I risultati delle elezioni generali spagnole del 10 novembre 2019, la
quarta convocazione elettorale per elezioni politiche negli ultimi
quattro anni, a solo sette mesi dalla precedente votazione, celebrata ad
aprile, confermano un panorama politico-elettorale bloccato, in cui
rimangono irrisolti tutti i principali nodi della crisi multilivello che
sta interessando il Paese iberico nell’ultimo decennio.
Nella precedente, brevissima legislatura Pedro Sánchez, il segretario
del Partito Socialista, ha rifiutato le proposte di formare un governo
di coalizione provenienti da Unidas Podemos. Un accordo che avrebbe
comportato sia la necessità di realizzare politiche sociali in
controtendenza rispetto alle politiche di austerity portate avanti anche
dai governi a guida socialista negli ultimi anni, sia un netto
cambiamento di atteggiamento verso l’indipendentismo catalano da parte
di Sánchez e dei socialisti, con l’apertura di un tavolo di negoziato
sulla riforma delle autonomie e/o il riconoscimento del diritto di
autodeterminazione, e la fine della criminalizzazione e
giudiziarizzazione del conflitto politico catalano. Sánchez e la
dirigenza socialista hanno deciso invece di convocare elezioni
anticipate, puntando ad aumentare i consensi elettorali e i seggi in
parlamento, per poter poi formare un governo, sebbene di minoranza, ma
con basi più solide e negoziare accordi puntuali da una posizione di
maggiore forza. Alla fine, però, a Sánchez, come si dice in lingua
castigliana, le salió el tiro por la culata, cioè il colpo, invece di uscire dalla canna del fucile, gli è uscito dal calcio, rimanendone così vittima.
Le elezioni di ieri, infatti, delineano un panorama simile a quello
emerso lo scorso aprile, senza la possibilità di formare un governo
monocolore stabile, per quanto di minoranza, e con una situazione resa
più complessa e incerta per la ridefinizione degli equilibri interni
alle diverse componenti politiche presenti nel Congreso de los Diputados di Madrid.
I socialisti perdono poco più di 760.000 voti, traducendosi in un
calo di soli tre seggi, da 123 a 120, anche grazie a una partecipazione
elettorale più bassa del 6% rispetto ad aprile. Un numero di seggi molto
distante dai 176 necessari per avere una maggioranza assoluta, e
comunque non sufficienti per tentare la via di un governo monocolore di
minoranza con l’appoggio esterno o l’astensione di alcune formazioni
minori. A sinistra del PSOE Unidas Podemos, la coalizione ormai stabile
tra Podemos a guida Pablo Iglesias, e Izquierda Unida, riesce a limitare
i danni perdendo poco più di 500.000 voti, ma perde ben 7 seggi,
passando da 42 a 35, per gli effetti del sistema elettorale e la
concorrenza dell’ex compagno di partito Iñigo Errejón che, con la sua
formazione Más País ha ottenuto solo 3 seggi (di cui 1 ottenuto grazie
alla coalizione con la formazione valenziana Compromís), rimanendo molto
al di sotto delle aspettative.
È a destra che la ridefinizione degli equilibri elettorali ha
prodotto le trasformazioni più importanti. Nel complesso la somma delle
diverse formazioni di destra rimane stabile, ma acquisisce un peso
crescente la componente più estrema rappresentata da Vox. Il Partito
Popolare, che fino a poco tempo fa sembrava destinato a ridimensionarsi
per gli scandali di corruzione, ha riconquistato posizioni, guadagnando
600.000 voti e passando dai 66 seggi di aprile agli 88 attuali. La vera
sorpresa, poi neanche tale visto che era nell’aria, è stato l’exploit di
Vox, la formazione di estrema destra guidata da Santiago Abascal che si
caratterizza per una ridefinizione del discorso della destra franchista
spagnola, fino a poco tempo fa in gran parte contenuta politicamente
nel Partito Popolare, in cui autonomie, migranti e femministe vengono
individuati come i principali nemici della patria. Una forza che innesta
il tradizionale discorso neofranchista nella nuova ondata di populismo
(neo)fascista in diffusione in Europa, e non a caso Salvini e la Le Pen
sono stati i primi a congratularsi con i neofranchisti spagnoli. Da
aprile a novembre Vox ha conquistato quasi un milione di voti e ben 28
seggi, passando da 24 a 52 (un numero di seggi che, ad esempio,
permetterà al gruppo Parlamentare di Vox di chiedere il giudizio del
Tribunale Costituzionale sui progetti di legge approvati. Uno strumento
molto potente per ostacolare possibili riforme genericamente
progressiste in ambiti come la memoria storica, le politiche di genere,
le politiche migratorie). Il successo di Vox e la tenuta del PP sono
avvenuti soprattutto a spese di Ciudadanos, il partito guidato
da Albert Rivera che agli osservatori internazionali appariva come
formazione liberale, ma che in realtà per discorso e pratica politica si
caratterizza per essere una formazione nazionalista spagnola, non a
caso nata in Catalogna per contrastare la crescita dell’indipendentismo,
e poi proiettata a livello statale come progetto di una destra moderna
in grado di sostituire il PP corrotto. Ciudadanos è il principale
sconfitto delle elezioni del 10 novembre, avendo perso 2 milioni e mezzo
di voti, e ben 47 seggi, passando dai 57 di aprile ai 10 odierni. Una
batosta che ha causato le dimissioni di Rivera e il suo addio alla vita
politica.
Il panorama elettorale fornisce indicazioni interessanti anche
andando ad analizzare quanto avvenuto nelle “nazionalità periferiche”.
In primo luogo, in Catalogna. Il conflitto emerso in Catalogna
nell’ultimo decennio rappresenta uno dei nervi scoperti della crisi
politico-istituzionale spagnola. Una conflitto che si è acuito nelle
ultime settimane, con la condanna dei leader indipendentisti per
sedizione, resa pubblica dal Tribunal Supremo lo scorso 14 ottobre, e
le conseguenti proteste di diverso tipo che hanno riempito le strade e
le piazze catalane, proprio durante il periodo di campagna elettorale.
Nel complesso l’indipendentismo catalano ottiene un risultato storico
per delle elezioni generali spagnole, conquistando poco più di 1 milione
e 600.000 voti, e ben 23 seggi: 2 per la Cup, la piattaforma della
sinistra indipendentista e anticapitalista, 13 per Erc, la formazione
socialdemocratica guidata da Oriol Junqueras, uno dei condannati lo
scorso 14 ottobre, e 8 seggi per Junts per Catalunya, la formazione di
centro-destra legata all’ex Presidente in esilio Puigdemont.
L’indipendentismo, ottenendo circa il 43% dei voti, supera per la prima
volta per numero di voti e seggi le formazioni apertamente unioniste,
che si fermano poco di sotto del 40%. Anche i risultati del 10 novembre
confermano così che il potenziale di mobilitazione dell’indipendentismo è
ancora alto e che, come dicono gli osservatori “l’elefante è ancora
nella stanza”. Un potenziale di mobilitazione che, è sì facilitato dalla
repressione del governo spagnolo, ma che, analizzando con attenzione i
risultati elettorali e gli eventi di questi giorni, deve fare i conti
con la mancanza di una strategia comune tra le diverse formazioni
indipendentiste, e le tensioni più o meno esplicite che stanno emergendo
tra le diverse anime del variegato movimento dopo lo stallo
dell’autunno 2017. Erc, che nella scorsa legislatura aveva di fatto
abbandonato la linea unilaterale cercando di aprire a un possibile
accordo con Sánchez, rimane ancora la formazione più votata
dell’indipendentismo, ma rispetto ad aprile ha perso 150.000 voti,
confermando un calo dei consensi che già era emerso nelle elezioni
europee, mentre la Cup e JxC, che esprimono le posizioni più scettiche e
inclini al rilancio di una prospettiva di rottura per esercitare il
diritto di autodeterminazione, crescono in termini relativi. Uno
scenario che dipenderà anche da come si svilupperà la dinamica tra
“piazza” e partiti. La protesta riaccesa nelle ultime settimane ha fatto
emergere posizione critiche rispetto alla leadership politica
dell’indipendentismo. Durante questa settimana sono previste iniziative
di disobbedienza a sorpresa convocate dalla piattaforma digitale Tsunami
Democratic (nella giornata di oggi, lunedì 11 novembre, è stata
bloccata la frontiera con la Francia alla Jonquera).
Anche nel Paese basco, seppur in un contesto attualmente meno
conflittuale rispetto allo scenario catalano, si delinea un
rafforzamento delle formazioni regionaliste e indipendentiste, con il
moderato e centrista Pnv che consolida la sua presenza nel Congresso,
passando da 6 a 7 seggi rispetto ad aprile, e la sinistra
indipendentista di EH Bildu che dimostra di aver recuperato un certo
protagonismo politico dopo la fase di ridefinizione successiva alla fine
della fase armata, riuscendo a ottenere 5 seggi, 1 in più rispetto ad
aprile.
È interessante notare come in Catalogna Vox abbia ottenuto risultati
meno positivi rispetto al resto dello Stato (ottenendo solo 2 seggi in
questo territorio), mentre in Euskadi né Vox né il PP ottengono seggi.
Nelle prossime settimane vedremo come evolverà il puzzle politico
spagnolo. Al momento i diversi osservatori coincidono nell’individuare
tre possibili scenari. Una prima possibilità è l’apertura del Partito
socialista a un accordo con la sinistra di Unidas Podemos e Más Pais,
con il sostegno esterno o l’astensione delle formazioni regionaliste e
indipendentiste. Uno scenario che implica una inversione a U nella
politica dei socialisti, che dovrebbero accettare di sviluppare
politiche sociali nettamente progressiste in controtendenza con quanto
fatto dallo stesso partito in materia sociale ed economica negli ultimi
anni, sia aprire al dialogo con l’indipendentismo e accettare una
riforma in senso federale dello Stato (rimangiandosi quanto detto e
fatto nelle ultime settimane di campagna elettorale, in cui Sánchez ha
fatto proprio il discorso della durezza e della repressione contro la
minaccia “separatista”).
Un secondo scenario è quello della “grande coalizione” con il PP,
tanto con la formazione di un governo di coalizione (cosa che sarebbe
una novità assoluta per il sistema politico spagnolo), quanto con
l’astensione dei popolari; uno scenario che sulla carta sembrerebbe meno
problematico rispetto al precedente, basandosi su un accordo tra i due
pilastri del bipartitismo in decomposizione, ma che, tenendo conto delle
dinamiche interne alla destra, non è esente da ostacoli importanti: un
accordo di governo con i socialisti renderebbe i popolari facile preda
degli attacchi di Vox, all’opposizione e in crescita.
Un terzo possibile scenario è quello di una nuova convocazione di
elezioni anticipate in primavera (la quinta in 4 anni, e la terza in un
anno), con tutte le incognite che una scelta del genere porterebbe
comportare.
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