Gli effetti economici
della pandemia stanno assumendo sempre più un posto di rilievo nel
dibattito politico mentre siamo ancora nel bel mezzo della crisi. Mentre
si susseguono le stime sulla drammatica caduta del PIL italiano che
potrebbe seguirne e le istituzioni europee mostrano continuamente un atteggiamento ottuso e mendace,
milioni di lavoratori soffrono una condizione di difficoltà e
incertezza che si aggiunge a decenni di riforme fatte sulla loro pelle.
Per porre un argine a questa situazione servirebbe un intervento imponente dello Stato
e della finanza pubblica. Quello che proveremo a fare in questo
articolo è capire se il decreto “Cura Italia”, la prima misura messa in
campo dal governo per contrastare gli effetti economici della Covid-19,
abbia questa portata, e quali implicazioni possa avere per la classe
lavoratrice. Nella drammaticità della situazione, infatti e come al
solito, la barca non è la stessa per tutti. Il rallentamento
dell’attività produttiva e le fosche nubi sul futuro prima, il decreto
del 23 marzo poi, che limitava l’attività produttiva ai soli settori
essenziali, hanno lasciato a casa milioni di lavoratori appartenenti
alle categorie contrattuali più disparate che necessitano di tutele economiche.
La legittima e necessaria scelta di limitare l’attività produttiva alle
sole produzioni essenziali al fine di tutelare la salute pubblica e dei
lavoratori, seppure limitata dall’ostruzionismo interessato e ipocrita di Confindustria,
impone uno sforzo politico ed economico a sostegno dei lavoratori
coinvolti in questa fase, i quali rischiano di scontare sulla loro pelle
anche gli effetti nefasti che la nostra economia si troverà ad
affrontare.
Le misure che limitano la produzione
avranno conseguenze forti sul settore privato che, di riflesso, si
riverseranno sull’intera economia. Le imprese vedranno ridotto
pesantemente il loro giro d’affari e le perdite, secondo le previsioni pessimistiche del Cerved,
potrebbero attestarsi attorno ai 470 miliardi per il solo 2020. Molto
probabilmente, a causa della piaga della Covid-19, ci sarà una profonda
recessione economica: le stime che si susseguono, tutt’altro che
confortanti, parlano di una contrazione del PIL
che potrà arrivare anche al 10-15%. Se si pensa che tra il 2007 e il 2009
la recessione ha causato una caduta del reddito nazionale pari al 6,6%,
si ha l’idea dell’ordine di grandezza del quale si sta parlando e di
come si aggraverebbe la già precaria situazione economica e sociale del
nostro paese. L’emergenza Coronavirus, inoltre, ci è piombata addosso in
un contesto tutt’altro che roseo:
il terzo trimestre del 2019 aveva registrato un calo del PIL pari allo
0,3%, le stime sulla crescita si aggiravano attorno allo 0% e la
disoccupazione stagnava ai suoi cronici livelli prossimi al 10%. Già
prima del decreto del 21 marzo, secondo Confindustria l’attività delle
imprese italiane era rallentata del 20%. Ora più che mai, dunque, sarebbe opportuno abbandonare il vicolo cieco dell’austerità e investire con decisione
per evitare che il Paese veda la distruzione della sua già stremata
struttura produttiva, l’esplodere della disoccupazione e l’aggravamento
della situazione sociale.
Per porre un freno al precipitare degli
eventi, Il 17 marzo è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto
legge (DL) “Cura Italia” dopo che il governo ha ottenuto, non senza
sforzi, l’autorizzazione dall’Unione Europa per poter fare interventi di
spesa pubblica straordinaria – non prevista nel Documento di Economia e
Finanza (DEF) di riferimento – vista la drammaticità della situazione
attuale. Una manovra definita “poderosa” dal presidente del consiglio Conte che però, come lui ha ammesso, non sarà sufficiente. Si tratta di un intervento di circa 20 miliardi, poco più dell’1% del PIL,
a cui dovrebbe far seguito una nuova manovra ad aprile, più o meno
dello stesso importo che ci porterebbe verso il 3,3/4,3% del rapporto
deficit/PIL per il 2020. Una manovra difficile a cui si stanno, in
queste ore, già aggiungendo provvedimenti tampone e dettagli tralasciati
in precedenza.
L’entità del “Cura Italia”, se paragonata
a quella delle altre grandi economie europee, ci dà l’idea dell’ostile
contesto istituzionale nel quale ci muoviamo. Il parlamento tedesco, ad
esempio, ha autorizzato il congelamento del pareggio di bilancio
approvando una manovra da 156 miliardi di debito in più, pari al 5% del PIL.
Una differenza impressionante ma non casuale, che riflette la natura
perversa della configurazione istituzionale europea. In un contesto in
cui la BCE non garantisce l’acquisto di titoli del debito pubblico italiano,
nella misura appropriata a contrastare la speculazione finanziaria ed
evitare l’esplosione dello spread, il governo italiano fa una misura
dall’ammontare ‘prudente’, se si vuole usare un eufemismo, o più
direttamente insufficiente, proprio ora in cui è
impellente la necessità di scardinare l’austerità. Austerità che, come
abbiamo detto e come questi dati confermano, non si presta a lasciare
l’Europa e le cui nubi ancora si addensano sulle vite di cittadini e
lavoratori.
Se l’entità della spesa è insufficiente, la sua composizione non è da meno.
Per quanto riguarda la spesa in sanità, la differenza con la Germania
si fa abissale se si pensa che a fronte dei 3 miliardi presenti nel Cura
Italia, ben un terzo del nuovo debito tedesco andrà a rimpinguare un
sistema sanitario che di per sé, già non ha subito i poderosi tagli sperimentati
da quello italiano. Una somma irrisoria rispetto allo sforzo in termini
di strutture e personale che il nostro Sistema Sanitario sta
affrontando in queste settimane.
Come orgogliosamente rivendicato dalla
Ministra del lavoro, il decreto stanzia 10 miliardi “a favore dei
lavoratori”. Di questi, 5 miliardi, rappresentano interventi sulla Cassa
Integrazione (CIG). Oggetto di modifica tanto da parte della riforma
Fornero che da parte del Jobs Act, che ne hanno limitato le casistiche e
la durata, la CIG è un ammortizzatore sociale in costanza di rapporto.
Ciò significa che il lavoratore che vi accede resta formalmente un
dipendente dell’impresa. La ratio legis della Cassa
Integrazione è quella di sostituire l’INPS alle imprese che versino in
una situazione momentanea di difficoltà, nel versamento dei compensi ai
lavoratori (per un ammontare pari a circa l’80% dello stipendio). Essa,
tuttavia, rappresenta un potente strumento di tutela dei lavoratori, uno
di quei presidi conquistati con le lotte operaie spesso liquidate come
retaggi del ‘900 dalla classe padronale e dai suoi sodali. Da un lato,
infatti, il lavoratore formalmente non verrebbe abbandonato nel mare
della disoccupazione ma resterebbe titolare, assieme ai suoi colleghi,
del suo posto di lavoro: ciò rappresenta un ostacolo alla rottura
dell’unità dei lavoratori e alla disintegrazione degli interessi di
classe. Dall’altro lato, proprio la costanza del rapporto di lavoro,
rende difficile alle imprese, soprattutto dopo la diffusione dei
contratti di lavoro precari, attuare una ristrutturazione industriale al
solo scopo di sostituire i vecchi lavoratori con nuovi lavoratori
pagati meno. Pur quindi non gravando sulle spalle dei padroni, la CIG
impediva loro di disporre liberamente della forza lavoro occupata e il
suo ridimensionamento entrava a pieno titolo nel progetto di
deregolamentazione del mercato del lavoro. Ora tuttavia, con
l’epidemia che dilaga e i suoi effetti si estendono dal piano sanitario a
quello economico, minacciando i profitti anche delle imprese che non avrebbero avuto necessità di accedere a questo strumento, ecco che l’intervento dello Stato viene invocato dai padroni,
senza pudore e senza alcuna vergogna di mostrare la propria ipocrisia.
Il “Cura Italia”, dunque, ha disposto circa 1,35 miliardi per la Cassa
Integrazione ordinaria; 0,34 miliardi per rimpinguare i soldi già
stanziati per la Cassa Integrazione straordinaria; e circa 3,3 miliardi
per estendere la platea e la durata della Cassa Integrazione in deroga a
cui possono accedere anche le imprese fino a un dipendente.
Dei restanti 5 miliardi per i lavoratori, circa 2,86 miliardi sono destinati all’indennità una tantum
di 600 euro per il mese di marzo destinata ai professionisti e ai
lavoratori autonomi, ai co-co-co, ai lavoratori stagionali e quelli del
turismo. Un mondo variegato di lavoratori in cui si mischiano situazioni
di precarietà e sfruttamento, contratti in scadenza non rinnovati,
professionisti con partita IVA da decine di migliaia di euro e
lavoratori dipendenti camuffati da partita IVA senza alcuna garanzia. Un
mondo così variegato da far sì che con questo contributo una tantum (c’è
ancora da vedere se e in che modalità verrà confermato nell’annunciata
manovra di aprile) il governo abbia fatto “parti uguali tra disuguali”.
Inoltre, anche in questo caso il confronto internazionale ci sembra
utile per valutare l’entità della misura: in Francia, ad esempio, sono
stati previsti trasferimenti pari a 1.500 euro per lavoratori autonomi
che abbiano visto cadere fino al 70% del proprio fatturato, cifra che
può aumentare nel caso in cui le perdite siano ancora maggiori. Non
solo, questo provvedimento lascia fuori gran parte dei lavoratori agricoli, i lavoratori domestici e tutto il mondo del sommerso il che, specialmente al sud, rischia di lasciare milioni di persone senza alcuna entrata.
Una situazione che ha fatto emergere le preoccupazioni del Ministro per
il sud circa la tenuta istituzionale del Paese il che fa cadere il velo,
se mai ce ne fosse stato bisogno, sulla drammatica situazione di povertà
che affligge milioni di lavoratori e di famiglie in Italia. Nei limiti
stringenti imposti dall’austerità europea, il governo non ha saputo
prendere delle misure chiaramente a tutela delle fasce più deboli della
popolazione e sta intervenendo con misure tampone e confuse come i 400
milioni per i bonus spesa, la cui gestione è s lasciata ai servizi
sociali e che ha fatto insorgere i Comuni per la pochezza della somma
stanziata.
Ma, oltre al danno, ci sono molti
lavoratori che stanno anche sperimentando la beffa: è il caso del
“premio” riconosciuto a chi, nonostante la piena emergenza pandemica, è costretto a recarsi nel luogo di lavoro.
Il “Cura Italia” ha infatti previsto per i lavoratori dipendenti con un
reddito da lavoro inferiore ai 40.000 euro (si fa riferimento all’anno
precedente), un “premio” di 100 euro “da rapportare al numero di giorni
di lavoro svolti nella propria sede di lavoro nel predetto mese”, ossia
marzo. Dunque, considerando che le giornate lavorative sono 22, stiamo
parlando di meno di 5 euro al giorno per uscire di casa e recarsi a lavoro, mettendo a repentaglio la propria salute e quella della famiglia.
In conclusione, sebbene sia già stata anticipata una nuova manovra nel mese di aprile, il decreto Cura Italia si dimostra insufficiente nell’entità, iniquo e confuso nella composizione.
Mentre da diverse parti si levano voci per una nuova stagione di
protagonismo pubblico nell’economia, necessità resa evidente dai
drammatici fatti di queste settimane, il Governo italiano, stretto nella
morsa dell’austerità e delle contorte regole europee, arranca. Come al
solito, chi più pagherà lo scotto di queste difficoltà, è la classe
lavoratrice.
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