Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

11/11/2019

La crisi infinita: il titolo di un’Europa in slow motion

Dazi statunitensi contro la Cina, sanzioni commerciali imposte dal Wto all’UE, economie nazionali col freno tirato, tassi di interesse negativi nell’Eurozona oggi applicati anche ai correntisti: che la globalizzazione si fosse arrestata era evidente, ma la morfologia dell’ambiente economico sta cambiando a tappe serrate e ha conseguenze strutturali. È in questo contesto che vanno inquadrate le sorti del capitalismo nostrano, e su questo ordine di grandezza può e deve misurarsi una lotta dei lavoratori che voglia incidere sulla realtà. In questo numero di Orme Rosse proviamo a viaggiare su queste frequenze, e nell’editoriale di apertura proviamo quindi a definirne l’ampiezza.

L’economia mondiale rallenta. Dall’ISTAT all’FMI, è di queste settimane il periodico proliferare di previsioni sull’andamento della crescita globale, e non prospettano un futuro roseo. L’economia mondiale rallenta, quella europea arranca, quella italiana è ferma al palo. “Precaria e delicata”, i due aggettivi utilizzati dalla capoeconomista del Fondo Monetario Internazionale Gita Gopinath esprimono in modo molto chiaro la preoccupazione nei confronti della ripresa economica e della fase congiunturale mondiale. Una previsione confermata dal World Economic Outlook, il rapporto semestrale del FMI che studia la situazione dei vari Paesi dal punto di vista macroeconomico, analizzando in particolare Pil, crescita potenziale, inflazione, bilancia commerciale, e altri indicatori di questo tipo. Il 3% di crescita globale stimato per la chiusura del 2019 è il livello più basso dal 2009. Mentre nello specifico l’Italia, per cui le stime di crescita per l’anno corrente sono state tagliate allo 0%, non è addirittura mai tornata a produrre annualmente il valore aggregato di beni e servizi che conosceva fino a quell’anno. Troppo spesso ultimamente le osservazioni sullo stato di salute delle economie capitalistiche hanno iniziato a tralasciare che la crisi dei mutui subprime è stata solo la grande scossa tellurica con cui si è manifestata una crisi sistemica nella quale siamo pienamente immersi: a più di 10 anni da allora nuove profonde scosse non sono da escludere.

Nell’Euorozona il vero malato è la Germania, e trascina con sé un contoterzista come l’Italia. Tanto che il mese scorso è stato lo stesso Governatore della Bce, Mario Draghi, ad invitare i Paesi che hanno “spazio fiscale” a farne subito uso per contrastare le tendenze recessive: da sola, la politica monetaria accomodante non basta. L’economia tedesca, già in rallentamento, è prossima alla recessione: dopo aver registrato una contrazione congiunturale dello 0,1% nel secondo trimestre di quest’anno, si prevede che ne segua una identica contrazione nel terzo. L’Ifo e gli altri maggiori istituti di ricerca tedeschi hanno tagliato le stime sulla crescita economica della Germania nelle loro previsioni macroeconomiche invernali. Gli economisti ritengono che nel 2019 il Pil della Germania crescerà dello 0,5% su base annua, rispetto al +0,8% stimato questa primavera. Nel 2020, le proiezioni vedono la crescita tedesca al +1,1% rispetto all’1,8% stimato in precedenza. Ed è l’unico Paese dell’Eurozona ad avere questa performance negativa, seguito solo dall’Italia che alla fine del secondo trimestre è entrata in stagnazione.

Ciò che sta accadendo in Germania ha carattere congiunturale o sistemico? Andiamo per gradi. In ordine ai fattori determinanti della crescita economica nel secondo trimestre dell’anno, Eurostat ha rilevato che l’Eurozona nel suo complesso ha subìto un contributo negativo da parte della componente estera: mentre l’export non ha subito variazioni apprezzabili, l’import è cresciuto dello 0,2%, ed è stata proprio il rallentamento dell’export a determinare la contrazione del prodotto tedesco. Questi dati congiunturali potrebbero essere considerati trascurabili se non ci fosse una corrispondente tendenza di più lungo periodo, visto che il commercio internazionale ha contribuito al rallentamento della crescita tedesca anche su base annua: in termini reali, dunque aggiustato ai prezzi, l’export ha segnato un -0,8%. Le importazioni di beni e servizi, invece, sono cresciute dell’1,8%. La glorioso macchina manifatturiera tedesca si è inceppata: in termini reali, rispetto al secondo trimestre del 2018, ha registrato una contrazione del 4,9%. Ed è un comparto di enorme rilievo, visto che pesa per un quinto dell’intera economia tedesca. Se nei dodici mesi il valore aggiunto prodotto in Germania si è contratto complessivamente solo dello 0,1%, lo si deve all’andamento particolarmente dinamico dei settori delle costruzioni (+2,8%) e dei servizi di comunicazione ed informazione (+3,3%). Ci sono stati dunque due andamenti negativi: la caduta dell’export e quella della manifattura.

Sembra dunque che il successo del mercantilismo tedesco di questi ultimi anni, basato sulla crescita costante delle esportazioni manifatturiere e su un contemporaneo rigidissimo controllo dei costi salariali, sia arrivato al capolinea. C’è insomma una morsa che sta bloccando strutturalmente la dinamica economica tedesca: il meccanismo mercantilistico della crescita fondata sugli attivi commerciali strutturali è stato azzoppato per via dei processi di riequilibrio delle relazioni commerciali. Se a questo aggiungiamo che intervengono altre questioni strutturali come la perdita di vantaggio competitivo che l’industria automobilistica tedesca sta subendo di fronte all’ingresso di nuove tecnologie (e la vicenda del “dieselgate” è lì a ricordarcelo), nonché la dipendenza energetica o la debolezza del settore dei servizi, la nebbia si infittisce.

Perché l’Italia risente così tanto delle vicende tedesche? I numeri dell’Istat sull’interscambio commerciale confermano il rafforzarsi del legame tra i due versanti delle Alpi: tra il 2013 e il 2018 i flussi di meccanica da e verso la Germania sono aumentati di oltre il 40% (da 36,3 a quasi 51 miliardi di euro, per il 70% concentrato tra Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte), ma la forbice del saldo attivo continua a crescere a vantaggio tedesco (l’Italia ha esportato lo scorso anno meccanica per 20,2 miliardi e ne ha importata per 30,7). Nel settore del packaging l’Italia ha addirittura superato la Germania, ma sconta il nanismo aziendale e vive lungo le filiere individuate dalla catena del valore tedesca. Nel segmento delle macchine utensili come frese, stampi e torni, i tedeschi sono grandi clienti dell’Italia, sia per chi produce componentistica per l’automotive, sia per chi ha bisogno di grandi macchinari nei settori energia, movimento terra e trasporti. Come influisce quindi la frenata tedesca sui distretti italiani? La fotografia la offre uno studio pubblicato a settembre da Intesa Sanpaolo, che registra un calo dell’1,1% tra aprile e maggio: in valore assoluto 46 milioni di euro, terza peggior performance tra i mercati esteri. Sintesi di trend opposti, che vedono aree distrettuali in grado di migliorare anche in modo sensibile la propria performance verso Berlino, a fronte delle quali vi è però un numero maggiore di specializzazioni in calo rilevante, spesso a doppia cifra, in grado di sottrarre cifre non marginali ai ricavi delle aziende. Se ancora a metà 2018 il numero di distretti con volumi in crescita (84) sopravanzava ampiamente i casi di rallentamento, oggi avviene esattamente il contrario e sono ben 91 (non distante dai record negativi del 2009) i territori con il segno meno verso Berlino.

Nel Consiglio Direttivo di settembre la BCE ha deciso di riprendere il Quantitative Easing. Nell’ipotesi che tre anni di stimoli monetari fossero stati sufficienti a rivitalizzare il sistema finanziario e produttivo dell’area euro, la BCE introdusse il Quantitative Easing immettendo nell’economia europea tra i 60 e gli 80 miliardi di euro ogni mese dal marzo 2015 al dicembre scorso, quando il programma di acquisti netti è stato provvisoriamente concluso. L’obiettivo era quello di portare l’inflazione a un livello salutare intorno al 2%. Con il QE la banca centrale espande la liquidità a disposizione del sistema economico con lo scopo dichiarato di ripristinare il corretto meccanismo di trasmissione della politica monetaria: si suppone che la liquidità immessa allenti le tensioni sui mercati finanziari e consenta dunque all’economia reale di tornare sui binari della crescita. La banca centrale inonda il sistema di liquidità acquistando titoli finanziari, in prevalenza titoli di Stato dei paesi dell’area euro: tramite questi acquisti, i titoli finiscono nella pancia della banca centrale mentre il denaro, il prezzo pagato per acquistare quei titoli, entra nel sistema economico. 2600 miliardi del QE dopo, l’inflazione core in eurozona è pari allo 0.9%, segno del fallimento della politica monetaria di Draghi, che in 7 anni non è riuscito a centrare il target inflazionistico del 2%. In questo gioco la Bce, insieme alla Commissione Ue, si ricava anche il ruolo di cane da guardia dei salari, che come ammesso alcuni mesi fa dall’ex governatore della Bce Jean-Claude Trichet sarebbero invece gli unici che potrebbero veramente far salire l’inflazione, mentre sono oggi tenuti a bada da un assetto deflazionistico che ormai ha raggiunto livelli drammatici.

Come Draghi pensa di arrivare ad un target del 2% in questo contesto è un mistero. È forse lo è anche per lui, visto che sua fu a marzo la dichiarazione secondo cui “Ci muoviamo a piccoli passi in una stanza buia”, in occasione della decisione di confermare i tassi a 0 fino a fine anno. Parole non propriamente rassicuranti se pronunciate da uno dei vertici della politica economica continentale.

Per concludere, nella ristrettezza delle opzioni possibili per il capitalismo europeo e per la Germania che lo traina, noi vediamo che i nodi vengono al pettine, e che la maturazione politica della situazione dovrebbe permettere con più facilità a un movimento di classe cosciente di battere là dove il dente duole. Infatti Berlino non ha più scelte, deve investire denaro pubblico e allo stesso tempo cercare di impedire che altri paesi facciano lo stesso. Deve lasciar salire un po’ i salari interni, ma raccomandare agli altri di non farlo. Deve autorizzare la Bce a “lanciare denaro dagli elicotteri” (e i tassi negativi sono stati recentemente oggetto di preoccupazione anche nel Rapporto sulla stabilità finanziaria globale del FMI), ma con una preferenza territoriale molto circoscritta al “grande Nord” europeo (le regole di funzionamento del Quantitative Easing e la possibilità concessa solo alla Bundesbank di congelare i titoli invenduti in asta sono lì a confermarci questo trattamento preferenziale). Deve insomma seminare contraddizioni palesi, evidenti, complicate da gestire. Sarebbe una buona occasione per colpire al cuore la governance europea, fuori dalle chiacchiere.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento