Che rapporto c’è tra le “scuse” porte da Ursula Von der Leyen all’Italia, le trattative frenetiche intorno alle proposte di intervento “comune” per attutire l’impatto del coronavirus sulle economie europee e lo stato dei grandi istituti finanziari europei?
Se si vuol capire qualcosa, diciamo spesso, non bisogna mai seguire le parole dei vertici dell’establishment continentale (o statunitense), ma seguire il denaro (follow the money, dicono gli anglosassoni).
Quei disinformatori professionali di Repubblica o del Corriere hanno presentato la lettera della presidente della Commissione Europea (il “governo” Ue) quasi come un atto di contrizione, giocato su classici e facili luoghi comuni, per quanto concretissimi (le sofferenze, le vittime, ecc.), che dovrebbe far ben sperare per un atteggiamento più “morbido” della Germania e dunque della Ue sul dossier “condivisione” dei costi della crisi.
«Oggi l’Europa si sta mobilitando al fianco dell’Italia», anche se «purtroppo non è stato sempre così». Anzi, «bisogna riconoscere che nei primi giorni della crisi, di fronte al bisogno di una risposta comune europea, in troppi hanno pensato solo ai problemi di casa propria».
Ma quando si passa dalle frasi di circostanza alle misure concrete il discorso cambia. Drasticamente, ma sempre con parole di miele.
«L’Europa (la Ue, ndr) vuole dare una mano stanziando nuove risorse per finanziare la cassa integrazione. 100 miliardi di euro in favore dei Paesi colpiti più duramente, a partire dall’Italia, per compensare la riduzione degli stipendi di chi lavora con un orario ridotto. Questo sarà possibile grazie a prestiti garantiti da tutti gli Stati membri, dimostrando così vera solidarietà europea».
Con quale meccanismo? Domanda normale, in una comunità economica affollata di trattati vincolanti che non si vuole rimettere in discussione.
Si chiama “Sure”, ed era stato presentato dalla stessa Von der Leyen via video. Fin dal primo sguardo, però, si capisce che questo strumento si limiterà a consentire ad ogni Stato di finanziare la cassa integrazione per le aziende in crisi nel proprio Paese, salvando temporaneamente il posto di lavoro e parzialmente il reddito dei loro dipendenti, nulla di più.
Se infatti si tratta di un fondo finanziato pro quota da tutti i singoli Stati, in una situazione in cui tutti i Paesi si trovano grosso modo nelle stesse condizioni (chi più, chi meno, ma con tempistiche differenti che vanno tendenzialmente a convergere verso effetti pressoché uguali per tutti), è matematico che ognuno semplicemente riprenda i soldi che vi ha messo. Spicciolo più, spicciolo meno.
Dov’è allora questa “concreta solidarietà europea”? Assente, come sempre...
Idem per la questione irritante del possibile utilizzo del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) che ormai perfino Conte e Gualtieri definiscono inadatto a risolvere uno “shock simmetrico” (uguale per tutti), in quanto pensato per affrontare quelli “asimmetrici”, che riguardano un singolo paese in condizioni “normali”. L’esempio è la Grecia del 2015, e quindi...
Però diversi leader tedeschi, economisti e anche i Verdi di Germania cominciano a dire chiaramente che se affondano tutti i partner europei – a cominciare dai firmatari della lettera che chiede l’istituzione di “coronabond” comunitari condivisi – e soprattutto Paesi “pesanti” come Italia, Spagna, Francia... Berlino non ha speranze di poter evitare la catastrofe. E non solo perché buona parte dell’export tedesco è infra-europeo.
Con più precisione, Francesco Ninfole su Milano Finanza – citando tra gli altri alcuni dati del Cer – fa notare che il sistema bancario tedesco, da anni in gravi difficoltà, stavolta rischia di fare il botto: Banche, il tallone d’Achille della Germania nella crisi.
I conti sono presto fatti. “Gli istituti in Germania mostravano già nel terzo trimestre 2019 una redditività del capitale pari a zero, inferiore anche a quello delle banche greche (3,2%, mentre è al 6,6% la media europea). I 20 maggiori gruppi tedeschi hanno anche un altro primato negativo, quello del rapporto tra costi e ricavi, vicino all’84%: un dato più alto di quelli francesi (72%), italiani (64%) e spagnoli (53%)”.
Traducendo: per colpa di un modo di far banca rimasto quasi “antico” (molti sportelli, tanti dipendenti, ecc.), le banche tedesche guadagnano meno delle altre. In più, hanno avuto negli ultimi 30 anni un profilo speculativo molto più azzardato, al limite dell’incoscienza.
“Le banche in Germania hanno il problema dei titoli illiquidi”. Ossia titoli che non si vendono perché nessuno li vuole più e dunque non valgono nulla anche se risultano tra gli “attivi” al prezzo con cui sono stati comprati; è come pensare di esser ricchi perché si possiede una villa rasa al suolo da un terremoto.
“Solo il 19% degli asset al fair value è liquido” (ossia ha un accettabile valore di mercato), “contro una media Ue del 30% (le italiane sono al 64%, le francesi al 27%). Difficile immaginare che questi valori non diminuiscano quest’anno”.
La più grande di queste banche è ovviamente Deutsche Bank, autentico zombie che da anni è sul punto di schiantare ed è ancora in vita solo perché “troppo grande per fallire”.
E cosa possono fare, lassù, per tamponare questo tsunami che si aggiungerebbe a quello da coronavirus?
“C’è chi pensa ora che la Germania, magari approfittando della sospensione delle regole Ue sugli aiuti di Stato, possa intervenire ancora (dopo I 250 miliardi iniettati prima del 2013 e il recente salvataggio di NordLb) per rafforzare alcune banche. Probabilmente senza il burden sharing imposto in passato agli istituti italiani”.
A “regole europee” vigenti, infatti, le banche si possono “salvare” solo tramite il bail in (fottendo azionsti, obbligazionisti e correntisti sopra i 100.000 euro); oppure tramite il più vecchio e meno drastico burden sharing (qualsiasi aiuto pubblico a una banca deve innanzitutto essere esaminato ed approvato dalla Commissione Europea, ma soprattutto deve essere erogato solamente in seguito alla riduzione del valore nominale delle azioni e delle obbligazioni subordinate, o la conversione in capitale di queste ultime).
Ci perdonerete i tecnicismi, ma erano necessari per comprendere che le “regole europee” non discendono dalle tavole della legge della “scienza economica” (che peraltro “prevede il passato” e non indica alcuna strada nei tempi “eccezionali”), ma dai concreti interessi dei “sistemi Paese”.
A conti fatti, insomma, una delle ragioni per cui Germania e Olanda (e altri paesi del fronte “austero”) non sono disponibili a “condividere” il rischio finanziario con altri Paesi non sta tanto nella pallida eventualità che questi facciano “le cicale” invece di combattere l’epidemia e poi far ripartire l’economia. Ma nello stato comatoso di una sistema bancario “allegro”, che ha speculato sui prodotti derivati e sul capitale fittizio di Wall Street rimettendoci anche le mutande.
E per quanto “surplus” abbia accumulato lo Stato tedesco in questi ultimi 20 anni, giocando sui meccanismi differenziali dell’”austerità” a scapito dei partner più deboli, resta pur sempre una goccia nell’oceano di “titoli illiquidi” che ha allagato quelle banche.
E che probabilmente trascinerebbe nel gorgo anche un sistema industriale fondato ancora sull’automobile...
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