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01/03/2019

Venezuela - La visione controcorrente di un ex dirigente Onu

di Pino Arlacchi

Nel momento in cui il supremo teorico della guerra non-occidentale, Sun Tzu, affermava che l’arte della guerra si basa sull’inganno, esistevano solo le guerre dichiarate e combattute con le armi della violenza fisica.

Ma l’insegnamento del teorico cinese era abbastanza profondo da dimostrarsi valido anche oggi, in tempi di guerra coperta, non convenzionale, combattuta con le armi dell’economia e soprattutto della finanza. Dove l’inganno consiste nella disinformazione e la disuguaglianza tra le parti contrapposte si basa sul possesso o meno dei mezzi di disinformazione di massa.

Se c’è una lezione che ho imparato dirigendo una parte non trascurabile dell’ONU è che, nelle cose del mondo, la verità dei fatti raramente coincide con la sua versione ufficiale. Anche in tempi di pluralismo informativo come i nostri, le idee dominanti – come diceva il vecchio Marx – sono ancora quelle della classe dominante. Che rivolta cose e fatti a suo uso e consumo.

Dietro ogni guerra c’è una menzogna.

E quello del Venezuela si configura oggi come un caso di guerra non convenzionale coperta da una gigantesca truffa informativa.

Chiunque abbia voglia di documentarsi sulla crisi del Venezuela consultando fonti diverse dalla vulgata prevalente farà fatica a mantenere la calma. Perché si scontrerà ad ogni passo con una narrativa falsa, omissiva e distorta.

Il principale mito da sfatare riguarda le cause di fondo del dramma venezuelano, unanimemente attribuite dai media occidentali al malgoverno degli esecutivi “socialisti” succedutisi al potere dopo il 1998, data dell’elezione del “dittatore” Chavez alla presidenza.

“Dittatura” confermata da 4 elezioni presidenziali e 14 referendum e consultazioni nazionali successive, e condotta sotto il segno di uno strappo radicale con la storia passata del Venezuela: i proventi del petrolio sono stati in massima parte redistribuiti alla popolazione invece che intascati dall’oligarchia e imboscati nelle banche degli Stati Uniti.

Se non si tiene conto di questa svolta della storia recente, non si capisce nulla del Venezuela di oggi. Un paese dal prospero passato, e ridotto quasi in miseria nel momento dell’arrivo di Chavez al potere, da un pugno di famiglie le cui ruberìe erano riuscite a far declinare il PIL procapite da 4.367 dollari nel 1980 a 3.874 nel 1998. Mentre negli stessi decenni Brasile, Colombia e altri paesi raddoppiavano la stessa cifra (dati Banca Mondiale).

Sotto Chavez, le spese sociali hanno raggiunto il 70% del bilancio dello Stato, il PIL procapite è più che triplicato in poco più di 10 anni, la povertà è passata dal 40 al 7%, la mortalità infantile si è dimezzata, la malnutrizione è diminuita dal 21 al 5%, l’ analfabetismo è stato azzerato e il coefficiente Gini di disuguaglianza è sceso al livello più basso dell’America Latina (dati FMI, UNDP e Banca Mondiale).

Ma la sfida più audace lanciata dal Venezuela “socialista” è stata quella diretta all’egemonia del dollaro. L’economia venezuelana ha iniziato ad essere de-dollarizzata favorendo investimenti non statunitensi, tentando di non farsi pagare in dollari le esportazioni, e creando il SUCRE, un sistema di scambi finanziari regionali basato su una cripto-moneta, il Petro, detenuta dalle banche centrali delle nazioni in affari col Venezuela come unità di conto e mezzo di pagamento.

Il tempo della resa dei conti con il Grande Fratello è arrivato perciò molto presto. E gli Stati Uniti hanno deciso di adottare contro il Venezuela la stessa strategia usata trenta anni prima da Nixon per distruggere il Cile di Allende: “far urlare l’economia”.

Il presidente progressista aveva osato sfidare le sanguisughe multinazionali nordamericane che condannavano il Cile alla miseria e alla dipendenza. La risposta fu il blocco finanziario, gli attentati e i disordini targati CIA, e il sabotaggio violento del governo tramite la fomentazione di scioperi e blocchi nei trasporti e negli snodi vitali dell’economia. Con l’esito finale dell’eliminazione fisica di Allende e l’avvento di Pinochet.

Ma il Venezuela di oggi è preda ancora più consistente del Cile. La nazione di Chavez-Maduro è, dopo la Russia, il paese più ricco di risorse naturali del pianeta: primo produttore mondiale di petrolio e gas, secondo produttore di oro, e tra i maggiori di ferro, bauxite, cobalto e altri. Collocato a tre ore di volo da Miami, e con 32 milioni di abitanti.

Poco indebitato, e capace di fondare una banca dello sviluppo, il Banco do Sur, in grado di sostituire Banca Mondiale e Fondo monetario come sorgente più equa di credito per il continente latinoamericano.

Una preda di queste dimensioni che si rivolta pacificamente, tramite libere elezioni, non è un affare di poco conto.

E’ per queste ragioni che la “cura cilena” degli USA contro il governo del Venezuela è inizialmente fallita. Il tentato golpe anti-chavista del 2003, le manifestazioni violente e gli atti eversivi di un’opposizione innaffiata di dollari, si sono scontrati con un esecutivo che vinceva comunque un’elezione dopo l’altra. Perché anche i poveri, dopotutto, votano.

Ma si è mai visto un leone che si è attaccato alla gola di una preda mollarla e lasciarla andare?

L’occasione per chiudere la partita si è presentata con la morte di Chavez nel 2013, l’elezione del più debole Maduro nello stesso anno, e il crollo del prezzo del petrolio, più che dimezzatosi dalla metà del 2014 in poi.

E’ Obama che decide nel 2015 di iniziare lo strangolamento del regime “autoritario”, “comunista” e “antiamericano” tramite una raffica di sanzioni unilaterali che vengono inasprite da Trump nel 2017 e nel 2018 con il risultato di mettere in ginocchio il paese. Il Venezuela viene espulso dai mercati finanziari internazionali e messo nelle condizioni di non poter più usare i proventi del petrolio per pagare le importazioni di ogni genere di beni.

La de-dollarizzazione del Venezuela è ancora agli inizi e non riesce che in piccola parte ad attutire la vulnerabilità della repubblica dalla stretta mortale del capitale finanziario americano. Quasi tutto ciò che entra in un’economia che produce poco al di fuori degli idrocarburi deve essere pagato in dollari contanti. E le sanzioni impediscono l’uso del dollaro. I fondi del governo depositati negli USA vengono congelati o sequestrati. Le sanzioni proibiscono il rimpatrio dei profitti della mega-raffineria del petrolio venezuelano collocata su suolo USA, e chiudono l’ accesso ai canali di rifinanziamento e di rinegoziazione del modesto debito estero del Venezuela. Gli interessi sul debito pubblico schizzano in alto perché le agenzie di rating al servizio di Washington portano il rischio paese a cifre inverosimili, più alte di quelle della Siria. Nel 2015 lo spread del Venezuela è di 2mila punti, per raggiungere e superare i 6mila nel 2017.

Gli economisti del centro studi CELAG hanno quantificato in 68,6 miliardi di dollari l’extra costo del debito venezuelano tra il 2014 e il 2017.

L’uso di strumenti alternativi di pagamento come la moneta virtuale Petro ed i depositi dei fondi di investimento governativi raggiunge prezzi proibitivi per via degli abnormi tassi di conversione verso il dollaro praticati dalle banche estere.

Il più micidiale degli effetti del blocco finanziario del Venezuela è il rifiuto delle principali banche internazionali, sotto scacco americano, di trattare le transazioni connesse alle importazioni del Venezuela. E’ tutta una sequela di ostruzionismo, tassi abnormi, chiusura di conti, blocco di fondi che strozzano le importazioni di beni vitali come il cibo, le medicine, le attrezzature sanitarie ed i prodotti indispensabili per il funzionamento dell’apparato produttivo. Gli ospedali venezuelani restano senza insulina e trattamenti antimalarici. I porti del paese vengono dichiarati porti di guerra, e le tariffe dell’import-export vanno anch’esse alle stelle.

Il valore delle importazioni crolla da 60 miliardi di dollari nel 2011-2013 a 12 miliardi nel 2017, portandosi dietro il tonfo del PIL.

I beni che riescono comunque ad essere importati vengono accaparrati e rivenduti di contrabbando dagli oligopoli dell’industria alimentare. Sono una decina di multinazionali che dominano il settore privato dell’economia del Venezuela. Ferocemente anti-governative, incoraggiate e protette da opposizione locale e governo USA.

Stiamo parlando del coagulo di potere politico-economico delinquenziale che sta distruggendo il Venezuela. Una “mega-mafia” nel senso letterale del termine perché si tratta di criminalità organizzata transnazionale cui vanno ricondotti sia il sabotaggio del CLAP, il piano di emergenza alimentare del governo che soccorre 6 milioni di famiglie tramite vendite sottocosto e distribuzioni gratuite di cibo, sia il denaro di origine venezuelana esportato nei numerosi paradisi fiscali della regione.

E’ stato calcolato dal CELAG che tra il 2013 e il 2017 l’aggressione finanziaria al Venezuela è costata tra il 110 e il 160% dei suo PIL, e cioè tra i 245 ed i 350 miliardi di dollari, pari a alla perdita di 8.400-12.100 dollari procapite e di oltre 3 milioni di posti di lavoro. Senza le sanzioni, l’economia del Venezuela, invece di dimezzarsi, si sarebbe sviluppata agli stessi tassi dell’Argentina.

Durante il 2018 si sviluppa una crisi umanitaria interamente indotta. Che si accompagna a un’iperinflazione altrettanto fasulla, senza basi nei fondamentali dell’economia, determinata da un attacco speculativo sulla moneta nazionale da parte del mercato nero del dollaro. Il profilo di questo attacco segue i classici canoni dell’attuale finanza mondiale che ho descritto nel volume che ho appena pubblicato: il lavoro sporco svolto in loco copre il lavoro pulito delle solite 6 banche d’affari di Wall Street.

Il tasso di cambio “nero” tra dollaro USA e bolivar viene determinato da un sito web apertamente illegale, Dolar Today, che pubblica cifre spropositate a svantaggio del bolivar e sulle quali operano una rete di squali finanziari USA. Squali e sito web sono direttamente collegati alle 6 sorelle di cui sopra.

Si spiega così il mistero di una iperinflazione venezuelana simile a quella della repubblica di Weimar nonostante la caduta della domanda aggregata ed una quantità di moneta nazionale diminuita del 91% dal 2014 in poi.

Quanto detto finora perfeziona lo scenario entro il quale sta avvenendo in Venezuela l’ennesimo cambio di regime (il 68° su scala mondiale dopo il 1945) progettato ed eseguito dagli Stati Uniti.

Concludendo. Il blocco totale dell’economia di una nazione per mettere a rischio la sopravvivenza fisica della sua popolazione e costringerla alla resa è un crimine contro l’umanità, ed equivale ad una guerra di aggressione.

Il rapporto ben documentato dell’esperto ONU che ha visitato il Venezuela nel 2017 (e di cui non avete mai sentito parlare e che contiene buona parte dei dati fin qui citati), De Zayas, propone appunto il deferimento degli Stati Uniti alla Corte Penale Internazionale per i crimini contro l’umanità perpetrati in Venezuela dopo il 2015. Ma state certi che non succederà niente, a dispetto delle analoghe conclusioni di un secondo esperto ONU.

*ex sottosegretario generale delle Nazioni Unite, direttore dell’UNDCCP (ufficio delle per il controllo delle droghe e la prevenzione del crimine) e direttore generale dell’ufficio delle Nazioni Unite a Vienna

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