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13/11/2019

Dalle piazze alle urne. Lotte di classe in Spagna

I risultati delle elezioni generali spagnole del 10 novembre 2019, la quarta convocazione elettorale per elezioni politiche negli ultimi quattro anni, a solo sette mesi dalla precedente votazione, celebrata ad aprile, confermano un panorama politico-elettorale bloccato, in cui rimangono irrisolti tutti i principali nodi della crisi multilivello che sta interessando il Paese iberico nell’ultimo decennio.

Nella precedente, brevissima legislatura Pedro Sánchez, il segretario del Partito Socialista, ha rifiutato le proposte di formare un governo di coalizione provenienti da Unidas Podemos. Un accordo che avrebbe comportato sia la necessità di realizzare politiche sociali in controtendenza rispetto alle politiche di austerity portate avanti anche dai governi a guida socialista negli ultimi anni, sia un netto cambiamento di atteggiamento verso l’indipendentismo catalano da parte di Sánchez e dei socialisti, con l’apertura di un tavolo di negoziato sulla riforma delle autonomie e/o il riconoscimento del diritto di autodeterminazione, e la fine della criminalizzazione e giudiziarizzazione del conflitto politico catalano. Sánchez e la dirigenza socialista hanno deciso invece di convocare elezioni anticipate, puntando ad aumentare i consensi elettorali e i seggi in parlamento, per poter poi formare un governo, sebbene di minoranza, ma con basi più solide e negoziare accordi puntuali da una posizione di maggiore forza. Alla fine, però, a Sánchez, come si dice in lingua castigliana, le salió el tiro por la culata, cioè il colpo, invece di uscire dalla canna del fucile, gli è uscito dal calcio, rimanendone così vittima.

Le elezioni di ieri, infatti, delineano un panorama simile a quello emerso lo scorso aprile, senza la possibilità di formare un governo monocolore stabile, per quanto di minoranza, e con una situazione resa più complessa e incerta per la ridefinizione degli equilibri interni alle diverse componenti politiche presenti nel Congreso de los Diputados di Madrid.

I socialisti perdono poco più di 760.000 voti, traducendosi in un calo di soli tre seggi, da 123 a 120, anche grazie a una partecipazione elettorale più bassa del 6% rispetto ad aprile. Un numero di seggi molto distante dai 176 necessari per avere una maggioranza assoluta, e comunque non sufficienti per tentare la via di un governo monocolore di minoranza con l’appoggio esterno o l’astensione di alcune formazioni minori. A sinistra del PSOE Unidas Podemos, la coalizione ormai stabile tra Podemos a guida Pablo Iglesias, e Izquierda Unida, riesce a limitare i danni perdendo poco più di 500.000 voti, ma perde ben 7 seggi, passando da 42 a 35, per gli effetti del sistema elettorale e la concorrenza dell’ex compagno di partito Iñigo Errejón che, con la sua formazione Más País ha ottenuto solo 3 seggi (di cui 1 ottenuto grazie alla coalizione con la formazione valenziana Compromís), rimanendo molto al di sotto delle aspettative.

È a destra che la ridefinizione degli equilibri elettorali ha prodotto le trasformazioni più importanti. Nel complesso la somma delle diverse formazioni di destra rimane stabile, ma acquisisce un peso crescente la componente più estrema rappresentata da Vox. Il Partito Popolare, che fino a poco tempo fa sembrava destinato a ridimensionarsi per gli scandali di corruzione, ha riconquistato posizioni, guadagnando 600.000 voti e passando dai 66 seggi di aprile agli 88 attuali. La vera sorpresa, poi neanche tale visto che era nell’aria, è stato l’exploit di Vox, la formazione di estrema destra guidata da Santiago Abascal che si caratterizza per una ridefinizione del discorso della destra franchista spagnola, fino a poco tempo fa in gran parte contenuta politicamente nel Partito Popolare, in cui autonomie, migranti e femministe vengono individuati come i principali nemici della patria. Una forza che innesta il tradizionale discorso neofranchista nella nuova ondata di populismo (neo)fascista in diffusione in Europa, e non a caso Salvini e la Le Pen sono stati i primi a congratularsi con i neofranchisti spagnoli. Da aprile a novembre Vox ha conquistato quasi un milione di voti e ben 28 seggi, passando da 24 a 52 (un numero di seggi che, ad esempio, permetterà al gruppo Parlamentare di Vox di chiedere il giudizio del Tribunale Costituzionale sui progetti di legge approvati. Uno strumento molto potente per ostacolare possibili riforme genericamente progressiste in ambiti come la memoria storica, le politiche di genere, le politiche migratorie). Il successo di Vox e la tenuta del PP sono avvenuti soprattutto a spese di Ciudadanos, il partito guidato da Albert Rivera che agli osservatori internazionali appariva come formazione liberale, ma che in realtà per discorso e pratica politica si caratterizza per essere una formazione nazionalista spagnola, non a caso nata in Catalogna per contrastare la crescita dell’indipendentismo, e poi proiettata a livello statale come progetto di una destra moderna in grado di sostituire il PP corrotto. Ciudadanos è il principale sconfitto delle elezioni del 10 novembre, avendo perso 2 milioni e mezzo di voti, e ben 47 seggi, passando dai 57 di aprile ai 10 odierni. Una batosta che ha causato le dimissioni di Rivera e il suo addio alla vita politica.

Il panorama elettorale fornisce indicazioni interessanti anche andando ad analizzare quanto avvenuto nelle “nazionalità periferiche”. In primo luogo, in Catalogna. Il conflitto emerso in Catalogna nell’ultimo decennio rappresenta uno dei nervi scoperti della crisi politico-istituzionale spagnola. Una conflitto che si è acuito nelle ultime settimane, con la condanna dei leader indipendentisti per sedizione, resa pubblica dal Tribunal Supremo lo scorso 14 ottobre, e le conseguenti proteste di diverso tipo che hanno riempito le strade e le piazze catalane, proprio durante il periodo di campagna elettorale. Nel complesso l’indipendentismo catalano ottiene un risultato storico per delle elezioni generali spagnole, conquistando poco più di 1 milione e 600.000 voti, e ben 23 seggi: 2 per la Cup, la piattaforma della sinistra indipendentista e anticapitalista, 13 per Erc, la formazione socialdemocratica guidata da Oriol Junqueras, uno dei condannati lo scorso 14 ottobre, e 8 seggi per Junts per Catalunya, la formazione di centro-destra legata all’ex Presidente in esilio Puigdemont. L’indipendentismo, ottenendo circa il 43% dei voti, supera per la prima volta per numero di voti e seggi le formazioni apertamente unioniste, che si fermano poco di sotto del 40%. Anche i risultati del 10 novembre confermano così che il potenziale di mobilitazione dell’indipendentismo è ancora alto e che, come dicono gli osservatori “l’elefante è ancora nella stanza”. Un potenziale di mobilitazione che, è sì facilitato dalla repressione del governo spagnolo, ma che, analizzando con attenzione i risultati elettorali e gli eventi di questi giorni, deve fare i conti con la mancanza di una strategia comune tra le diverse formazioni indipendentiste, e le tensioni più o meno esplicite che stanno emergendo tra le diverse anime del variegato movimento dopo lo stallo dell’autunno 2017. Erc, che nella scorsa legislatura aveva di fatto abbandonato la linea unilaterale cercando di aprire a un possibile accordo con Sánchez, rimane ancora la formazione più votata dell’indipendentismo, ma rispetto ad aprile ha perso 150.000 voti, confermando un calo dei consensi che già era emerso nelle elezioni europee, mentre la Cup e JxC, che esprimono le posizioni più scettiche e inclini al rilancio di una prospettiva di rottura per esercitare il diritto di autodeterminazione, crescono in termini relativi. Uno scenario che dipenderà anche da come si svilupperà la dinamica tra “piazza” e partiti. La protesta riaccesa nelle ultime settimane ha fatto emergere posizione critiche rispetto alla leadership politica dell’indipendentismo. Durante questa settimana sono previste iniziative di disobbedienza a sorpresa convocate dalla piattaforma digitale Tsunami Democratic (nella giornata di oggi, lunedì 11 novembre, è stata bloccata la frontiera con la Francia alla Jonquera).

Anche nel Paese basco, seppur in un contesto attualmente meno conflittuale rispetto allo scenario catalano, si delinea un rafforzamento delle formazioni regionaliste e indipendentiste, con il moderato e centrista Pnv che consolida la sua presenza nel Congresso, passando da 6 a 7 seggi rispetto ad aprile, e la sinistra indipendentista di EH Bildu che dimostra di aver recuperato un certo protagonismo politico dopo la fase di ridefinizione successiva alla fine della fase armata, riuscendo a ottenere 5 seggi, 1 in più rispetto ad aprile.

È interessante notare come in Catalogna Vox abbia ottenuto risultati meno positivi rispetto al resto dello Stato (ottenendo solo 2 seggi in questo territorio), mentre in Euskadi né Vox né il PP ottengono seggi.

Nelle prossime settimane vedremo come evolverà il puzzle politico spagnolo. Al momento i diversi osservatori coincidono nell’individuare tre possibili scenari. Una prima possibilità è l’apertura del Partito socialista a un accordo con la sinistra di Unidas Podemos e Más Pais, con il sostegno esterno o l’astensione delle formazioni regionaliste e indipendentiste. Uno scenario che implica una inversione a U nella politica dei socialisti, che dovrebbero accettare di sviluppare politiche sociali nettamente progressiste in controtendenza con quanto fatto dallo stesso partito in materia sociale ed economica negli ultimi anni, sia aprire al dialogo con l’indipendentismo e accettare una riforma in senso federale dello Stato (rimangiandosi quanto detto e fatto nelle ultime settimane di campagna elettorale, in cui Sánchez ha fatto proprio il discorso della durezza e della repressione contro la minaccia “separatista”).

Un secondo scenario è quello della “grande coalizione” con il PP, tanto con la formazione di un governo di coalizione (cosa che sarebbe una novità assoluta per il sistema politico spagnolo), quanto con l’astensione dei popolari; uno scenario che sulla carta sembrerebbe meno problematico rispetto al precedente, basandosi su un accordo tra i due pilastri del bipartitismo in decomposizione, ma che, tenendo conto delle dinamiche interne alla destra, non è esente da ostacoli importanti: un accordo di governo con i socialisti renderebbe i popolari facile preda degli attacchi di Vox, all’opposizione e in crescita.

Un terzo possibile scenario è quello di una nuova convocazione di elezioni anticipate in primavera (la quinta in 4 anni, e la terza in un anno), con tutte le incognite che una scelta del genere porterebbe comportare.

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