di Giovanni Iozzoli
Quello
che la vicenda curda lascia addosso a tutti, è la terribile soffocante
sensazione di impotenza. Come se fossimo nel diciannovesimo secolo, i
grandi players imperialisti imbastiscono manovre e trame, nella più
totale noncuranza dei popoli – qualsiasi connotazione si possa
attribuire a questa espressione. Ridisegnano confini, creano alleati e
mostrificano nemici, per poi, nel giro di una stagione, rovesciare
completamente tali assetti.
In Siria, nel 2013, gli Usa, nello sforzo di abbattere Assad, non
hanno esitato ad allearsi persino ad Al Aqaeda – venduta per anni alla
loro opinione pubblica, come lo spettro demoniaco dell’11 settembre; poi
hanno sostenuto strumentalmente i curdi nel nord della Siria; per
diventare oggi complici del loro annientamento geo-politico. Non
esistono davvero amici e nemici, nel Grande Gioco: esistono solo
rapporti di forza e strategie. Anzi: la perpetuazione dello stato di
guerra, pare l’unica vera strategia in essere; Israele l’unica vera
beneficiaria nella regione di questa permanente fibrillazione
sanguinaria.
In questi giorni, decine di migliaia di militanti, soprattutto in
Europa, sono giustamente scesi in piazza a sostenere le ragioni del
federalismo curdo e di quel radicalismo democratico che, in questi anni,
è stato l’unico segnale evolutivo in quei territori martoriati. Nelle
piazze di mezzo mondo, “la Turchia” è stata sbrigativamente additata
come il Nemico per eccellenza e questo ha risvegliato memorie e pulsioni
che dentro l’Occidente allignano da sempre: paranoie anti-turche di
antica datazione, nuova islamofobie, la simpatia pelosa e a buon mercato
verso i curdi, la suggestione della minaccia d’oriente, di volta in
volta barbuta o in erdoganiana giacca e cravatta. Ma se accettiamo la
logica del “nemico turco” – nemico per antonomasia – partiamo sconfitti
in partenza: nazionalismo contro nazionalismo, vince chi ha più cannoni,
non chi ha più ragioni.
Ma cos’è, quest’oscuro moloch – il Gran Turco, il Saracino, il feroce
Saladino (che non c’entra con gli ottomani ed era pure curdo) – che
pesa così tanto nel nostro immaginario occidentale? Ed Erdogan, con le
sue politiche criminali, rappresenta il popolo, la Nazione o entrambi? E
sono credibili tutti questi ammiratori della lotta popolare curda –
compresi quelli che 20 anni fa consegnarono Ocalan ai suoi carnefici,
perché a Istanbul era saltata qualche vetrina di Benetton? È utile
interrogarsi su quello che non riusciamo a capire, perché con gli
anatemi si fa poca strada.
È bene dirselo con chiarezza: i turchi sono oggi visceralmente
nazionalisti, come tutti i popoli che, spesso in modo paranoico, sentono
di aver subito torti storici. I calciatori che fanno il saluto militare
esprimono solo una sintonia diffusa, rispetto alla gente che li guarda
in televisione. Il nazionalismo turco però non è atavico; è piuttosto un
prodotto avvelenato della modernità: i sultanati furono espressione
della dimensione imperiale – quindi plurinazionale e multietnica; il
nazionalismo è invece faccenda moderna, che incrocia con disinvoltura i
miti contemporanei della potenza e quelli arcaici (e fasulli) della
purezza etnica.
I turchi hanno subito, nell’arco di tre generazioni, una torsione
culturale brutale, che pochi altri popoli sono stati costretti a vivere:
il crollo della Sublime Porta, l’occidentalizzazione a tappe forzate
promossa da Ataturk (persino il richiamo alla preghiera dal minareto,
andava fatto in turco, pena il carcere); e poi nei decenni, la crisi
ingloriosa del laicismo, golpe e tentati golpe, la messa collettiva in
stato d’accusa per lo sterminio antiarmeno, la riproposizione di attese
sempre frustrate rispetto alla supposta missione “repubblicana” delle
élite militari e, infine, il rifugio in un nuovo islamismo politico che
ridesse un po’ d’identità a una storia tanto slabbrata. Troppe tensioni,
tutte insieme, nell’arco ravvicinato di pochi decenni, che hanno
promosso una identità collettiva schizoide, incoerente, che cerca requie
e rifugio proprio nell’esasperazione nazionalista. Chi ha letto il
premio Nobel Pamuk, conosce la terribile scissione interiore –
plasticamente raffigurata da Istanbul adagiata su due continenti – che
brucia l’anima turca.
Sarebbe necessario, decostruire la visione monolitica del “nemico”,
svelare la semplificazione dell’immaginario che tende a dividere i campi
del bene e del male come se essi fossero statici e privi di
contraddizioni. È necessario farlo, anche perché il “blocco turco” è
davvero imponente. La difesa dei confini e dell’integrità territoriale,
lo smascheramento dei “complotti occidentali”, sono il terreno
privilegiato sui cui Erdogan, nonostante la crisi di consenso interno,
riesce sempre a ricompattare tale blocco e attivarlo. E non ci riferiamo
solo alle masse proletarie turche; basti pensare all’area linguistica
dei popoli turcofoni – milioni di persone tra i Balcani e il Caucaso;
per non parlare dei turcofili: milioni di arabi (palestinesi in primis)
che hanno visto in Erdogan una risposta (fasulla) alla crisi di
legittimità delle loro leadership. Se questo blocco non si smonta, né i
curdi né i turchi potranno avanzare sulla via del progresso e della
giustizia. Milioni di persone, in questo momento, dentro il mondo arabo,
stanno tifando per il Sultano – è meglio esserne consapevoli. Perché
questo è il problema: fino a che Erdogan gode di una simile cintura di
sostegno, risulta apparentemente imbattibile.
Dentro rapporti di forza disperatamente sproporzionati, l’apertura
del “fronte interno” – lo spacchettamento della pubblica opinione – è
l’unica speranza di incrinare il fronte bellicista. Fu così in Algeria
come in Vietnam – ben consapevoli che in Turchia un “fronte interno”
esiste già, quello dei curdi dei territori turchi, che però Erdogan ha
ormai da anni collocato in una condizione di occupazione e repressione
tipica di un rapporto coloniale. Solo le masse turche potranno rimettere
in discussione la militarizzazione totale e irreversibile della
questione curda.
Ma noi, qui, nel nostro crepuscolo occidentale, cosa possiamo fare
per disarticolare i blocchi nazional-imperialisti? Innanzi tutto, la
cosa più semplice: parlare con i turchi. Che non stanno in un mitico
Oriente, ma sono i nostri vicini di casa o colleghi di lavoro: studenti
universitari, operai, edili, addetti alla ristorazione, spedizionieri,
migliaia di sudditi di Erdogan vivono in mezzo a noi. Per non parlare di
Francia e Germania, dove esiste un’altra Turchia conficcata nel cuore
d’Europa. Riusciamo a parlare con queste persone (magari senza
bruciargli in faccia la loro amata mezzaluna, che non aiuta)? Riusciamo a
far capire che il nostro sostegno ai fratelli curdi non ci pone in una
condizione di nemicità, rispetto a loro e alla loro storia? Possiamo
ricordare ai turchi che vivono tra noi – soprattutto ai più giovani –
che tutte le loro classi dirigenti, laiche o religiose, hanno continuato
in questi anni ad arricchirsi, mentre loro hanno costituito il bacino
storico della forza lavoro dequalificata in Europa – nel settore
minerario, nell’industria pesante, nei mega cantieri in cui si è
ricostruito questo continente dopo la guerra? Dovrebbe essere questa la
prima pratica dell’internazionalismo: provare a dissociare i popoli
dalle loro direzioni imperialiste e guerrafondaie. Scegliere un campo è
giusto e naturale – e la nostra propensione non può che essere per
l’ardita e coraggiosa esperienza del confederalismo democratico. Ma
“l’altro” campo ci deve interessare con la stessa forza. Altrimenti
ricadiamo nella eterna, paralizzante dialettica del tifoso.
È dura, ma questo possiamo fare, al di là di una meritevole opera di
sostegno e vicinanza militante al movimento curdo. La Turchia, negli
ultimi 50 anni, non ha prodotto solo golpismi, camarille atlantiste e
autoritarismo: ha saputo partorire una eroica sinistra rivoluzionaria
schiacciata e resistente; un’idea di Islam, nei secoli, includente e
plurale; grandi artisti e scrittori che hanno raccontato la sua anima
sulla scia di un’antica cultura malinconica, mistica e colta. Con le
genti di Turchia bisogna costruire una relazione, se vogliamo
contribuire a rovesciare satrapi e oligarchie.
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