il divorzio, per ristabilire
l’autorità patriarcale e la centralità della famiglia come universo
sociale privilegiato contro pericolose derive d’emancipazione femminile.
Si attacca il diritto di sciopero per non disturbare la produzione e la
ricostruzione del paese.
In fondo, quello di oggi, non è che l’ennesima fase del processo di
ristrutturazione di un capitalismo putrescente che per continuare a
vivere deve, per forza, liberarsi dai fastidi della contrattazione
politica, dal peso dello stato sociale. Un necrocapitalismo
che, producendo più morte che benessere, esige al suo fianco un
guardiano inflessibile e spietato. Il fascismo di oggi non necessita più
di eugenetica e simbolismi arcaici, semplicemente fa leva sulla perenne
emergenza, sull’ansia del domani, sulla mancanza materiale e
sull’assenza spirituale, è un Fascismo della Crisi.
Ecco perché, ben oltre le divisioni partitiche, a gestire le leve del
potere può aspirare solo chi della paura e della sicurezza ne ha fatto i
suoi cavalli di battaglia. Perché paura e sicurezza sono oggi, nell’era
della crisi permanente, il vero strumento di governo della popolazione.
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