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06/11/2019

La secessione dei ricchi? È figlia dell’austerity e del federalismo fiscale regionale

Lunedì sera la trasmissione Report, nel corso di un servizio intitolato “Divorzio all’italiana” dedicato al tema dell’“autonomia differenziata”, ha cercato, a suo modo di spiegare quali regioni ci guadagnano e quali, invece, ci perdono. Nell’inchiesta sono stati presentati i dati del dossier “Il calcolo disuguale. La distribuzione delle risorse ai comuni per i servizi“, elaborato da Openpolis.

Colpiva sicuramente il raffronto tra Reggio Emilia e Reggio Calabria. La città calabrese ha 180 mila abitanti mentre quella emiliana ne conta 171.000. Dovrebbero essere dotati, più o meno, degli stessi servizi pubblici... e invece viene fuori un dato da far tremare le vene ai polsi. A Reggio Calabria ci sono solo 3 asili mentre e Reggio Emilia se ne contano 60. E se nella città emiliana si spendono 28 milioni di euro in istruzione, in quella calabrese se ne spendono solo 9. I rapporti sono più o meno gli stessi nella spesa per il welfare (40 milioni versus 17 milioni) e nella cultura (21 milioni versus 4 milioni), mentre il dato sull’edilizia popolare è incredibilmente sproporzionato: 54 milioni per i reggiani-emiliani contro solo 8 milioni per i reggini-calabresi.

È un divario enorme e fa certamente a pugni con la Costituzione che, all’articolo 3 sancisce che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. È una violazione evidente ed un regresso in termini di civiltà, ai limiti del razzismo di Stato. Ma come si spiega? Ovvero, come siamo arrivati a questo punto?

Si spiega con il fatto che le risorse ai comuni e a tutti gli altri enti territoriali, da alcuni anni, vengono assegnate sulla base della spesa storica con il criterio “Dummy” elaborato dall’ex sottosegretario al MEF e renziano di ferro Marattin. Dunque, un prodotto del governo di “centrosinistra” guidato da Renzi.

Più soldi ai ricchi – che si presume siano i “virtuosi” – meno ai poveri, ritenuti antropologicamente incapaci di amministrare. Qualcuno obbietta: eh... ma al sud c’è la mafia. Perfetto: per “combatterla” dunque si fanno meno, ma molti meno, asili, ospedali, scuole e servizi ai cittadini del Mezzogiorno. Geniale!

Eppure l’articolo 117 secondo comma, lettera m), della Costituzione della Repubblica Italiana, dopo la revisione del titolo V, prevede che vengano garantiti su tutto il territorio nazionale i “livelli essenziali delle prestazioni dei servizi” (LEP). Tuttavia mentre il compito della loro definizione spetta esclusivamente allo Stato, la loro realizzazione compete – oltre che allo stesso Stato – anche ai diversi enti territoriali, ovvero alle regioni, alle province e ai comuni.

La riforma del titolo V Cost., al novellato articolo 114, ha stabilito che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” che, dunque, pari sono sulle materie di potestà concorrente e che non si sono mai messi d’accordo su come realizzare i LEP, finendo poi per applicare il mero criterio della “spesa storica”, cristallizzando così le storiche (per l’appunto) differenze tra regioni ricche e regioni povere. E’ stato solo un caso? Una svista? Un problema di ordine istituzionale? È molto improbabile...

Ma non è finita qui.

La legge costituzionale 1/2012 (“Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”), approvata dal governo Monti nel 2012, ha modificato gli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione, inserendo nella Carta il “principio del pareggio di bilancio” secondo il quale “lo Stato deve assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, vincolando rigidamente il ricorso all’indebitamento all’andamento dei cicli economici e nell’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea (il fatidico 3% del rapporto deficit-PIL, ndr) [...] con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio”.

E così tutti gli enti territoriali che gestiscono servizi pubblici e che sono in deficit sono stati obbligati a fare dei sanguinosi “piani di rientro”; e poco importa se sono stati tagliati i servizi anziché gli sprechi.

La sanità a pezzi

Il combinato disposto delle due leggi di revisione costituzionale – quella del titolo V e quella che ha introdotto il “pareggio di bilancio” – sta causando il crollo della spesa sanitaria pubblica italiana.

9,4 miliardi euro sono stati sottratti al Fondo Sanitario Nazionale dal 2013 al 2015 perché il fabbisogno sanitario nazionale standard deve essere determinato “in coerenza con il quadro macroeconomico complessivo del Paese” e “nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica e degli obblighi assunti dall’Italia in sede comunitaria”, come recita testualmente il D.Lgs. 68/2011 (capo IV, artt. 25-32) che ha sancito il “federalismo fiscale regionale”.

Per lo stesso motivo, nel 2015, sono stati sottratti altri 2,3 miliardi al FSN più l’eliminazione di 180 prestazioni diagnostiche dalla lista dei servizi sanitari gratuiti (anche “salvavita”). Con la Legge di Stabilità 2016 è arrivato, poi, un ulteriore taglio di 2 miliardi cui vanno aggiunte le possenti riduzioni apportate ai bilanci delle Regioni per circa 19 miliardi di euro, previste per il triennio 2016 -2019 che ricadono direttamente sulla spesa Sanitaria che, da sola, rappresenta l’80% dei bilanci regionali.

Risultato: nel 2018, 13 milioni di italiani si sono curati in ritardo o non si sono curati affatto a causa di problemi di accesso alla sanità pubblica, per le liste di attesa troppe lunghe o per la difficoltà a raggiungere i presidi ospedalieri.

Secondo il Rapporto Gimbe 2019: “la Sanità pubblica cade a pezzi e si avvia in silenzio verso la privatizzazione.”[1] Nel meridione l’indice di mortalità è tornato indietro di 70 anni, come ebbe a denunciare, non molto tempo fa, Walter Ricciardi, ex presidente dell’Istituto superiore di Sanità: “Negli ultimi 15 anni il sistema sanitario del centro-sud sta andando alla deriva e l’aspettativa di vita in questa parte del paese si sta rapidamente abbassando. Il Meridione d’Italia rappresenta il fanalino di coda in Europa per gli indicatori di aspettativa di vita e, in particolare, la zona metropolitana di Napoli è la peggiore dove nascere, con un gap di ben 8 anni in termini di aspettativa di vita rispetto ai paesi UE. Senza un intervento finanziario shock dello Stato centrale la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente. Purtroppo la Costituzione non lo permette. [2]

Ma i ricchi, si sa, non sono mai contenti.

E allora ecco che arriva il progetto di “autonomia differenziata”, ovvero, la richiesta di maggiore autonomia che è stata avanzata da nove regioni (Lombardia, veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Umbria e Campania). In due di queste si è svolto un referendum nel 2017 che ha confermato la richiesta di Lombardia e Veneto e, oltre a queste ultime, anche con Emilia-Romagna e Piemonte si è giunti alla fase di intese tra regioni e governo.

Ma cosa si intende con “autonomie differenziate”? Si tratta dell’“autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario”, ovvero, di una potestà riconosciuta dall’articolo 116 della Costituzione dopo la modifica avvenuta con la riforma costituzionale del Titolo V, approvata nel 2001. L’articolo 116, che nel primo e secondo comma riconosce le regioni a statuto speciale, dunque prevede ora anche la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario (“regionalismo differenziato” o “regionalismo asimmetrico”, in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre).

E quali sono le materie nelle quali possono essere riconosciute ulteriori forme di autonomia? Tutte le materie che l’art. 117, terzo comma, attribuisce alla competenza legislativa concorrente, ovvero, rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Nelle materie di “legislazione concorrente” spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato che, a questo punto, manterrebbe la potestà esclusiva su un numero assai limitato di materie riservate dallo stesso art. 117: “organizzazione della giustizia di pace” e norme generali sull’istruzione tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

A tirare la volata sono stati certamente Zaia e Fontana, presidenti di Veneto e Lombardia, perché il governo, pur avendo concesso loro già moltissimo sull’autonomia differenziata, non ha ancora dato il via libera agli insegnanti “padani”. In questa battaglia la Lega ha trovato, sin dai tempi del passato governo gialloverde, una docile ed accomodante sponda nel Partito Democratico il quale – quando si tratta di privatizzare, fare “grandi opere”, attaccare i diritti dei lavoratori e fare a pezzi lo stato sociale – non si fa certo pregare due volte.

Così anche Bonaccini, presidente PD dell’Emilia Romagna, si è unito alle proteste dei suoi colleghi lamentando il ritardo con cui si decide l’autonomia.

Il punto è che in un quadro di spesa pubblica sottoposta ai rigidi vincoli dell’austerità imposti al nostro paese dalla Unione Europea, l’autonomia differenziata distruggerebbe quel poco che è rimasto in piedi del nostro welfare, portando al massacro sicuro tutto il Sud assieme ai poveri del Nord.

La ricetta è semplice: ogni regione si dovrà arrangiare mentre si taglia la spesa per la sanità ed i servizi pubblici sotto la scure dei continui “piani di rientro dal debito” e con l’obbligo del “pareggio di bilancio” che ora, grazie a Monti, è divenuto principio di rango costituzionale e calpesta tutti gli altri diritti sociali costituzionalmente sanciti sotto il ricatto di un debito pubblico gigantesco che si autoalimenta da sé all’infinito.

Insomma, per dirla con Giorgio Cremaschi: “L’autonomia differenziata, oggi, non è solo la secessione dei ricchi, è una sfacciata ferocia sociale verso i poveri. È giusto quindi lottare per fermarla e per questo è necessario SMASCHERARE il PD. Che su questo disastro ha persino più responsabilità della Lega, avendo riformato nel 2001 la Costituzione in modo da aprire la via alle richieste secessioniste. E avendo il PD approvato nel 2013 la modifica dell’articolo 81, inserendo il Fiscal Compact nella nostra Carta. Se vogliamo impedire alla Lega di realizzare il suo programma di devastazione sociale, dobbiamo denunciare e combattere la sporca alleanza del partito di Salvini con il PD. Sull’autonomia differenziata e su quasi tutto il resto.” [3].

[1] (https://www.attivismo.info/rapporto-gimbe-2019-sanita-pubbl…

[2] Federalismo più austerity; e al sud si muore come 70 anni fa di Sergio Scorza, su Contropiano del 24 Gennaio 2018

[3] La sporca alleanza tra Lega e Pd sull’autonomia differenziata di Giorgio Cremaschi (Potere Al Popolo) su Contropiano del 22/07/2019.

Fonte

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