L’Iraq torna al centro dell’attenzione mediatica dopo l’attacco ai militari italiani, ma da oltre un mese il popolo iracheno si sta mobilitando contro il governo, ed è duramente represso. E nessuno, o quasi, ne parla. Oltre un mese di proteste e manifestazioni. Oltre 250 morti. Centinaia di migliaia di persone in piazza, come ad esempio nel caso dell’ultima grande manifestazione del primo novembre: 200.000 solo a Baghdad.
Ma la fortissima mobilitazione che sta interessando l’Iraq non si limita solo alla capitale. È il paese intero ad essere in fiamme.
La protesta antigovernativa è esplosa i primi giorni di ottobre: obiettivo della contestazione il governo di Abdul Mahdi, la causa le pessime condizioni economiche in cui versano ormai la stragrande maggioranza degli iracheni.
Ma la rabbia nasce da più lontano, da un decennio e oltre di corruzione, di incapacità politica, di miliardi di dollari per la ricostruzione del paese che sono spariti nelle tasche di una classe dirigente, appunto, tra le più corrotte al mondo (secondo il Corruption Perception index, un indicatore del livello di trasparenza del settore pubblico dei paesi di tutto il mondo, l’Iraq è al 168° posto in classifica. La Somalia, che è ultimo in classifica, è al 180°, ndr).
Un paese, l’Iraq, che oltre ad aver vissuto l’invasione a guida Usa del 2003, la destabilizzazione che ne è seguita, il terrorismo, una continua crisi economica nonostante i soldi immessi nel sistema dalla speculazione post-bellica, ha anche subito l’occupazione di un terzo del paese da parte dello Stato Islamico, e quindi una nuova guerra che si è più o meno risolta nemmeno due anni fa.
Una agonia che ha portato il popolo iracheno all’esasperazione di questo ultimo mese: una protesta di massa repressa brutalmente (sono, come detto, centinaia le vittime accertate, più altrettanti feriti), che nonostante questo non accenna a spegnersi.
Una rivolta che vede in prima linea i giovani, e che è mal recepita dalla classe dirigente di Baghdad: solo cinque giorni fa, dopo un mese e oltre di proteste, il presidente della Repubblica Saleh ha dichiarato che il premier Abdul Mahdi è pronto a dimettersi, qualora esista una alternativa, e magari ad indire le elezioni dopo aver varato una riforma elettorale.
Ma non è questo che chiede il popolo iracheno, che pretende un cambiamento radicale di leadership, un azzeramento della classe dirigente che in questi anni ha contribuito alla devastazione del paese. Con la complicità, ricordiamolo sempre, degli Stati Uniti e dei suoi alleati (tra cui noi) che sono stati artefici materiali del tracollo dell’Iraq. Ma non solo: perché nelle vicende interne dell’Iraq c’è un altro grande convitato di pietra che influenza in modo spesso decisivo le scelte politiche di Baghdad.
Parliamo dell’Iran, che dopo la caduta del sunnita Saddam Hussein e l’ascesa di un gruppo di potere sciita, osserva con molta attenzione quello che avviene nel paese confinante (l’Iran è il più importante paese a maggioranza sciita del Medio Oriente). Secondo due inchieste, una di Associated Press e l’altra di Reuters, in questo ultimo mese una presenza frequente nelle stanze del potere iracheno è quella del generale iraniano Quassem Soleimani, che dal 1998 è a capo di una speciale unità delle Guardie Rivoluzionarie che si occupa di operazioni al di fuori dell’Iran.
Sarebbero almeno due le visite riportate dalle inchieste: secondo Associated Press il generale iraniano avrebbe presieduto una riunione strategica durante i primi giorni di protesta, durante la quale si sarebbe deciso di adottare la linea di forte repressione che poi è stata attuata.
L’inchiesta di Reuters fa invece riferimento ad un secondo incontro, che Sulemaini avrebbe avuto con Hadi Al-Amiri, importante figura della politica irachena nonché leader della milizia Badr. Durante l’incontro Sulemaini avrebbe suggerito di sostenere il premier Abdul Mahdi (sciita) per consentirgli di porre rimedio alla situazione.
Le due inchieste, citate anche da fonti di informazione qui in Italia, non sono state al momento smentite dal governo iracheno.
Nel frattempo la protesta prosegue: sono almeno otto le vittime della repressione solo nel fine settimana.
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