Da mesi ormai le sirene dei difensori più strenui del libero mercato
suonano, scandalizzate, ogni qual volta si parla della norma sul blocco dei licenziamenti,
introdotta dal Governo per i mesi della quarantena forzata, prorogata
poi per tutto il 2020 a seguito della gravissima crisi economica
innescata dalla pandemia e dalle relative misure di contenimento dei
contagi. Su quella norma si è detto un po’ di tutto: che alla lunga non
potrebbe che favorire la disoccupazione, che non sarebbe sostenibile per
le imprese, che violerebbe i cardini dell’economia di mercato, e così
via.
Il tema stavolta viene ripreso da Federico Fubini sul Corriere della Sera di pochi giorni fa e poi rilanciato con enfasi dal giornale online Open fondato da Enrico Mentana con
i seguenti titoli evocativi: “Lavoro e lockdown: Il blocco dei
licenziamenti? Pagano le donne e i giovani” e “Il blocco dei
licenziamenti salva gli over 50: a pagarne le conseguenze sono donne e
giovani”.
La tesi, stando ai critici del blocco dei licenziamenti, è che l’impossibilità
di licenziare avrebbe scaricato i costi del crollo della produzione
sugli unici soggetti sostanzialmente licenziabili, ovvero i
lavoratori precari privi di tutele e di ammortizzatori sociali: i
lavoratori a tempo determinato, quelli a progetto o le partite IVA che,
scaduto il contratto di collaborazione, non sono stati più richiamati
(senza contare tutti quei lavoratori del tutto privi di contratto).
Lavoratori, questi ultimi, privi di ogni ammortizzatore sociale e di
quella cassa integrazione usata in questi mesi per coprire il vuoto
lavorativo e di stipendio determinato dal blocco coatto della produzione
prima e dalla successiva crisi poi.
Fubini ci ricorda che da febbraio a luglio sono stati persi 598.000 posti di lavoro come conseguenza della crisi, alla faccia di chi ci parla di ripresa e di chi vergognosamente commenta il modestissimo
rimbalzo occupazionale degli ultimissimi mesi. Dato il blocco dei
licenziamenti dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato, si è
evidentemente trattato di lavoratori precari. Ne segue questo
ragionamento: siccome i precari sono per lo più giovani, la crisi si è
scaricata sui giovani per colpa di un provvedimento insostenibile dal
punto di vista economico, il blocco dei licenziamenti dei lavoratori non
precari. A latere, si aggiunge una sciatta analisi di genere per cui,
siccome i settori più colpiti dalla chiusura forzata delle attività
economiche sono stati commercio al dettaglio, ristorazione, turismo,
moda e spettacolo – settori in cui l’occupazione precaria e femminile è
percentualmente molto rilevante, ragion per cui si può affermare che i
costi della crisi si sono scaricati, di fatto, oltre che sui giovani,
sulle donne. Rincara la dose la redazione di Open: “c’è un’Italia che a
livello lavorativo non è stata toccata – o quasi – dagli effetti della
pandemia, e un’altra che si è fatta carico degli oneri e dell’impatto
della crisi sanitaria, quella dei giovani e delle donne”. E ancora in
chiusura: “Ancora una volta dunque una crisi divide un’Italia a doppia
velocità: a farne le spese sono sempre donne e giovani”.
Che approccio c’è dietro a questa mera citazione di dati statistici
di genere e di età? E perché questo approccio è molto pericoloso ed è il
più classico dei cavalli di Troia di una cultura che vorrebbe
destrutturare definitivamente l’unità della classe lavoratrice?
Ben tre sono i luoghi comuni del pensiero economico dominante che si
celano tra quelle righe, espressi da altrettante dicotomie deboli,
erette a chiave di lettura dei rapporti economici al fine di nascondere
la dicotomia essenziale: quella tra capitale e lavoro.
La dicotomia lavoratori protetti contro lavoratori non protetti.
Nella vulgata liberista i primi sarebbero i responsabili oggettivi
della condizione dei secondi: in un mondo di risorse scarse con poche
opportunità di lavoro, se concedo troppo a qualcuno dovrò concedere
troppo poco a qualcun altro. Salari troppo elevati contrattati da
sindacati intrusivi, eccesso di rigidità in entrata e in uscita sul
mercato del lavoro e limitata libertà di licenziamento per i lavoratori
cosiddetti garantiti sarebbero dunque le cause profonde che giustificano
l’esistenza di una massa di lavoratori non garantiti a salari bassi.
Nello specifico della crisi da Covid-19: se le imprese sono in crisi e
devono liberarsi di manodopera e lo Stato non consente loro di farlo,
l’unico modo per tamponare le perdite è scaricare tutti i lavoratori non
garantiti al loro destino. Sarebbe allora l’eccesso di garanzie di
alcuni a determinare la triste sorte degli altri. La proverbiale guerra tra poveri e poverissimi insomma.
Ma chi scompare in questa lettura dei rapporti economici? Da un lato,
la crisi stessa e le sue cause profonde, assieme all’unico soggetto che
potrebbe davvero arginarla (lo Stato); dall’altro, la controparte
sociale dei lavoratori, ovvero i capitalisti. La perdita di posti di
lavoro provocata dalla crisi può essere arginata e superata solo ricreando quei posti di lavoro che i soggetti privati in condizioni di carenza di domanda di beni e servizi non sono in grado di garantire. Lo
può fare soltanto lo Stato attraverso investimenti pubblici che
riattivino il meccanismo di produzione-occupazione-consumo-produzione, magari fino al raggiungimento del pieno impiego.
Allo stesso modo nella narrazione dominante scompare il capitale e il rapporto di produzione capitalistico.
Si dà per assunto che la distribuzione del reddito tra salari e
profitti sia un dato immodificabile e dipendente dai meccanismi di
mercato. A profitto invariabile e a livello di produzione dato, la torta
che resta per i lavoratori andrebbe spartita più equamente tra i
lavoratori stessi, tra i precari e i garantiti, tra i più abbienti e i
meno abbienti.
L’aspetto paradossale dell’analisi peraltro è che l’articolista
ammette che il Governo, con lo sforzo della cassa integrazione, è
riuscito a salvare posti di lavoro paragonando il caso dell’Italia con
quello degli Stati Uniti: “Se l’obiettivo era preservare i rapporti di
lavoro, in parte ha funzionato; lo ha fatto, almeno, in confronto a un
paese dove non è stato fatto niente di simile come gli Stati Uniti. Lo U.S. Bureau of Labour Statistics mostra
che il numero degli occupati in America è crollato dell’8,7% fra marzo e
giugno, mentre l’Istat fa vedere che in Italia il calo fra febbraio e
giugno è stato del 2,57%. Il nostro Paese ha preservato una proporzione
maggiore di posti, pur subendo una recessione più violenta. La cassa
integrazione e il blocco dei licenziamenti in questo hanno avuto
l’effetto desiderato dal governo”.
Tuttavia a questo primo passaggio si aggiunge che questo salvataggio,
riuscito, ha però come rovescio della medaglia una distribuzione dei
suoi costi a sfavore delle categorie più svantaggiate identificate come
detto nei precari, nei giovani e nelle donne. L’aspetto curioso della
questione è che se si ammette che lo Stato, spendendo, è in
grado di salvare posti di lavoro, non si capisce perché non dovrebbe
essere in grado, sempre spendendo, di salvarne altri (per i
precari lasciati ai margini) o crearne di nuovi attraverso investimenti
pubblici. Se il meccanismo funziona perché non applicarlo fino in fondo?
Sulla stessa falsariga si inserisce la retorica dello scontro tra vecchi e giovani. Non è certo nuova l’operazione ideologica che
vorrebbe disegnare uno scontro generazionale epocale tale per cui le
pessime condizioni di vita e lavoro delle nuove generazioni
dipenderebbero dal tenore di vita insostenibile delle vecchie
generazioni, ritenute iper-garantite avendo vissuto negli anni delle
vacche grasse – che però esistono solo nei sogni dei portaborse dei
padroni. L’identificazione tra giovane e precario sarebbe la prova di
questo insanabile conflitto da cui è possibile uscire, ancora una volta,
soltanto togliendo qualcosa a chi ha un po’ di più, i vecchi, per darla
a chi ha un po’ meno, i giovani. Che non salti in mente a nessuno che
il problema non sono né le pensioni degli anziani né i salari decorosi
della generazione più matura, ma proprio il precariato e lo
smantellamento del diritto del lavoro avvenuto dagli anni ’90 in poi.
Infine, il conflitto tra uomini e donne. Qui scadiamo semplicemente nel ridicolo, o meglio nell’irresponsabile svilimento di una questione importantissima come quella di genere,
nei suoi nessi cruciali con il mercato del lavoro. Senza alcuna analisi
dei motivi strutturali del maggior tasso di precariato delle donne
rispetto agli uomini e menzionando solo la maggior presenza delle donne
nei settori più esposti al calo della produzione di questi mesi, si
dipinge sic et simpliciter una crisi che andrebbe a colpire le
donne più degli uomini, simulando così un altro scontro fittizio che va a
comporre il puzzle delle dicotomie fuorvianti.
Tutto per rinfocolare quella cultura che ad ogni costo vorrebbe nascondere, tramite finte dicotomie e vacui capri espiatori, l’unico vero scontro esistente, quello tra sfruttati e sfruttatori.
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