Un risultato, ossia una conseguenza di scelte ottuse fatte negli anni ‘80-’90, in ossequio ai trattati di Maastricht che hanno formato la vera vera nascita dell’Unione Europea e deformato per sempre il panorama produttivo del Vecchio Continente. E sopratutto quello italiano.
Il quale – è bene ricordarlo – si era sviluppato in primo luogo grazie agli investimenti pubblici, alla programmazione economica e ad una politica industriale. Assi discutibili per molte scelte e modalità di gestione, certamente, ma non sul piano strategico. Un paese che si vuole sviluppare, e che possiede una “classe imprenditoriale” di non alto livello economico (e di molto basso “rigore morale”), non ha altra possibilità che l’industria pubblica.
L’ex Ilva di “padron Riva”, fin qui sballottata tra commissari temporanei e anglo-indiani in affitto, è l’esempio perfetto di quanto sia stata criminale la scelta di “privatizzare” interi settori strategici voluti e fondati su investimenti pubblici. Una scelta da cui persino Romano Prodi, con irritante viltà, oggi prende le distanze. Il gigante dell’acciaio italiano si chiamava Italsider, aveva stabilimenti a Genova, Bagnoli, Taranto, decine di migliaia di dipendenti. La svendita ai Riva comportò una gigantesca riduzione degli impianti, senza alcuna innovazione tecnologica che lo rendesse “fisiologico”.
Un degrado lento, motivato da squallida “necessità” di accantonare profitti non reinvestiti nella produzione (e nell’adozione di processi produttivi meno inquinanti), ben lontano dalla retorica sull’”efficienza” dell’impresa privata.
Fino a creare un mostro di inquinamento stragista, ma al contempo indispensabile per il mantenimento di una produzione strategica (l’acciaio) in questo paese.
Qui le scelte vigliacche della classe politica si intrecciano indissolubilmente con le strategie criminali delle grandi imprese multinazionali. Al punto che anche analisti esperti del quotidiano di Confindustria, oggi, sono costretti ad ammettere l’assurdità della retorica “ideologica” ancora imperante sull’argomento (stile Repubblica o Corriere, per intenderci).
Le multinazionali stanno oggi lasciando l’Italia, dopo averla spogliata del know how che era stato accumulato non solo con gli investimenti pubblici, ma anche con un sistema di istruzione di alto livello (anche questo sotto attacco da oltre 30 anni). E questo desertifica il panorama industriale, rendendo impossibile – o molto problematico – un recupero di capacità produttive, anche in caso di una fase di nazionalizzazioni di necessità.
Serve infatti un progetto organico di sistema paese – fatto appunto di un intreccio sapiente tra programmazione economica, politica industriale e sistema di formazione – che nessun “privato” e tantomeno delle imprese multinazionali possono mettere in campo. Anzi...
Che l’Ilva vada nazionalizzata, insomma, è una cosa certa. Nessun altro investirà per bonificare l’area e garantire un futuro migliore a una popolazione a rischio sterminio. Nessuno investirà per mantenere a questo paese una capacità di presenza in questo o altri settori strategici.
Ma neanche questo può bastare. Mantenere l’Ilva com’è è un assurdo economico e un crimine ambientale. Occorre un progetto strategico che solo una diversa visione del mondo e della produzione può assicurare.
Come dite? Non si può fare perché mancano ormai le competenze tecnologiche, industriali, manageriali nel settore pubblico?
È vero. Tutto questo ormai manca. Per questo possiamo affermare, senza tema di smentita, che su questo paese è stato condotto un esperimento criminale di predazione. Per questo possiamo affermare che solo cacciando via questa classe “dirigente” da quattro soldi (tutti, nessuno escluso) sarà possibile cominciare a progettare e disegnare un futuro per le prossime generazioni e rallentarne la fuga.
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Non solo ArcelorMittal: perché le multinazionali disinvestono dall’Italia
Il rischio di fuga di ArcelorMittal da Taranto e l’assottigliarsi dell’attività di Fca in quel che rimane del miraggio del polo del lusso sono soltanto gli ultimi elementi che compongono il mosaico fragile e deteriorato del radicamento delle multinazionali nel nostro Paese
Paolo Bricco – IlSole24Ore
Arcelor Mittal – società giuridicamente inglese, nata dalla fusione tra i francesi di Arcelor e gli indiani di Mittal – il 4 novembre ha annunciato la sua intenzione di restituire l’ex Ilva allo stato italiano. Fca, gruppo con sede ad Amsterdam che paga le tasse a Londra, ha dimezzato il volume produttivo della Maserati a Torino, il cuore del triangolo manifatturiero, realizzando nei primi 6 mesi dell’anno lo stesso numero di macchine di lusso del primo trimestre del 2018, senza contare le incognite legate al probabile deal con Psa che potrebbe ridisegnare la presenza “italiana” dell’ex Lingotto.
La possibile “fuga” del colosso globale dell’acciaio da Taranto e l’assottigliarsi dell’attività di Fca in quel che rimane del miraggio del polo del lusso sono soltanto gli ultimi elementi che compongono il mosaico fragile e deteriorato del radicamento delle multinazionali nel nostro Paese. Potremmo aggiungere il probabile ridimensionamento della multinazionale del bianco Whirlpool dal Belpaese e la recente scelta della Unilever, multinazionale con quartier generale tra Londra e Rotterdam, di spostare il dado Knorr in Portogallo da Sanguinetto, in provincia di Verona.
Peggiora il tessuto produttivo
Tutto questo rappresenta soltanto l’accelerazione di un deterioramento del nostro tessuto produttivo che ha avuto nelle multinazionali una componente essenziale. Nel bene e nel male. Sì, perché a 10 anni dall’inizio della Grande Crisi, uno dei cuori del capitalismo industriale italiano – le aziende controllate da capitali stranieri – batte a due ritmi, in apparenza diversi e divergenti.
Il primo ritmo è lento, sempre più lento: i trasferimenti di conoscenze scientifiche e tecnologiche dalle società italiane verso le capogruppo estere e dalle capogruppo estere verso le società italiane si sono, sul lungo periodo, significativamente ridotti. E, in questo ritmo lento, ci sono nelle ultime settimane accelerazioni: se c’è qualcuno – anzi, a questo punto, se c’era qualcuno – in grado non soltanto di bonificare, ma anche di riportare all’antica brillantezza tecnologica l’acciaieria di Taranto, rendendola compatibile con l’ambiente e la salute, è – o, meglio, era – Arcelor Mittal. Se Arcelor Mittal si disimpegna, i flussi si riducono. Se va via, si interrompono.
Il secondo ritmo è inaspettatamente rapido e ha caratteri positivi: la ristrutturazione del tessuto industriale italiano ha subìto una accelerazione anche grazie all’opera dei capitali stranieri che arrivano e scelgono chi comprare, riorganizzano le fabbriche e ristrutturano l’assetto societario – danno vita a nuove società, ma senza modificare il perimetro sostanziale – contribuendo così aumentare il numero di società a controllo straniero. Una tendenza di lungo periodo, che la crisi potrebbe compromettere.
Meno tecnologia
Un organismo industriale interconnesso con altri organismi industriali è in salute quando vi è osmosi in entrambe le direzioni: la membrana, costituita dall’azienda consociata, assorbe competenze di ogni tipo dalla controllante straniera e a essa la restituisce. La consistenza di questi flussi garantisce una solidità di fondo al territorio: tanto sono maggiori questi flussi, tanto più conviene alla multinazionale straniera mantenere elevati livelli di produzione e occupazione, perché quando il legame è strutturato, articolato e sofisticato i costi di disinvestimento sono maggiori rispetto ai costi da sostenere per chiudere un impianto di sola mera produzione.
Questo meccanismo era auspicato da tutti gli osservatori quando la famiglia Merloni (ramo Vittorio) ha venduto Indesit agli americani di Whirlpool: il limite strutturale del capitalismo familiare del Novecento italiano e le asimmetrie con il costo del lavoro dell’Est Europa hanno mandato in crisi l’industria del bianco dagli anni 70, la forza tecnologica e patrimoniale di una grande multinazionale ci si augurava che potesse sopperire a questo declino.
Non è andata così sul breve periodo. Non è andata così sul lungo periodo. Le analisi dei flussi di conoscenza scientifico-tecnologiche effettuate dall’Istat sui suoi focus group di imprese a controllo straniero sono impressionanti. Nel 2005, quando il sistema industriale italiano aveva già effettuato la sua ristrutturazione successiva all’introduzione dell’euro, il 47% delle consociate riceveva dalla casa madre trasferimenti scientifici e tecnologici e il 30% li indirizzava dall’Italia all’estero.
Dieci anni dopo – con un dato credibile anche oggi – questi flussi in entrata e in uscita sono crollati: solo il 33% delle imprese assorbe know-how (il 14% in meno, in un sistema industriale ad alta sensibilità e ad alta amplificazione interna di ogni shock è una differenza consistente), mentre fa il contrario – cioè trasferisce questo sapere dal nostro Paese alla casa madre – il 24%, cioè sei imprese su cento in meno.
Il dato preoccupante, che mostra come con la Grande Crisi qualcosa si sia appunto incrinato nel processo osmotico di trasmissione di cultura tecno-industriale, è il primo. Ma anche il secondo non va bene. La qualità di un organismo produttivo è garantita dalla consistenza – chi sei, cosa fai e dove vai come soggetto industriale collettivo – ma anche dalla fluidità in entrata e in uscita con il resto della manifattura internazionale, soprattutto se la dimensione media del tuo tessuto produttivo è inferiore agli standard europei e, dunque, tu hai bisogno come l’aria di R&S e di tecnologia proveniente dall’estero.
Le multinazionali, in tempi di fisiologia e non di patologia, servono a questo. Qualcosa, invece, si è rotto, in questi flussi particolarmente nobili, in entrata e in uscita. E, quindi, aumenta la probabilità di disinvestimenti. Come sta succedendo con Whirlpool. Con tanta pace della fu Indesit.
Meno know-how manageriale
Il dai e vai tra sistemi industriali nazionali, che dopo la progressiva integrazione avvenuta con l’ultima globalizzazione stanno adesso vivendo un passaggio di regressione per via delle guerre commerciali, dei nuovi sovranismi politico-culturali e delle riperimetrazioni in senso nazionale dei grandi gruppi industriali, è basato anche sui trasferimenti di competenze manageriali. Si sono ridotti i punti di collegamento tra consociate italiane e case madri straniere: nel 2005, secondo l’Istat, il 56% delle imprese riceveva know how manageriale e commerciale dall’estero e il 33% lo ricambiava.
Le multinazionali continuano ad assorbire conoscenza: il 32%, la stessa quota di prima della Grande Crisi, continua a trasferirle alle case madri. Hanno smesso di pompare competenze manageriali verso l’Italia: a riceverle sono il 42% delle controllate italiane, il 14% in meno.
Un differenziale negativo che anticipa il rischio di una uscita dei capitali stranieri da queste imprese e che fornisce una interpretazione economica – non ideologica – ai disinvestimenti presenti e futuri dal nostro Paese: è un problema di strategie di impresa – in questo caso di multinazionali – non di natura “buona” o “cattiva” dei capitali stranieri. Un caso estremo e paradossale, da questo punto di vista, è rappresentato da Fca. Che va considerata una multinazionale ormai da 8 anni. E che, come tale, opera.
Le competenze in uscita dall’Italia verso l’estero sono state significative: tutta la reindustrializzazione delle fabbriche nordamericane è stata fatta con modelli manageriali, competenze tecniche e codici organizzativi provenienti dall’Italia: da Cassino e da Pomigliano d’Arco, da Mirafiori e da Melfi piccole squadre di specialisti si sono trasferite al Jefferson North Assembly Plant di Detroit, a Toledo in Ohio o a Windsor in Canada.
Allo stesso tempo, non ci sono state competenze e investimenti in entrata e nemmeno denari per farle sviluppare tra Torino e Modena: ci sarebbero potute essere, se il polo del lusso di Maserati e Alfa Romeo, annunciato nel 2014 da Sergio Marchionne, si fosse realizzato.
Il perimetro invariato
Questo fenomeno di anchilosamento dell’attività di scambio delle consociate con le loro controllanti fa il paio con l’aumento del peso – finanziario, ma soprattutto strategico – del capitale straniero nella nostra manifattura. Nel 2005, le imprese partecipate da investitori stranieri censite dalla banca dati Reprint erano 2.551 e avevano 520mila addetti. Nel 2018, sono diventate 3.519, il 38% in più.
Gli occupati, invece, sono saliti in maniera meno consistente a 568mila: il 10% in più. Ancor meno i ricavi: da 470 miliardi a 507 miliardi di euro (+8%). In alcuni settori strategici, la penetrazione degli investitori stranieri è stata significativa. Basti pensare che la metallurgia e la meccanica italiana a controllo estero avevano nel 2015 130mila addetti, che sono diventati 160mila nel 2018.
E che, nel tessile, nell’abbigliamento, nel cuoio e nelle calzature a controllo estero, gli occupati 4 anni fa erano 12mila e, nel 2018, sono diventati 27mila.
Tuttavia, il perimetro della manifattura italiana a partecipazione straniera è rimasto quello. Ci sono più società, ma il perimetro è quello. Ragioniamo sull’indicatore del numero di società, che è insieme ambiguo e limpido. Per questo è interessante.
Il novero degli investitori stranieri è composto dai fondi di private equity (pochi), dalle grandi società industriali e dalle piccole imprese estere (l’ultima tendenza). Una crescita così elevata del numero di società partecipate – quasi il 40% in più in 13 anni – non è spiegabile soltanto con la tendenza alla polverizzazione del tessuto produttivo italiano, che sconta una deriva di lungo periodo verso le piccole dimensioni. Né soltanto con l’ultima tendenza delle piccole imprese straniere che – magari a prezzi di saldo – comprano una omologa italiana.
C’è senz’altro di più. E questo di più non può che essere l’attitudine degli investitori stranieri – quando rilevano una società italiana perché è in crisi, o perché è nel pieno di uno sbandamento strategico per cui ha bisogno di capitali o perché si trova nel corso di un passaggio generazionale incompiuto – a operare con il taglia e cuci, il cuci e taglia.
Prendi una società con due specializzazioni produttive, come spesso capita nelle piccole e medie aziende italiane, e da una fanne due. Oppure, acquista una azienda integrata e scegli di concentrarti soprattutto sulla attività industriale, così da disaggregare per esempio i servizi e la logistica. In quel modo puoi cercare nuovi azionisti. Oppure, rendendo una parte di essa autonoma, la puoi in un secondo momento vendere e così finanziare l’acquisto (nei peggiori dei casi) o lo sviluppo (nei migliori dei casi) della impresa italiana che hai rilevato all’origine.
Lo sbandamento strategico delle ultime settimane della manifattura italiana a capitale straniero, con un disimpegno crescente si innesta su una dinamica che, sull’equity, è sul lungo periodo positiva.
L’equilibrio perduto
Le multinazionali fanno bene all’economia italiana. Rimane valido lo studio di Prometeia che ricorda come i differenziali di crescita positivi per chi è stato acquisito siano pari al 2,8% per il fatturato, al 2% per il numero di occupati e all’1,4% per la produttività.
Ma, oggi, il disimpegno è il punto di caduta di una tendenza di lungo periodo che ha visto ridurre i flussi di tecnologia e di competenze manageriali dall’estero verso le consociate del nostro Paese. Arrivano, quando rimangono ci credono meno e, a un certo punto, si disimpegnano.
I boati prodotti da Arcelor Mittal, Whirlpool e Unilever e il volume all’improvviso abbassato di Maserati e Alfa Romeo non avvengono nel silenzio. Gli scricchiolii si avvertono da tempo.
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