Alla fine credo che la chiave di volta sia il salario sociale globale di classe, non solo reflazione (aumento) salariale, ma redditi indiretti, sanità, istruzione, trasporti, edilizia pubblica, welfare.
La svolta mondiale su questo si ebbe dopo la crisi dei subprime americani (2007), in Cina. La dirigenza cinese diminuì fortemente l’apporto delle esportazioni sul pil nazionale, per basarsi sul mercato interno.
Fecero un piano quinquennale di 700 miliardi di dollari basato su reti ferroviarie, stradali e metropolitane; costruirono 40 milioni di alloggi popolari per i contadini che migravano nelle metropoli, inaugurarono la politica fiscale proattiva basata sull’aumento dei salari.
In Occidente invece fu un diluvio di denaro delle banche centrali a favore del sistema finanziario, mentre continuava la deflazione salariale e il taglio del salario sociale globale per favorire il modello mercantilista incentrato sulla prevalenza delle esportazioni.
Con Trump gli Stati Uniti hanno provato a cambiare qualcosa, molto superficialmente. Negli ultimi tre anni si era assistito ad un boom di occupati, molto parziale e soprattutto nei comparti a basso valore aggiunto (ristorazione, grande distribuzione, servizi alla persona, ecc.), ma ne beneficiarono anche le minoranze etniche.
I due errori di Trump sono figli di un’impostazione “di sistema”, non modificabile con interventi legislativi di breve respiro, ossia senza “programmare” lo sviluppo economico complessivo.
Non ha messo mano a sanità, istruzione e trasporti, e non ha creduto al dialogo con Russia e Cina, nonostante l’avesse lui stesso promesso e promosso.
Eppure la Russia, sul petrolio, quest’anno ha fatto un bel regalo agli statunitensi; e i cinesi, nonostante l’escalation della guerra dei dazi (avviata stolidamente dallo stesso Trump), mantengono l’apertura del loro mercato agli Usa, onorando gli impegni.
La classe dirigente americana è divisa, Pompeo straparla e guida una ultradestra aggressiva, ci sono le elezioni, bisogna creare un nemico... ma i cinesi aspettano.
Chi fa la vera guerra a Trump è l’Unione Europea, appoggiata dai democratici Usa. Se venisse rieletto il tycoon l’assetto europeo mercantilista riceverebbe un altro colpo sul piano economico, già stressato duramente dalla pandemia.
L’Ue dovrebbe infatti cercarsi altri mercati in cui esportare. Con Trump, paradossalmente, si stava avendo una parziale ripresa della reflazione salariale, a differenza dell’Ue. Dopo 40 anni, e fino a febbraio di quest’anno, i redditi stavano aumentando; si era aperto un dibattito sulla necessità degli aumenti salariali, le istanze sociali stavano venendo fuori.
Durante la pandemia il governo federale ha garantito un consistente sussidio di base, almeno rispetto a quanto (non molto) guadagnava la maggior parte dei salariati. Curiosamente, è proprio quello che chiede alla Banca Centrale Europea uno come Varoufakis, politicamente su tutt’altra sponda. Ma su questo tipo di proposte, specie dopo l’ultimo, disastroso, Consiglio Europeo, è però calato un silenzio tombale.
Persino economisti come Giuseppe Berta ieri ponevano la necessità europea di aumentare i consumi interni, e lo si può fare unicamente con il salario sociale globale di classe, aumentando i salari e rafforzando perciò il mercato interno rispetto alle esportazioni (tutte le economie sono in recessione, nessuno può importare come prima).
Ma la classe dominante europea, stretta intorno ad un pugno di multinazionali continentali dalla vista cortissima, non ne vuole proprio sapere.
C’è il fascismo in Usa, ma quanto a fascismo economico l’Ue non scherza affatto.
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