Potere al Popolo! ha lanciato una
mobilitazione sul tema della redistribuzione della ricchezza, con
iniziative di sensibilizzazione che avranno luogo in tutta Italia nella
giornata di sabato 16 novembre. Di seguito il nostro contributo all’iniziativa.
In una delle scene cult di Pulp Fiction, la nota coppia di gangster
si ritrova davanti ad un increscioso problema: sui sedili posteriori
della loro auto un ragazzo ha appena ricevuto un colpo di pistola alla
testa, c’è sangue dappertutto e la macchina è zeppa di brandelli di
materia grigia. I due malviventi devono assolutamente ripulire l’auto e
liberarsi quanto prima di ciò che resta di quel corpo. Presi dal panico,
si rivolgono ad un famigerato problem solver, il signor Wolf, che si presenta sul luogo del misfatto e aiuta i due criminali ad uscire da quella situazione complicata.
L’esplosione delle disuguaglianze che si
sta verificando nei principali paesi avanzati ricorda molto questa scena
di Tarantino. Ma la sempre maggiore concentrazione della ricchezza in
poche mani rappresenta un increscioso problema solo per lavoratori e
disoccupati, perché non siamo tutti sulla stessa barca e, quando le
disuguaglianze si allargano, i lavoratori perdono reddito in favore di
profitti e rendite. Solo una parte della società, dunque, avrebbe davvero bisogno dell’intervento di un Mr. Wolf.
In Italia i lavoratori riescono ad
appropriarsi oggi del 65% del prodotto sociale, mentre negli anni
Settanta i salari si aggiudicavano circa il 75% della torta. Abbiamo
così assistito ad una redistribuzione del reddito dai salari ai profitti
di 10 punti percentuali che si spiega solo in base ad un progressivo
spostamento dei rapporti di forza in favore del capitale: indebolimento
del sindacato, costante riduzione dello stato sociale,
flessibilizzazione del mercato del lavoro con annessa proliferazione dei
contratti precari e dei part-time involontari e, non ultimo,
disoccupazione di massa hanno messo in ginocchio i lavoratori,
consentendo al capitale di riprendersi quelle quote di reddito che una
lunga e durissima stagione di lotte aveva assicurato ai salari.
Un ulteriore sguardo ai dati ci dà la misura della drammaticità del problema. Per il 2018 l’ISTAT
ha stimato 1,8 milioni di famiglie in povertà assoluta, per un totale
di 5 milioni di individui: ciò significa che quasi una persona su dieci,
in Italia, vive in condizioni di povertà assoluta, fino ad arrivare ad
una su cinque se si confina l’analisi al sud. Guardando alla ricchezza
posseduta, attualmente il cosiddetto top 10% (ossia il dieci
percento più ricco) della popolazione italiana possiede oltre sette
volte la ricchezza posseduta dalla metà più povera della popolazione. La
disuguaglianza risulta ancora più elevata se si fa riferimento al 5%
più ricco degli italiani, che detiene quasi la metà della ricchezza
nazionale, o addirittura osservando che l’1% più ricco detiene un quarto
della ricchezza nazionale. Analizzando, infine, il trend degli ultimi 20 anni, si nota che la quota di ricchezza detenuta dal top 10%
è passata dal 50% del 2000 all’attuale 56%, mentre quella della metà
più povera degli italiani è lentamente e costantemente scesa, passando
dal 13,1% di inizio millennio ad appena il 7,85% nel 2018. Insomma, la
situazione non solo è grave, ma pare essere in costante peggioramento.
Davanti a questa macelleria sociale, un
tarantiniano signor Wolf potrebbe essere rappresentato dallo Stato, che
storicamente ha contribuito a determinare le fondamentali tendenze
redistributive operando sulla leva fiscale e sull’intervento pubblico
nell’economia. La politica economica godrebbe in teoria di tutti gli
strumenti necessari a combattere la disuguaglianza e favorire l’equità
sociale redistribuendo redditi e ricchezza.
La prima arma in mano allo Stato è, vista l’elevatissima correlazione tra disoccupazione e povertà, il perseguimento di una piena e buona occupazione.
L’obiettivo del pieno impiego resta il principale canale di riduzione
delle disuguaglianze. Uno Stato capace di assicurare un’occupazione a
tutti, e di assicurarla a condizioni retributive e lavorative dignitose,
favorirebbe da un lato l’accesso al reddito da parte di coloro che un
lavoro non ce l’hanno, e dall’altro ripristinerebbe un certo equilibrio
nei rapporti di forza tra lavoro e capitale, con conseguente
inasprimento del conflitto distributivo e della ripresa di quella
dinamica salariale ferma al palo da decenni. Infatti, con più
occupazione viene spuntata l’arma principale usata dai capitalisti per
disciplinare i lavoratori, il ricatto della disoccupazione. La paura di
perdere il posto e, con quello, il reddito, costringe oggi milioni di lavoratori a chinare il capo
davanti alla prepotenza del profitto, che impone le peggiori condizioni
di lavoro senza incontrare opposizioni politiche o sociali di massa,
come invece accadeva negli anni Settanta. La piena occupazione, dunque,
non deve essere vista come un orizzonte politico e sociale in sé, ma
come un presupposto per una nuova offensiva dei lavoratori, finalmente
liberi di rialzare la testa e guidare una nuova e vigorosa ripresa della
lotta di classe.
Tuttavia, far sì che tutti siano
occupati, ed occupati dignitosamente, potrebbe non essere sufficiente a
garantire un adeguato livello di uguaglianza, in virtù dell’enorme
concentrazione della ricchezza a cui siamo arrivati. Ecco allora che lo
Stato potrebbe utilizzare un altro espediente per redistribuire la
ricchezza, andando a toccare il sistema della fiscalità. Fatta salva l’opportunità teorica di finanziare in deficit i programmi di spesa sociale, lo Stato potrebbe comunque fare politiche redistributive garantendo welfare
e servizi alle fasce meno abbienti della popolazione attraverso il
prelievo di risorse nei confronti dei soggetti più facoltosi. Negli
ultimi trent’anni, tuttavia, abbiamo assistito al processo contrario,
ossia ad un marcato spostamento del carico fiscale dai più ricchi ai più poveri.
A questa tendenza, inoltre, si è associata una sempre più sofisticata
capacità di evasione ed elusione fiscale da parte dei redditi da
capitale, e in particolare dei grandi capitali, che possono “fuggire”
all’estero con estrema facilità nel quadro europeo di piena libertà di
movimento del denaro.
Alcune evidenze confermano queste tesi.
Il numero di scaglioni, che contribuisce a determinare il grado di
progressività delle imposte dirette, è passato dalle 32 aliquote del
1974 alle 5 attuali (e c’è pure chi sogna l’aliquota unica, la flat tax):
è chiaro che un numero maggiore di aliquote consente di graduare meglio
il carico fiscale sulla base del reddito, mentre un numero inferiore di
scaglioni mette sullo stesso piano redditi molto diversi tra loro.
Così, ieri era prevista un’aliquota del 72% per i redditi che superavano
i 500 milioni di lire, mentre oggi chi supera i 75.000 euro paga
un’aliquota del 43%, senza alcuna differenza tra redditi alti e
altissimi. Il risultato è che oggi due terzi del gettito IRPEF
provengono da contribuenti che guadagnano fino a 55.000 euro l’anno:
sono i lavoratori che compongono la classe media, in buona sostanza, a
garantire la parte più consistente delle entrate IRPEF dello Stato. E
mentre il lavoro sostiene in pieno le spese dello Stato, i profitti
pagano un’imposta sostitutiva (IRES) pari al 24% degli utili dichiarati,
a prescindere dal livello degli utili, dunque fuori da qualsiasi
progressività. È così che nel 2018 lo Stato ha incassato dall’IRES meno
di 36 miliardi di euro, mentre i lavoratori dipendenti pubblici e
privati, insieme, pagavano circa 154 miliardi di euro di IRPEF. La leva
fiscale, quindi, è stata usata negli anni più recenti per contribuire
attivamente a determinare quella violenta redistribuzione del reddito
dai salari ai profitti: lavoratori e famiglie meno abbienti pagano sempre più imposte, mentre i capitali e i soggetti più ricchi ne pagano sempre meno.
Invertire questa tendenza sarebbe, in
linea teorica, ben possibile. Per quanto riguarda la tassazione sui
redditi, occorrerebbe informare a criteri di progressività il sistema
tributario e riportare sotto il cappello di tale progressività tutti i
redditi, principalmente quelli da capitale, che ad oggi ne restano
esclusi. Si tratta, in sostanza, di far pagare a coloro i quali
percepiscono un reddito più elevato delle imposte via via maggiori,
applicando un sistema di aliquote più che proporzionale rispetto al
reddito – l’esatto contrario di quanto fatto negli ultimi anni e di
quanto proposto dai sostenitori della flat tax.
In maniera analoga, parte delle risorse destinate a finanziare la spesa
sociale – e quindi a ridurre indirettamente la disuguaglianza –
potrebbe derivare da una tassazione sui grandi patrimoni, proprio alla
luce di quell’1% più ricco degli italiani che detiene il 25% della
ricchezza nazionale. Esistono poi altre forme di redistribuzione
attuabili mettendo mano al vigente sistema di funzionamento del fisco:
basti pensare ad una eventuale revisione delle aliquote IVA
(ad esempio, all’abolizione di tale imposta sui beni di prima
necessità, di cui si compongono in misura relativamente maggiore i
consumi dei meno facoltosi), nonché alla possibilità di decontribuzioni
ed agevolazioni fiscali per coloro che non superano determinate fasce di
reddito.
Insomma, il nostro Mr. Wolf potrebbe
agevolmente incidere sulla redistribuzione del reddito e della ricchezza
e risolvere questa situazione complicata per disoccupati e lavoratori:
nel pieno rispetto del dettato costituzionale (si veda l’Art. 53),
sarebbe infatti possibile rimodulare il sistema tributario e renderlo
maggiormente incline alle esigenze degli strati più disagiati della
popolazione, contribuendo in questa maniera alla realizzazione di una
distribuzione più equa.
È probabile, però, che l’ingresso sulla
scena di uno Stato che risolve i problemi dei lavoratori a colpi di
fisco e piena occupazione sia destinato a rimanere un pio desiderio per
la classe dei lavoratori. Politiche di piena e buona occupazione sono
quelle che più spaventano i capitalisti,
ed è per questo che la classe dirigente italiana, dopo aver subito un
arretramento con la stagione di lotte degli anni Settanta, ha costretto
il Paese sui binari dell’integrazione europea. L’Italia è ora inserita
in un contesto istituzionale che vieta per legge le politiche fiscali di
spesa necessarie a promuovere la piena occupazione: nei vincoli europei
– da Maastricht al Fiscal Compact
– non vi è alcuno spazio per perseguire una crescita economica
caratterizzata da migliori condizioni di lavoro. Il sistema europeo è
fondato sul ricatto della disoccupazione di massa, usata come arma per
imporre una crescente polarizzazione della ricchezza.
Inoltre, un sistema fiscale progressivo ed una tassazione più severa sui redditi da capitale non risultano certamente compatibili con i princìpi di libera circolazione delle merci e dei capitali su cui sono incardinati i trattati dell’Unione Europea.
Se pure riuscissimo a mettere mano al sistema fiscale, infatti, i
capitali sarebbero liberi di spostarsi in altri Paesi europei per
fuggire alla tassazione, e la libertà di movimento delle merci gli
consentirebbe di venire a vendere in Italia i beni che sarebbero
prodotti altrove. Solo un pieno ritorno al controllo dei flussi di merci
e capitali può permettere di ridiscutere radicalmente il sistema
tributario nella direzione di una maggiore equità e progressività.
Regole e Trattati europei si palesano ancora una volta come delle catene appositamente concepite
per tenere a bada le rivendicazioni degli ultimi, contribuendo in
questo modo a generare quella disuguaglianza che rende i lavoratori più
facilmente ricattabili e favorendo lo sfruttamento. Lo si capisce bene
se si ammette che persino le opzioni riformiste, come quella di un nuovo
sistema fiscale ispirato a principi di progressività, appaiono
totalmente incompatibili con la gabbia dell’Unione Europea. In teoria,
lo Stato ha tutto il potere di incidere sulla distribuzione del reddito e
della ricchezza, influenzando così i rapporti di forza tra le classi
sociali. In pratica, tale potere è esso stesso terreno di lotta, un
ambito dello scontro sociale che, con il procedere dell’integrazione
europea, diventa sempre più difficile contendere per i lavoratori.
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