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02/08/2020

Stazione di Bologna: dai depistaggi all’invenzione della Storia


Dopo 40 anni, è necessario provare a dire perché sulla strage della stazione di Bologna, come su tutte le altre stragi “fascio-statuali”, è pressoché impossibile arrivare a una conclusione condivisa e si è tuttora obbligati a fare “controinformazione”, smentendo la pioggia di “ricostruzioni ufficiali”.

I “misteri”, in queste stragi (1), non esistono. Ci sono buchi nelle indagini, palesi e spesso scoperti tentativi di depistaggio, interferenze continue praticamente “firmate” da servizi segreti – italiani, americani, israeliani, persino francesi – testimoni che scompaiono o muoiono in circostanze più che dubbie. Ma nulla che sia davvero “inconoscibile”.

Da Piazza Fontana in poi (in realtà si potrebbe risalire a Portella della Ginestra e ai vari accenni di golpe messi in programma più volte), ci sono state più chiavi di lettura, tutte riconducibili a due campi politici molto chiari. Sul fronte opposto ad entrambi sta la ricerca della verità, storica e politica, tentata quasi in solitaria dal “movimento antagonista” – finché ha avuto forza e capacità di discernimento, sia individuale sia collettivo – e da alcuni (pochi) storici o giornalisti.

I due campi principali sono facilmente distinguibili. Quello sedicente “progressista” – capeggiato un tempo dal Pci, poi dalle sue innumerevoli conversioni – ha spesso condotto le indagini attraverso magistrati “di area”, trovando sulla sua strada resistenze e depistaggi messi in atto, oggi diremmo, dal deep state. Ovvero dagli apparati, spionistici e mediatici, che quelle stragi avevano organizzato e poi coperto.

In teoria, la “guerra” tra questi due campi avrebbe dovuto essere assoluta e senza possibili compromessi. Nella realtà, com’è avvenuto nella sfera propriamente politica, questo conflitto è andato lentamente spegnendosi nell’accomodamento compromissorio, tanto nelle sentenze di tribunale quanto nelle “ricostruzioni storiche”, infarcite di “dietrologia” rumorosa, ma senza conseguenze politiche minimamente apprezzabili.

Il fronte sedicente “progressista” muoveva infatti da un’esigenza politica che lo inchiodava fin dall’inizio a cercare un compromesso impotente: non poteva parlare di stragi di Stato, ma solo di stragi fasciste. Il linguaggio tradisce sempre una visione d’insieme, una “concezione del mondo”. E l’ipotesi strategica su cui muoveva il Pci fin dal dopoguerra era quella della democrazia progressiva, per cui il problema era semmai “liberare” parti dello Stato dalle fedeltà indicibili a poteri innominabili.

Insomma: se il “progetto” era quello di governare lo Stato che c’è, rispettando di conseguenza le obbedienze o “alleanze” sovranazionali, la critica poteva essere diretta solo contro singole “mele marce” (magari molto “ramificate”), non certo contro l’apparato statuale dei servizi in quanto tale o l’antagonista politico ufficiale (la Democrazia Cristiana).

Quell’esigenza politica partorì pertanto la barzelletta tragica dei “servizi deviati”, sorta di narrazione a doppio livello tra un servizio segreto “democratico e fedele alla Costituzione”, che veniva omaggiato ufficialmente, e una “struttura deviata” fatta in genere risalire al passato fascista di molti funzionari dei “servizi”, con qualche aggancio a strutture Cia, anche loro in qualche misura “deviate” rispetto alle istituzioni statunitensi.

Una barzelletta, dicevamo, riassumibile con la battuta che il pur ottimo Robert Redford era obbligato a dire nel film I tre giorni del condor, come fosse una rivelazione: “C’è del marcio nella Cia” (notoriamente un collegio per educande, no?).

Si sorvolava insomma tranquillamente sul fatto storico incontrovertibile della subordinazione della sovranità nazionale (2) agli Stati Uniti, che aveva determinato la stessa ricostruzione dei servizi segreti italiani (non fu per caso che l’ex fondatore e capo dell’Ovra fascista, Guido Leto, invece di venire arrestato o fucilato, fu nominato capo delle scuole di polizia della “Repubblica nata dalla Resistenza”...), oltre che ovviamente dalla posizione gerarchica nella Nato.

Sul fronte opposto, dopo la caduta del Muro (1989), il normale potere dominante ha pensato di poter rovesciare velocemente 30 anni di storiografia antifascista e antimperialista, tirando fuori persino dei “dietrologi di destra” (come l’ex missino Fragalà, che metteva il Kgb al posto della Cia nelle ricostruzioni dietrologiche “progressiste”) oppure inventando “piste di sinistra” o “internazionali” per allontanare al massimo la ricerca della verità, dei colpevoli e delle responsabilità politiche per le stragi.

Un “rovesciamento della Storia” che ha padrini e mandanti potenti. Gli stessi, di fatto, che avevano preparato la strage di Piazza Fontana per attribuirla ad un gruppo di anarchici totalmente innocenti ma comunque preventivamente infiltrati.

Proprio la più grave e recente delle stragi, quella di Bologna, fatta in apertura della stagione di “Restaurazione” del potere capitalistico sulla forza lavoro italiana, dopo oltre un “decennio rosso” (dal 1968 all’occupazione della Fiat, che proprio in quei giorni cominciava ad essere preparata per la ripresa autunnale), è stata l’occasione per provare a girare la frittata, ossia la “narrazione”.

Da allora in poi – a Muro caduto... – sono state proposte “piste palestinesi” (addirittura mobilitando, tra i primi, una “firma” de il manifesto), “tedesche” e via fantasticando. Roba che non ha mai retto neanche alla prima indagine esplorativa, ma che viene riproposta ad intervalli regolari come un mantra che prima o poi entrerà nella testa collettiva (scuola Goebbels, un classico!).

Tutta roba “cucinata” con il supporto del Mossad, oltre che della Cia e dei servizi italiani. E a proposito vale la pena di leggere gli altri contributi che oggi pubblichiamo (sugli esplosivi usati per la strage e sullo stretto legame tra i terroristi fascisti con i cristiano-maroniti libanesi, fino alle cure prestate al neonazista Alessandro Alibrandi, teoricamente antisemita... negli ospedali di Israele!).

Qui si crea, a nostro avviso, quel “circuito infernale” tra fallacie di una magistratura “progressista” che “deve” circoscrivere la ricerca dei colpevoli a dei fascisti “ordinari” – lasciando fuori, come sempre, quelli “atlantizzati”, ossia arruolati nei servizi o comunque da questi attivabili – e controffensiva del fronte reazionario “vincente” dopo il 1989.

Alcune prime conclusioni processuali non sono risultate completamente convincenti, e questo ha lasciato praterie aperte ad ogni obiezione di “opposta dietrologia”. I “colpevoli giudiziari” (Mambro, Fioravanti, Ciavardini, Cavallini) hanno trovato facilmente chi ha abbastanza esperienza da vedere i buchi probatori nella storia processuale; e su questo varco si infilano da anni le carogne dei vari servizi (o al servizio dei vari “servizi”) incaricati di costruire una “narrazione alternativa”. Anche senza prove.

La “pista internazionale”, quella che dovrebbe fare di Bologna “un altro libro” e non l’ennesimo capitolo delle stragi di Stato, si radica in questo vuoto di riscontri sufficientemente solidi. La coglionaggine dei “progressisti liberali”, come sempre, apre la strada alla reazione più infame.

Ne viene fuori, in controluce e per elementi inevitabilmente indiziari, una liason davvero interessante, che porta interessi abbastanza (ma non troppo) diversi a convergere in una “ricostruzione-depistaggio” continuativa e arrogante. Perché difendere i fascisti accusando qualcun altro equivale ormai chiaramente a difendere i servizi segreti italiani ed atlantici.

Le stragi avvenute in Italia – tutte – sono di Stato e fasciste. Volute e protette dallo Stato, realizzate sempre dai secondi. Che però, anche loro, si sono storicamente divisi tra diverse obbedienze.

La narrazione progressista, di fronte a questa controffensiva reazionaria, ha smobilitato con lentezza, ma “progressivamente”. È ormai diventata poco più che un vezzo retorico, buono per i discorsi dal palco degli anniversari, ma subito dimenticato quando si scende dai gradini.

Del resto, lo si era capito da quando un “comunista” era diventato ministro dell’interno. Con Giorgio Napolitano al Viminale, e poi per nove anni al Quirinale, non un documento è stato fatto uscire dagli archivi più nascosti. Si vede che non c’era nulla “da pulire”, ma tutto da accettare.

A riprova che il “doppio stato” non è mai esistito e che i “servizi” sono perfettamente rettilinei, senza alcuna “deviazione”.

Note:

1) Usiamo il termine strage nello stesso senso del codice penale vigente, secondo cui si dà reato di strage quando vengono “posti in essere atti idonei a porre in pericolo la pubblica incolumità”. In termini concreti, quando vengono fatte esplodere bombe in luoghi pubblici o privati, esponendo dunque al rischio di morte chiunque si trovi casualmente in quel posto.
L’imputazione di strage, dunque, scatta in seguito all’uso di esplosivo e di circostanze di luogo. Se ne deriva la morte anche di una sola persona la pena prevista è quella dell’ergastolo; se non ci sono vittime la pena è invece di 15 anni.
La sciatteria giornalistica, nel corso del tempo, ha esteso il termine a tutti i casi in cui si è verificata la morte di più persone con uso di armi da fuoco. Per questi casi, invece, il codice penale parla di omicidio plurimo, e la pena prevista è l’ergastolo anche in questo caso.
In pratica, la differenza tra strage e omicidio plurimo è determinata dai mezzi usati (esplosivo o armi individuali) e dall’intenzionalità di chi agisce. Se l’obbiettivo sono persone precisamente individuate (per nome o funzione) e si usano armi, si parla di omicidio plurimo; se invece la vittima può essere chiunque e vengono usati esplosivi, allora viene definita strage.
Per fare degli esempi storici concreti: gli attentati a Falcone e Borsellino, così come la stazione di Bologna o Piazza Fontana, sono delle stragi, il sequestro di Aldo Moro rientra invece nel caso di omicidio plurimo e come tale è stato trattato nei processi.

2) Il concetto di “sovranità nazionale”, prima di essere messo all’indice dal pensiero “europeista”, era pane quotidiano della sinistra comunista internazionale. Era infatti il fondamento di ogni movimento di liberazione del Secondo Dopoguerra (dal Vietnam all’Angola, da Cuba alla Bolivia, al Mozambico, ecc.) e perfettamente compatibile con la prospettiva internazionalista (solo chi si è liberato dal guinzaglio imperialista può relazionarsi alla pari con chiunque, Cuba e Vietnam docet).
La bibliografia in materia è praticamente sterminata, ma ci piace qui riprendere – con chiaro intento sfottente – un titolo di una coppia di “dietrologi” del Pci, per decenni giornalisti de l’Unità: Sovranità limitata. Storia dell’eversione atlantica in Italia.
Per una documentazione più seria si può ricorrere a questo, oppure al più “istituzionale” Galeazzi A., Il PCI e il movimento dei paesi non allineati 1955-1975, Milano, F. Angeli, 2011. Ma soprattutto Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo; e naturalmente ogni riga scritta da Che Guevara, Fidel Castro, Frantz Fanon, ecc.

Fonte

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