Come succede ogni anno, l’estate
arriva e sopisce, rasserena e sparge oblio. Poco più di un mese fa, a
seguito dell’accordo raggiunto nell’ambito del Consiglio Europeo del 21
luglio, i principali mezzi d’informazione e la propaganda governativa ci
raccontavano che la lunga attesa era finita e che era giunto il momento
della riscossa: l’Europa si era rimboccata le maniche e metteva in
campo, attraverso l’istituzione del fondo Next Generation EU, meglio noto come Recovery Fund, un ammontare di risorse mai visto prima, per dare sollievo alle economie più colpite dalla pandemia da Covid-19. L’euforia con cui la notizia era stata accolta e presentata era ed è del tutto ingiustificata: il piano di intervento europeo è disegnato in maniera tale da offrire (poco) ossigeno nel breve periodo in cambio di dosi massicce di austerità e riforme lacrime e sangue per gli anni a venire.
Ma, come siamo abituati a vedere, mentre le notizie sul reale
impianto della misura iniziavano a languire, accadeva che – uno alla
volta – i più solerti difensori del rigorismo di matrice europea
provavano a riaccendere l’attenzione sul tema, presentando il pacchetto
formato da MES e Next Generation EU come l’unico strumento capace di permettere l’emancipazione femminile o di risolvere una volta per tutte la questione meridionale. Un’altra, ennesima pagina del tentativo di dare una verniciata di
rispettabilità a un progetto politico che ha come scopo principale e
forse unico quello di estendere e rendere ancora più pervasivo il
controllo e il dominio sulle classi lavoratrici dei Paesi membri. Per il
resto, poco o nulla. Cosa d’altronde non sorprendente, poiché alla
prova dei fatti il Next Generation EU ancora non esiste affatto, in
attesa dell’approvazione prima del Parlamento Europeo e poi dei
Parlamenti di tutti i Paesi membri.
Mentre la coltre di silenzio e vaghezza si abbassava sulle sorti
delle politiche macroeconomiche dei Paesi europei, veniva sottaciuto
anche un evento che a prima vista potrebbe essere derubricato a episodio
insignificante e uguale a mille altri della vita della burocrazia
europea, ma che ci è utile a fare chiarezza circa il contesto nel quale
ci muoviamo e ci muoveremo. La Corte dei Conti europea, l’organo
deputato a “controllare
che i fondi dell’UE siano raccolti e utilizzati correttamente, e
contribuire a migliorare la gestione finanziaria dell’UE”, ha pubblicato pochi giorni fa una relazione speciale, sul grado di applicazione nei singoli Paesi membri delle cosiddette ‘Raccomandazioni Specifiche per Paese’,
formulate dalla Commissione Europea nell’ambito del Semestre Europeo.
Con quest’ultimo termine si indica il “ciclo annuale di coordinamento,
da parte della Commissione e del Consiglio, delle politiche economiche e
di bilancio nell’ambito dell’UE volto a migliorare la sostenibilità
economica e sociale dell’Unione”, e d’altronde avevamo incontrato la sua presenza inquietante nei
giorni in cui ferveva il dibattito sul già Recovery Fund. Il titolo
della relazione della Corte dei Conti è già eloquente: “Il semestre
europeo – Le raccomandazioni specifiche per Paese affrontano questioni
importanti, ma devono essere attuate meglio”. Le quasi 80 pagine del
testo non aggiungono molto, notando ripetutamente come i Paesi
destinatari delle ‘raccomandazioni’ della Commissione abbiano applicato
in maniera insufficiente e inadeguata le ‘riforme strutturali’ che
vengono loro ‘suggerite’.
La parte più interessante, o
preoccupante a seconda dei punti di vista, viene però a pagina 42, ed è
oggetto della Raccomandazione numero 3: “Rafforzare il collegamento tra
fondi UE e Raccomandazioni Specifiche per Paese”, in cui la Corte dei
Conti invita la Commissione Europea a subordinare l’erogazione
dei fondi europei all’effettiva e pedissequa attuazione da parte dei
Paesi interessati di tutte le ‘riforme’ che il Semestre Europeo
specifica ogni anno. In sostanza, la Corte suggerisce
l’istituzionalizzazione di un ricatto, per dotare le raccomandazioni
europee di maggiore appeal e potere persuasivo.
C’è un dettaglio ulteriore da
considerare. La relazione è stata pubblicata all’inizio di settembre, ma
è il frutto di un’investigazione condotta dalla Corte dei Conti
europea prima che esplodesse la pandemia e la
conseguente emergenza sanitaria ed economica, prima quindi che
espressioni come Recovery Fund o Next Generation EU fossero anche solo
lontanamente immaginabili. Ecco quindi che le parole della Corte, lette
oggi, assumono una luce ancora più sinistra, e confermano quanto scrivevamo pochi mesi orsono. L’apparentemente enorme mole di risorse finanziarie mobilitate dalle istituzioni europee (che, tra le altre cose, non è affatto enorme)
ha come corollario necessario e come funzione il rendere più cogente,
più stringente e più pervasiva la stretta del dispositivo di austerità
che soffoca i Paesi europei, e in particolare i Paesi della periferia
del sud Europa, da decenni. D’altronde, la stessa presidentessa della
Commissione Ursula von der Leyen era stata chiarissima al riguardo: l’intervento europeo “è volontario, ma chi vi accede deve allinearsi con il Semestre europeo e le raccomandazioni ai Paesi... Finora dipendeva solo dai Paesi rispettarle o meno ma ora le raccomandazioni sono legate a sussidi e potenziali prestiti”.
E quali sarebbero le raccomandazioni
specifiche per l’Italia? Cosa dovrà fare il nostro Paese per poter
accedere ai fondi del Next Generation UE e per rimanere nelle grazie del
MES? Non c’è neanche bisogno di addentrarsi in complicati documenti in
inglese, per trovare la risposta. Il Programma Nazionale di Riforma 2020,
presentato dal Governo italiano a luglio, è chiarissimo al riguardo,
raccontandoci sia cosa la Commissione richiede: “RACCOMANDAZIONE 1 ... Per
quanto riguarda la politica di bilancio, si raccomanda di perseguire la riduzione del rapporto debito/PIL,
la revisione della spesa pubblica e la riforma della tassazione, nonché
di non invertire precedenti riforme in materia pensionistica e di ridurre la spesa pensionistica”,
sia cosa il Governo si impegna a fare: “Il saldo primario di bilancio
(ovvero escludendo la spesa per interessi) dovrà migliorare in modo
strutturale”.
Detto in parole semplici: ciò che le istituzioni europee
chiedono, e hanno sempre chiesto, è tagliare le pensioni e praticare in
maniera spietata l’austerità. Al di là del gergo tecnico, il saldo primario di bilancio è,
infatti, la differenza tra quanto lo Stato incassa e quanto lo Stato
spende, al netto della spesa per interessi sul debito pubblico.
Migliorare il saldo significa aumentare le risorse che lo Stato sottrae
all’economia, vuol dire proprio tagliare servizi pubblici, l’istruzione,
la sanità, i trasporti e via dicendo.
Nulla di nuovo sotto il sole, nulla è
cambiato. Non è bastata una pandemia globale e l’enorme prezzo pagato in
termini di vite umane, anche a causa di decenni di tagli alla sanità.
Non sono state sufficienti avvisaglie di una recessione che si annuncia
duratura e dalla severità mai sperimentata in tempi di pace. Questo è
il volto dell’Europa, questo è il progetto politico e il ruolo che il capitale internazionale ha demandato alle istituzioni europee.
A chi è interessato a migliorare le condizioni dei lavoratori e delle
lavoratrici, dei subalterni e degli emarginati, non resta, per
l’ennesima volta, prendere atto dell’ostilità strutturale del progetto
europeo e iniziare ad impegnarsi per un’alternativa reale di sistema.
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