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01/08/2019

Il “terrore staliniano” è ancora remunerativo


Ennesimo “russiagate”, questa volta a livello europeo. Quegli inguaribili staliniani (per chi ci crede, o chi lo vocifera) degli attuali inquilini del Cremlino si sono ingegnati a far sì che nella Repubblica Ceca una “vittima” del “terrore sovietico” venisse sbugiardata da un suo stesso connazionale.

Quegli stessi “bolscevichi” (come sopra) avevano già avuto successo, con uguale manovra, nel giugno del 2012, allorché avevano brigato perché nient’altri che la Corte europea per i diritti umani riconoscesse come un falso i “documenti” presentati a suo tempo dal duo Eltsin-Gorbačëv che, sulla scia göbbelsiana, facevano ricadere sul NKVD sovietico e non sui nazisti la responsabilità della fucilazione di alcune decine di migliaia di ufficiali polacchi nell’area dei monti Kozi, che i polacchi chiamano Katyn.

Dunque, nei giorni scorsi, ha attirato l’attenzione del settimanale Argumenty i Fakty e di vari media russi, il caso della ottantottenne ceca Vera Sosnarova, che, per una buona ventina d’anni, si è spacciata in patria come la più famosa reclusa ceca dei lager staliniani.

I suoi racconti su come, appena quattordicenne, nel 1945, insieme a madree e sorella, fosse stata arrestata da agenti del NKVD e avesse poi trascorso 19 anni in un lager, sono stati sbugiardati dal suo connazionale Adam Hradilek, dell’Istituto per lo studio dei regimi totalitari: una fondazione non esattamente stalinista. Nel volume “Krvavé jahody” (“Frutti insanguinati”) dedicato alla “storia” di Vera, compaiono scene come: “una volta eravamo tornati dal lavoro nel bosco e il comandante disse “tutti nelle baracche! Che nessuno esca”; noi non capivamo cosa stesse accadendo. C’era un granaio, in cui spinsero moltissime persone, poi lo cosparsero di combustibile e gli diedero fuoco. Arsero vive quelle persone”; scena che pare ripresa pari pari dal reale e tragico destino della Khatyn bielorussa, il villaggio distrutto dai nazisti nel marzo del ’43, con gli abitanti rinchiusi in un fienile e bruciati vivi. Oppure: “nel bosco i lupi ci seguivano, si univano in branchi, su ogni albero erano appostate le linci, che mangiavano quelli che urlavano”. Ancora: “Ci davano da mangiare borsh con carne umana. Lo capimmo quando trovammo delle dita nella zuppa”.

Per anni, Vera, originaria di Brno, ha tenuto “lezioni” universitarie, conferenze pubbliche e seminari su tali “misfatti” del NKVD, diventando l’eroina di TV e giornali, tanto che alcuni deputati si sono preoccupati di assegnarle un premio di Stato, finché, poche settimane fa, Adam Hradilek, indagandone la biografia, nell’ambito del progetto “Cittadini cecoslovacchi nel GULag”, non ha concluso che la donna non è mai stata in alcun lager. La sua famiglia era emigrata volontariamente in URSS, e per buoni motivi: la madre della Sosnarova era nata in Russia e, durante la guerra civile, aveva seguito un ufficiale del corpo cecoslovacco, associato ai contorivoluzionari bianchi; poi, durante l’occupazione nazista della Cecoslovacchia, aveva denunciato alla Gestapo un vicino di casa e, per sfuggire alla giustizia ceca, nel 1945 era tornata in URSS con le figlie nate in Cecoslovacchia: dunque, non arrestate dal NKVD per aver parteggiato per i bianchi 25 anni prima, come sostiene Vera.

Ma, e il GULag? Secondo Adam Hradilek, negli archivi di FSB e Ministero degli interni russi, non ci sono dati su Vera Sosnarova; Hradilek afferma che qualche volta gli viene negato l’accesso ai dati, in quanto segreti, ma in ogni caso si conferma che tali dati esistono. Nel caso della Sosnarova, la risposta è inequivocabile: non ci sono dati della sua presenza in carceri o campi dell’URSS e nemmeno su processi o riabilitazioni. Ve ne sono però negli archivi civili: Vera si era effettivamente diplomata in URSS, aveva poi lavorato in una fabbrica metallurgica negli Urali e, dal 1947 fino al ritorno in Cecoslovacchia, era stata impiegata nell’impresa di impianti di riscaldamento di Nižnij Tagil, nella regione di Sverdlovsk.

“I prigionieri subivano terribili angherie, ma non venivano bruciati a centinaia nei granai, non erano avvelenati, non venivano fucilati per non aver ottemperato ai piani e non erano vittime degli abusi sessuali descritti da Sosnarova”, dichiara Hradilek.

GULag è oggi non solo un nome, parte della storia nazionale, scrive Colonelcassad, ma anche un brand con cui ottenere fama e buoni guadagni. È particolarmente fruttuoso smerciare il GULag nei paesi dell’ex campo socialista, dove, da fine anni ’80, è sorta un’intera industria di “smascheramento” degli “orrori dello stalinismo”; il libro “Krvavé jahody” è un “Arcipelago GULag” ceco, che è sacrilego mettere in dubbio: chi lo fa, è dipinto come “stalinista”, che giustifica “crimini orribili”.

Sosnarova sostiene di esser stata liberata nel 1964 e lasciata tornare in Cecoslovacchia, dietro dichiarazione che non avrebbe mai raccontato di esser stata in GULag; ma in un’intervista alla rivista DeníkN, Hradilek ha dichiarato che gli “ultimi prigionieri cecoslovacchi furono rilasciati dai campi nel 1955. Solo in casi eccezionali qualcuno è stato rilasciato nel 1959”.

Ora, scrive Argumenty i Fakty, è bene sapere che nel 2002 il parlamento ceco aveva approvato una legge secondo cui i cittadini cechi che fossero stati reclusi nel GULag sovietico, potevano ricevere un risarcimento di 12.000 corone per ogni mese di prigione. Immediatamente, si era fatta avanti Vera Sosnarova, accampando ben 19 anni nelle segrete staliniane. Sollecitando gli archivi russi, però, Praga aveva ottenuto una risposta univoca: la signora non era mai stata reclusa, ma aveva lavorato in diverse fabbriche sovietiche. Senza darsi per vinta, Sosnarova racconta la storia ai giornalisti, lamentandosi del mancato compenso; i giornali si buttano sulla storia e l’intera Repubblica Ceca viene a sapere di Vera Sosnarova; cominciano ad arrivare i soldi da organizzazioni di beneficenza e da semplici cittadini; poi, pubblicazioni, conferenze, apparizioni in tv: ottimi soldi.

Come noto, osservano le agenzie russe, storie simili a quelle raccontate da Vera Sosnarova avevano ricevuto tanto di “legittimazione” accademica nel periodo khruščëviano e poi una vera e propria esplosione durante la perestrojka gorbačëviana; news-front.info ricorda le decine di pellicole e di libri che hanno visto la luce tra fine anni ’80 e buona parte dei ’90, tanto più che, al pari del caso della Sosnarova, si potevano fare discreti soldi, secondo lo schema di raggiro dei figli del tenente Schmidt”, Ostap Bender e Šura Balaganov, usciti dalla penna di Ilja Ilf e Evgenij Petrov. Si ottenevano finanziamenti statali, si era associati al famigerato “Centro Eltsin” di Ekaterinburg, in cui si svolgono regolarmente “lezioni” su simili “argomenti storici”. Strano soltanto, conclude news-front, che anche la Sosnarova non sia passata per Ekaterinburg: avrebbe sicuramente incassato altri soldi e difficilmente avrebbe trovato un Adam Hradilek russo a sbugiardarla: tale è oggi lo “stalinismo” del Cremlino!

Tutto questo, non per sostenere che quanto è stato scritto, raccontato, “mitizzato”, sul GULag sia pura fantasia. Ma, ad esempio, in base alle cifre pubblicate nel 1989 da Viktor Zemskov, membro della Commissione dell’Accademia delle scienze dell’URSS per l’indagine sulle perdite della popolazione, risultano completamente inventati i numeri citati, per dirne uno, da Stephen Cohen che, nella sua biografia di Bukharin, scrive che nel 1939 ci sarebbero stati 9 milioni di reclusi nei campi sovietici. Secondo i dati di Zemskov, a gennaio 1940, nei campi, colonie e carceri del GULag c’erano 1,8 milioni di persone, mentre il picco fu raggiunto nel 1950, con oltre 2,5 milioni. A gennaio 1951, su 2.528.146 reclusi, 579.918 erano stati condannati per crimini controrivoluzionari; il resto, per reati quali appropriazione di proprietà statale e pubblica (637.055 persone), furto (394.241) e reati economici (128.618). A gennaio 1951, scrive Argumenty i Fakty, la situazione era questa: il 54% dei reclusi aveva una condanna da 5 a 10 anni; il 28%, fino a 5 anni; il 9%, da 10 a 15; il 4,8%, oltre 20 anni e il 4%, da 15 a 20 anni. Chiaro che, se si sommano insieme i reclusi di ogni anno, si arriva facilmente a decine di milioni: una stessa persona, condannata ad esempio nel 1935 a dieci anni di colonia, comparirà negli elenchi fino all’espiazione della pena.

Su forum-msk.org, lo storico Arsenij Roghinskij, afferma che sarebbero state circa “sette milioni le persone arrestate in URSS dal 1918 al 1987, tra politici, contrabbandieri, falsificatori e altri criminali comuni. Tutto è documentato, con tanto di voci su reclusione o rilascio, trasferimenti, procedimenti giudiziari, fughe, morti. Ma la vulgata continua a parlare di quasi 12 milioni di arresti solo tra il 1937 e il 1939”.

Ufficialmente, anche se il primo grande lager per detenuti politici fu quello delle isole di Solovki, in cui i reclusi godevano di relativa libertà (pubblicavano un proprio giornale, una rivista, organizzavano spettacoli, conducevano esperimenti agrari) il GULag in quanto sistema è passato dai 5 lager del 1930, ai 59 lager e 425 colonie del 1938, cessando di esistere nel 1960. Secondo la Grande enciclopedia russa (2005-2019: dunque “stalinista”), il numero di reclusi nel sistema GULag è passato dai 95.064 del 1930, ai 990.554 del 1935; 1.296.494 nel 1936; 1.881.570 nel 1938; 2.169.252 nel 1948; 2.561.351 nel 1950; 1.075.280 nel 1955 e 781.630 nel 1956. Il precipitoso calo di reclusi fu dovuto alla famosa amnistia promossa dal Ministro degli interni Lavrentij Berija a fine marzo 1953, dopo la morte di Stalin, che in tre mesi dimezzò la popolazione del GULag. Anche se il grosso dei politici iniziò a essere rilasciato successivamente, tra il 1954 e il ’56, il loro numero si ridusse da 467mila a 114mila. Berija partì dalla constatazione che nei campi, prigioni e colonie, su oltre 2,5 milioni di reclusi, non più di 220 mila fossero criminali particolarmente pericolosi, mentre i più erano stati condannati per piccoli crimini, furti e appropriazioni indebite di proprietà socialiste, le pene nei confronti dei quali erano state inasprite nel 1947. L’amnistia riguardava le condanne a meno di cinque anni, donne in gravidanza o con figli minori di 10 anni, uomini maggiori di 55 anni e donne maggiori di 50, minori di 18 anni e reclusi con malattie incurabili; ridotte della metà le condanne superiori a 5 anni.

Il provvedimento non si applicava ai condannati a più di 5 anni per crimini controrivoluzionari, appropriazione indebita di beni socialisti, banditismo e omicidio premeditato. Nonostante la credenza contraria (da vedere, malgrado le inesattezze storico-politiche, il film del 1987 “L’estate fredda del cinquantatre”) godettero dell’amnistia anche i politici condannati a meno di 5 anni. A parte un numero limitato di pericolosi criminali, la maggioranza degli amnistiati era costituita da persone condannate per piccoli furti, delitti insignificanti, per aver sottratto un pezzo di carne; così che, se in seguito all’amnistia ci fu una recrudescenza di crimini, questa riguardò essenzialmente furti, teppismo, rapine, ma non omicidi o delitti gravi.

E dunque, quale era stata la realtà del GULag?

Sulla Literaturnaja gazeta dell’agosto 1995, il giovane ricercatore Andrej Timofeev aveva esaminato un campione di 1.090 perseguiti (senza precisarne però l’arco temporale), evidenziando che il 70% era costituito da senza-partito; il 27% da membri del partito e il 3% del Komsomol. Il 53% erano alti responsabili dell’economia e solo il 17% operai; il 10% era occupato nei servizi; 6% studenti o insegnanti; 4% ufficiali dell’esercito o del NKVD; 3% addetti ai media; 1% intellettuali.

Nel 1988 Roj Medvedev aveva scritto su Moskovskie Novosti che dal 1927 al 1953 erano state perseguite oltre 40 milioni di persone, di cui 10 milioni di contadini ricchi espropriati nel 1929-’32; aveva parlato di 6-10 milioni di morti per la carestia del 1932-’33; 2 milioni di deportati polacchi (1939-’40); 7 milioni di arrestati (1937-’38); altri 10 milioni nel periodo 1941-’46. I “sovietologi” USA, partendo dal 1917, avevano parlato di oltre 60 milioni, compresi 18 milioni prima del 1937, di cui 10 milioni di fucilati. Nel 1976, Aleksandr Solženitsin, alla tv spagnola, era arrivato addirittura a 110 milioni (66 milioni dal 1917 al 1954, oltre a 44 milioni nel periodo della guerra).

In tutti questi casi, si sottintendeva che la stragrande maggioranza fosse stata fucilata o comunque morta in reclusione. Nel 1990, Olga Šatunovskaja – all’epoca di Khruščëv, aveva fatto parte della Commissione di indagine sull’omicidio di Kirov e i processi politici degli anni ’30 – scriveva su Argumenty i Fakty che “dal 1 gennaio 1935 al 22 giugno 1941 erano stati arrestati 19.840.000 “nemici del popolo”; di essi, 7 milioni erano stati fucilati e la maggior parte dei rimanenti erano morti nei lager”.

Per sintetizzare, ché già l’abbiamo tirata troppo in lungo: esistono oggi ricerche più recenti che riducono di varie volte tali cifre; basti citare solo i lavori dello storico Jurij Žukov, non certo imputabile di “stalinismo”.

Indicativo il caso di un’organizzazione anticomunista quale “Memorial”, nata proprio per raccogliere le documentazioni relative alle “vittime del regime sovietico” (o aiutare gli eredi di quelle vittime a orientarsi negli archivi): nel 2007 parlava di 12,5 milioni di perseguitati politici; ma nel 2008, al termine di 10 anni di ricerche su “Vittime del terrore politico in URSS” condotte su 280 tomi di memorie registrate in varie regioni dell’ex URSS, aveva raccolto dati su 2.600.000 perseguitati.

Nel gennaio 1992, peraltro in piena restaurazione eltsiniana, la Tass riportava un rapporto trasmesso nel 1954 a Nikita Khruščëv (e che ora veniva reso pubblico per la prima volta) a firma del Procuratore generale Roman Rudenko, del Ministro degli interni Sergej Kruglov e del Ministro della giustizia Konstantin Goršenin. Sulla scorta di quel documento, lo storico Viktor Zemskov scriveva che, dal 1921 al 1954, erano state emesse 3.777.380 condanne (2.369.220 a lager e prigione fino a 25 anni; 765.180 al confino), di cui 642.980 alla fucilazione, in base a vari paragrafi dell’art. 58 del codice penale (“delitti controrivoluzionari, volti a rovesciare, minare o indebolire il potere dei soviet degli operai e contadini”), oltre a 283.000 condanne in base agli artt. 59 (pericoloso banditismo) e 193 (delitti militari). Del totale delle condanne, 2.900.000 erano state emesse da Collegi OGPU, trojke e Commissioni speciali NKVD; 877.000 da Corti marziali, Collegi militari, tribunali ordinari. Un’altra nota del Ministero degli interni, successiva di pochi mesi, riportava le cifre di 4.060.306 condannati, di cui 799.455 alla pena capitale. Del resto, osservava Zemskov, le semplici cifre sulla popolazione erano sufficienti quantomeno a mettere in dubbio le sparate dei “sovietologi”, sia russi che occidentali, sulle decine di milioni di perdite umane per il “terrore sovietico”: nel 1926 l’URSS contava 147 milioni di abitanti, cresciuti a 162 milioni nel 1937 e a 170,5 milioni nel 1939.

Con buona pace delle Sosnarova e dei Solženitsin di ogni latitudine.

L’URSS staliniana è stata la messa in pratica della dittatura rivoluzionaria degli operai e dei contadini. Il terrorismo e il terrore di massa sono stati e sono tutt’oggi fatti reali e tragici, in tante parti del mondo in cui si mette in pratica la dittatura della borghesia.

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