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11/10/2020

Capitalismo, guerre ed epidemie

di Sandro Moiso

Calusca City Lights (a cura di), Lo spillover del profitto. Capitalismo, guerre ed epidemie, Edizioni Colibrì, Milano 2020, pp. 142, 14,00 euro

Fortunatamente, nel corso di una “strana“ estate sospesa in attesa di un autunno che già si annunciava gravido di conseguenze socio-sanitarie ed economico-politiche oltre che giudiziarie e repressive, mentre una parte della Sinistra ex-antagonista si arrovellava sulla valenza ‘democratica’ del votar No al referendum, altri compagni si ponevano problemi ben più importanti per lo sviluppo delle lotte a venire e il conseguente smantellamento dell’immaginario capitalista che ancora regge buona parte della narrazione della pandemia e dell’interclassismo collaborativo.

Tra coloro che non si sono fatti abbindolare dalle fanfaluche democratiche vanno annoverati i curatori della raccolta di saggi edita da Colibrì, che si sono posti seriamente il problema, nella scelta degli autori e dei testi, dello stretto rapporto che intercorre tra il modo di produzione attuale, le guerre e le epidemie di cui lo stesso sistema è portatore. Cinque saggi, ed una scheda su Hart Island (quella in prossimità di New York City dove sono state seppellite in grandi fosse comuni numerose vittime del Coronavirus), che riportano al centro il dibattito sul capitalismo produttore di guerre, disuguaglianze economiche e sociali (che delle prime sono una componente tutt’altro che secondaria) e sulle epidemie che delle seconde costituiscono allo stesso tempo un’aggravante e una conseguenze.

Come affermano gli stessi curatori nella sintetica premessa:
Con questo libro, al quale ne seguirà presto un altro curato dal gruppo di lavoro di LOST (Lunghe Ombre della Scienza e della Tecnica), vogliamo incominciare a tenere fede all’impegno preso: essere all’altezza dei tempi.

Il volume che avete in mano raccoglie i più significativi contributi espressi nelle settimane scorse da alcuni individui e collettivi che da diversi anni stanno con la Calusca in un rapporto di prossimità nel pensiero e nella lotta. Li mettiamo in circolo, senza por altro tempo in mezzo. Per la Critica [1].
Un compito che i redattori si sono imposti anche in omaggio a Primo Moroni e alla sua intelligenza, a ventidue anni dalla sua morte. Un’intelligenza politica contraddistinta da una Critica radicale del modo di produzione vigente, che si rende particolarmente necessaria non soltanto per il prevedibile sviluppo della crisi economica e pandemica destinata a precipitare in guerre sempre più ravvicinate e diffuse, ma anche per contrastare la voce di chi, essendone privo, da buon pompiere travestito da attivista, continua a rincorrere le emergenze prodotte ormai a iosa dal capitalismo, senza mostrare alcuna capacità di anticiparne le svolte future e le susseguenti prospettive politiche. Finendo così col rinviare ad un futuro sempre più lontano e destinato a sfumare nel mai qualsiasi urgenza di salto di paradigma e di superamento dell’ordine politico-economico ed immaginifico attualmente vigente.

Ciò non capita certo tra le pagine del bel testo curato da Calusca City Lights, fin dal saggio più lungo, che occupa le prime ottantatré pagine del libro, redatto da Philippe Bourrinet.

Bourrinet – per chi non lo conoscesse – è un militante rivoluzionario e ricercatore indipendente, che ha al suo attivo numerose monografie, traduzioni e articoli sulle sinistre comuniste in Germania, Italia, Jugoslavia e Russia, oltreché su vari aspetti e figure dei movimenti socio-politici dell’età contemporanea, fra cui il ’56 ungherese. Fra i suoi principali lavori vanno ricordati: La sinistra comunista italiana. 1927-1952 (1984); Alle origini del comunismo dei consigli. Storia della sinistra marxista olandese (1995); Ante Ciliga, 1898-1992. Nazionalismo e comunismo in Jugoslavia (1996); mentre attualmente anima il blog di teoria politica pantopolis.over-blog.com .

Il suo saggio, di fatto, è quello che riassume il senso della ricerca e dei testi successivi, dovuti rispettivamente a Visconte Grisi (L’economia di guerra al tempo del coronavirus e La guerra è permanente?), al Centro di documentazione contro la guerra (Coronavirus) e ai militanti che hanno dato vita al blog e alle edizioni «rompere le righe» (Il tallone di silicio. Sul rapporto tra tecnologia, guerra e razzismo).

Tutti temi che rendono il testo, così come è stato affermato dagli stessi curatori, complanare rispetto ad un altro, L’epidemia delle emergenze, recentemente pubblicato da Il Galeone Editore [2], in un panorama nazionale che da poche settimane ha visto riaprirsi un dibattito pubblico più ampio sulla pandemia e sul suo uso politico.

Tornando al saggio di Bourrinet va sottolineato come in questo sia sviluppato un’efficace excursus tra le epidemie che hanno segnato la Storia dall’Antichità fino al mondo attuale, in cui l’attenzione dell’autore si sofferma maggiormente sulla Peste nera della metà del XIV secolo e successivamente sulle nuove pandemie che approfittano di un sistema sanitario capitalista alla deriva (come titola lo stesso autore una delle parti del testo).

Se la prima rivela la stretta interconnessione tra sviluppo dell’economia mercantile, spostamento delle merci e rapido diffondersi della peste, le altre e più recenti vengono fatte derivare da un sistema di sfruttamento globale sempre più simile ad una vera e propria guerra condotta nei confronti della Natura. Un sistema basato sulla guerra continua che promuove, direttamente e indirettamente, lo sviluppo e la diffusione delle epidemie. Come viene dimostrato in una delle schede inserite nel saggio dai curatori a proposito della cosiddetta influenza “Spagnola”, che si diffuse su scala planetaria proprio a partire da un campo di addestramento militare molto affollato, per l’urgenza della preparazione militare per l’intervento statunitense nel conflitto europeo, che si trovava nella contea di Haskell in Kansas.
Lo scopritore del virus dell’influenza poi ribattezzata “Spagnola” era un medico del Kansas, che si chiamava Loring Miner. Per primo aveva notato questa influenza con strani sintomi e aveva anche avvisato le Autorità, ma in quel momento l’Amministrazione Wilson aveva altre priorità, la guerra appunto, e nessuno badava a quella che sembrava una modesta epidemia locale. I soldati quartierati nel campo di addestramento di Funston, tuttavia, cominciarono immediatamente a infettarsi, ma i sintomi non erano ancora sufficientemente gravi per capire l’entità dell’epidemia e quindi [questi soldati] vennero spediti in Europa.

L’arrivo di truppe americane in Europa permise al virus immediatamente di diffondersi; per esempio, due terzi dei soldati americani diretti in Francia – stiamo sempre parlando dell’ultimo anno di guerra, il 1918 – arrivavano a Brest, e [in questo porto] ci furono subito vari casi di influenza. Con la sua diffusione – ricordiamoci che il virus, man mano che si diffonde muta e diventa più virulento – tra i due milioni di soldati americani all’epoca al fronte, immediatamente anche le altre truppe alleate, quelle francesi e quelle inglesi, vennero contagiate. Il meccanismo [del contagio] proseguì durante l’estate e poi scoppiò drammaticamente nel l’autunno 1918.

In quell’autunno cominciarono i casi più gravi e si svilupparono principalmente negli Stati Uniti, a partire dalle basi dell’esercito e a partire dai porti dove transitavano le truppe per andare in Europa o per tornare dall’Europa, quindi Boston, Philadelphia, New Orleans. Le stesse navi che andavano o venivano dall’Europa registravano decine, a volte centinaia, di casi durante la traversata. A quel punto le autorità sanitarie militari compresero la gravità del problema e cercarono di isolare i soldati contagiati, ma ormai era troppo tardi. [...]

Nell’arco di poche settimane l’epidemia si scatenò in tutta la sua virulenza in Europa e negli Stati Uniti. Gli ospedali, semplicemente, collassarono, i feriti o i contagiati morivano rapidamente di questa polmonite apparentemente inarrestabile e non sappiamo esattamente quanti furono i casi poi registrati, per esempio in Asia, su cui non ci sono statistiche sanitarie attendibili.

Con ogni probabilità si trattava di un tipo di influenza aviaria, partita nel rurale Kansas e poi mutata una volta raggiunte le truppe da una parte e le città dall’altra. Anche nel 1918 il mondo era globalizzato, legato fortemente da trasporti navali oltre che dall’incredibile concentrazione di persone e animali nei teatri delle operazioni belliche. Nelle trincee l’epidemia si sviluppò in maniera estremamente rapida, nei quartieri più poveri e sovraffollati, ancora di più [3].
Mi scuso con i lettori e con i curatori per una citazione forse un po’ troppo lunga, ma credo che essa possa essere di grande aiuto per cogliere, sinteticamente, tutte le similitudini tra alcuni aspetti di quella pandemia e l’attuale, ma anche, e soprattutto, per riflettere su un modo di produzione di cui la guerra è una costante assoluta e non soltanto frutto di momentanei errori e sul modo in cui le conseguenze di questa si prolunghino ben al di là delle trincee e dei campi di battaglia. Sia dal punto di vista politico-economico che socio-sanitario, come si è già affermato più sopra [4].

Il saggio di Bourrinet coglie a fondo la necessità e l’inevitabilità del conflitto nella costituzione del modo di produzione attualmente dominante e sviscera letteralmente tutti i collegamenti tra warfare e governance che ne derivano. Non dimenticando di ripercorrere tutte le interconnessioni tra produzione industriale, guerra chimica (compresa quella contro l’ambiente) e guerra tecnologicamente “evoluta” che hanno segnato il destino di milioni di uomini e di donne. Spesso proprio nel cuore dell’Impero.

Gli altri saggi arricchiscono e approfondiscono alcuni degli argomenti trattati da Bourrinet, contribuendo così a dare vita ad una riflessione collettiva di cui oggi c’è assoluto bisogno, in vista del futuro ed inevitabile affossamento di un modo di produzione che, come dimostrano le alluvioni e il ritorno in grande stile della pandemia nel corso degli ultimi giorni, non è più assolutamente in grado, ammesso che lo sia mai stato, di risolvere i giganteschi problemi che esso stesso produce ed aggrava.
Quando il confinamento avrà termine e si uscirà dal bozzolo antivirus, tutti i lavoratori, quale che sia il loro sesso, si troveranno di fronte alla dura realtà. Il pericolo più grande non sarà costituito da questo o quel virus, ma dal capitale stesso. Dopo aver dimostrato la sua totale incapacità di anticipare e gestire la crisi, il sistema ne farà pagare il conto a coloro senza di cui non può raccogliere i suoi profitti: i proletari. Aumento della disoccupazione, riduzione del salario reale, penuria progressiva, militarizzazione della società. Dopo aver strombazzato a destra e a manca "siamo in marcia verso sempre nuovi progressi", la classe capitalista ora martella "siamo in guerra!" innanzitutto contro quanti si ribelleranno sfidando l’ordine socio-economico esistente. In primo luogo contro i proletari [5].
Note:

1) Calusca City Lights (a cura di), Lo spillover del profitto, p. 7

2) J.Orlando e S.Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, Roma 2020

3) Lo spillover del profitto, op. cit. pp. 24 – 25

4) Sullo stesso tema si veda anche: S.Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis, Milano 2018

5) P. Bourrinet, Capitalismo, guerre ed epidemie in op. cit. pp. 82-83

Fonte

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