di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Si continua a morire di protesta in Iraq: nella notte tra giovedì e venerdì altri
cinque manifestanti hanno perso la vita per le ferite riportate in
piazza, colpiti da candelotti lacrimogeni e proiettili della polizia.
Il bilancio sale (giovedì la Commissione parlamentare per i diritti
umani parlava di oltre 250 uccisi e 11mila feriti) mentre Baghdad e le
città meridionali entravano nel secondo mese di mobilitazione popolare
con altre enormi manifestazioni.
Ieri la più grande dai tempi di Saddam Hussein, 200mila solo nella capitale. Piazza Tahrir è loro e delle loro tende.
È qui che si dorme, a terra su materassi colorati, per non perderla a
favore delle forze di sicurezza ed qui che si cucina e di distribuiscono
pasti caldi ai giovani e alle famiglie che affollano la piazza.
Ci sono bambini che sventolano le bandiere irachene, ragazze, anziani. In
tantissimi sono arrivati ieri dopo la tradizionale preghiera, bypassando i tuktuk trasformati in ambulanze (c’è già chi
inneggia alla «rivoluzione del tuktuk») e unendosi ai giovani che hanno
passato la notte in strada.
Nelle vie che portano a piazza Tahrir i manifestanti hanno
improvvisato dei “checkpoint” per indirizzare il traffico, piccole
barriere che sanno di mini-barricate. In tanti sul volto portano
maschere anti-gas, in testa un elmetto.
A sud altre migliaia di persone hanno manifestato ieri, anche
qui tante le famiglie con i bambini. A Bassora un presidio si è
accampato sulla strada che porta all’ingresso del giacimento petrolifero
di Majnoon.
Gli scontri a Baghdad si concentrano sul ponte sul Tigri che
porta alla Zona Verde, simbolo fisico e politico del potere che si
barrica e non ascolta. Altrimenti non parlerebbe come fa. Ieri
la più alta autorità sciita del paese, l’Ayatollah al-Sistani, dopo aver
condannato la brutalità della repressione, ha avvertito i governi
stranieri di non sfruttare la protesta, nenia nota in Medio Oriente dove
ogni mobilitazione è tacciata di influenze esterne.
Appena 24 ore prima a parlare era stato il presidente iracheno, Barham Saleh:
il premier Adel Abdul-Mahdi è pronto a dimettersi (se esiste
un’alternativa) e ad andare a nuove elezioni. Non prima, ha aggiunto
Saleh, di una riforma elettorale.
Non è questo che chiedono gli iracheni che da inizio ottobre sfidano la durissima repressione di polizia e milizie sciite: non vogliono elezioni per rieleggere l’identica classe dirigente ma uno stravolgimento politico, una costituzione non settaria e l’uscita dall’agone politico delle forze religiose.
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