Alla riunione dei Ministri della difesa dei paesi della Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), lo scorso 28 luglio, il russo Sergej Šojgù aveva messo in guardia dai tentativi USA, dopo l’uscita dall’Afghanistan, di posizionarsi nell’area turkmena e in generale centroasiatica e sul conseguente pericolo di nuove tensioni nella regione.
Šojgù aveva assicurato i colleghi che Mosca «fornirà sostegno militare ai Paesi» della SCO e che intende elevare l’efficienza operativa delle proprie basi militari in Tadžikistan e Kyrghyzstan.
Intervistato un paio di giorni fa da Den’-TV, l’ex funzionario del Dipartimento esteri del CC del PCUS, Vjačeslav Matuzov, prima ha ricordato come, presente in Afghanistan ancora la 58° Armata sovietica, Zbigniew Brzezinski si fosse fatto fotografare con in braccio un fucile da cecchino puntato contro la frontiera dell’URSS, e poi ha concluso con le parole dello schilleriano Muley Hassan «Der Mohr hat seine Schuldigkeit getan, Der Mohr kann gehen – Il Moro ha fatto il suo dovere, il Moro può andare».
Quantunque, ha ricordato Mazutov, gli USA abbiano portato a termine solo una parte, e nemmeno la principale, dei propri piani, se si considerano le linee esposte a suo tempo da Condolezza Rice per demolire l’indipendenza del mondo islamico e rimescolare i confini in un Nuovo grande Medio oriente da dirigere contro la Russia attraverso le ex Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, e i disegni dell’analista del Pentagono Ralph Peters, per dar vita a un Kurdistan sotto controllo USA a spese di territori siriani, iraniani, turchi e iracheni, fino al mar Nero.
Ma andiamo con ordine.
Negli stessi giorni dell’incontro della SCO a Dušanbe, il Segretario di stato USA, Antony Blinken, era a New Delhi e si incontrava col Ministro degli esteri Subrahmanyam Jaishankar, mentre a Pechino il mullah Baradar, esponente dei talebani, veniva ricevuto dal Ministro degli esteri cinese Wang Yi. A Jaishankar, Blinken assicurava che USA e India sono due delle maggiori «democrazie del mondo», forti di una «vasta gamma di partenariati che collegano i nostri paesi, non solo tra i nostri governi, ma anche tra i nostri settori privati».
Convenevoli a parte, il succo della questione appare più prosaico. Washington attribuisce un peso particolare all’India, nel tentativo di controbilanciare la crescente potenza della Cina e il suo avvicinamento alla Russia, data la ritrosia di buona parte dei paesi dell’ASEAN a mettersi in contrasto con Pechino.
D’altra parte, nota Vladimir Pavlenko su IA Rex, i legami tra Delhi e Mosca del periodo sovietico non sono del tutto sciolti: come l’URSS, la Russia continua a essere il primo partner commerciale indiano nel settore della tecnologia militare, mentre gli USA sono solo quarti.
Per non parlare dell’appartenenza dell’India, al pari di Russia e Cina, alla SCO, snobbando il progetto yankee del cosiddetto “partenariato Indo-Pacifico”, una sorta di NATO orientale, in cui il Pentagono intenderebbe riunire le regioni Asia-Pacifico e Sud-Asiatica, per coinvolgere l’India contro la Cina.
Dunque, a Delhi si è discusso di: integrazione militare contro la Cina – in particolare: la richiesta a Delhi di accrescere la partecipazione al QSD (Quadrilateral Security Dialogue) sotto egida USA, insieme a Giappone e Australia -, cooperazione economico-tecnologica, Afghanistan. Blinken ha poi incontrato anche un rappresentante del cosiddetto “governo tibetano in esilio”, con l’obiettivo di sfruttare contro Pechino l’influenza del Dalai Lama sulla popolazione buddista della regione.
Un primo contatto USA-India c’era stato a marzo, per il vertice virtuale del QSD, con Blinken e il Segretario alla difesa Lloyd Austin che facevano la spola tra Tokyo e Seoul, in vista del summit Usa-Cina in Alaska, conclusosi con un nulla di fatto e con Seoul che si era rifiutata di assumere posizioni anti-cinesi. Ora, Austin è stato a Singapore, Filippine e Vietnam, per cercare di reclutare contro Pechino anche le capitali asiatiche riluttanti.
Sulla questione dell’Afghanistan, Delhi è preoccupata per il fattore islamista, soprattutto se i talebani prenderanno il potere: un pericolo esterno e interno, dato dal Pakistan e dall’ex stato di Jammu e Kashmir, trasformato in territorio federale nel 2019.
Qui, sostiene ancora Vladimir Pavlenko, gli interessi dell’India, da un lato, convergono con quelli russi e cinesi (destabilizzazione islamista in Asia centrale e Xinjiang); dall’altro, sono in conflitto con gli interessi USA.
Delhi non dimentica che è stato l’intervento USA in Afghanistan a creare questa situazione di crisi nella regione. E, però, si trova stretta da due lati: da una parte, la cooperazione con gli Stati Uniti nell’ambito del QSD; dall’altra, gli interessi comuni con Mosca, Pechino e Islamabad nella SCO, in cui l’Afghanistan è inserito come osservatore.
Anche solo così, conclude Pavlenko, «la SCO è un meccanismo molto più affidabile, che non la partnership “Indo-Pacifico” con gli Stati Uniti»: dipende dall’India la «scelta tra consolidamento eurasiatico, trasformando la SCO in strumento di congiunzione transcontinentale di UEEA (Unione economica euroasiatica) e Belt and Road, e la scissione dell’Eurasia: più precisamente, la separazione e la rinascita dei “limitrofi”, ora usati da forze esterne per aumentare la tensione».
Secondo Mohammed Ayoob, che ne scriveva il 2 agosto sull’australiano The Strategist, l’unico paese scontento dell’uscita USA dall’Afghanistan sarebbe proprio l’India, mentre Pakistan e Cina si preparerebbero a colmare il vuoto e Russia e Iran, sebbene temano i talebani, sarebbero contenti della mossa USA.
Dal 2001, Delhi ha fornito 3 miliardi di dollari di assistenza all’Afghanistan, nel tentativo di evitare lo scenario che si sta ora prospettando: i talebani al potere, scrive Ayoob, significano di nuovo un punto d’appoggio per Islamabad in caso di conflitto con l’India, ricordando come, negli anni ’90, l’Afghanistan talebano fosse diventato un rifugio per terroristi addestrati in Pakistan, schierati sul lato indiano della linea di controllo in Kashmir; e infatti all’epoca Delhi sosteneva l’Alleanza del Nord contro i talebani.
E nonostante i talebani ora dichiarino di non permettere che gruppi terroristici usino il territorio afghano, l’India ha sinora rifiutato (ufficialmente) contatti diretti con loro, a differenza ad esempio di Cina e Iran.
Delhi è preoccupata anche per l’interesse di Pechino a includere l’Afghanistan nella One Belt One Road e per la dichiarazione congiunta sino-pakistana del 24 luglio sul coordinamento e la cooperazione bilaterale in Afghanistan.
Di tenore simile era stato, nel luglio scorso, il commento dell’ex funzionario australiano per gli affari esteri Connor Dilleen, ancora su The Strategist. Dilleen ipotizzava che la Cina, pur manifestando una certa apprensione, potrebbe vedere il ritiro USA come un’opportunità. Pechino ha infatti interessi economici e strategici nella regione; quelli diretti in Afghanistan includono un contratto di locazione, concluso nel 2007 per 30 anni, sulla miniera di rame di Mes Aynak, ed è probabile che guardi anche alle risorse minerarie afghane, valutate oltre 1 trilione di dollari.
La Cina ha investito molto sia in Pakistan che in Tadžikistan, elementi importanti del progetto Belt and Road, con estesi confini con l’Afghanistan e molto vulnerabili alla sua instabilità. L’Afghanistan è importante anche per la sicurezza nello Xinjiang, dato che è stato a lungo utilizzato come base per i guerriglieri uiguri.
In ogni caso, sia che cooperi con Pakistan, Russia e Iran, per la stabilizzazione afghana, sia che intenda giocare un ruolo più diretto, è chiara l’importanza attribuita al paese per la strategia cinese, tanto da pianificarvi «significativi investimenti energetici e infrastrutturali».
Così, la Cina si è offerta di facilitare il processo di pace tra Kabul e talebani e Zhang Jiadong scriveva il 6 luglio su Global Times che, «rispetto ad altre potenze, la RPC ha l’opportunità di partecipare agli affari afghani senza impantanarvisi».
E però scrive Dilleen, le cose in Afghanistan sembrano muoversi più velocemente del previsto e il conflitto minaccia di estendersi ai paesi vicini: il Tadžikistan ha praticamente perso il controllo del confine con l’Afghanistan e ha chiesto aiuto all’Organizzazione del Trattato per la sicurezza collettiva. Pechino dispone di una base militare sul suolo tadžiko e il deterioramento della situazione afghana potrebbe spingere Pechino a un ruolo più diretto nella regione, anche schierando forze di pace in Afghanistan.
Al momento, i talebani sembrano disponibili alle aperture di Pechino, ma non c’è alcuna garanzia che continueranno a farlo in seguito. È anzi probabile che la Cina venga vista come un’ennesima potenza occupante, e i talebani non sono l’unico gruppo islamista attivo: Tehreek-e-Taliban Pakistan e Stato Islamico hanno già dichiarato di voler attaccare gli interessi cinesi nella regione. Come non tener conto, anche in questo caso, dei piani anti-cinesi di Washington?
Dopotutto, i talebani hanno detto di considerare forze di occupazione straniere, nonostante la comune fede musulmana, anche i 500 soldati turchi che gli USA hanno chiesto ad Ankara di schierare all’aeroporto di Kabul.
E, sebbene Ankara preferisca aggirare le proteste talebane, scrive Stanislav Tarasov, è chiaro che «la presenza militare turca cambia gli equilibri in Afghanistan e nella regione, a cui la Russia dovrà reagire. Se non altro, perché non è escluso l’afflusso di profughi verso i paesi confinanti dell’Asia centrale. Pertanto, il contatto tra Mosca e Ankara in questa direzione sta diventando quasi inevitabile, e forse anche auspicabile».
Ma, in concreto, quali sono le mosse di Mosca? La russa IA Rex riporta le dichiarazioni di Zamir Kabulov, direttore del “Secondo dipartimento Asia” del Ministero degli esteri russo, secondo il quale «la maggioranza dei talebani è incline a una soluzione pacifica in Afghanistan» e «il movimento non costituisce una minaccia per i paesi vicini».
Kabulov ha anche messo in dubbio le dichiarazioni delle autorità afgane sui legami dei talebani con Al-Qaeda e, soprattutto, non crede reale una completa presa del potere da parte talebana.
E, però, lamenta Vjačeslav Matuzov, citato all’inizio, se all’annuncio della rivoluzione in Iran, nel 1978, ci fu un complesso lavoro di analisi, di studio, che coinvolse non solo i vertici politici sovietici, ma tutta una serie di discipline scientifiche, oggi non è dato vedere nulla di simile.
Sembra anzi che al Cremlino si sia rimasti fermi a quelle disgraziate dichiarazioni dei primi anni 2000, quasi mutuate dalla nuova dottrina USA di fare dell’Islam il nuovo “pericolo mondiale”, dopo aver “sconfitto il comunismo e il nemico sovietico”; tanto che si è arrivati ad affermare che oggi «il nemico principale è il terrorismo internazionale», teorizzando che «dal terrorismo talebano ci salva l’esercito USA», ovviamente, finché rimane in Afghanistan.
Si arriva così a dichiarazioni assurde come l’invocazione di una “nuova coalizione anti-hitleriana”, che oggi assumerebbe la forma di “coalizione anti-talebana”, fingendo di scordare che mentre Stato islamico e Qaeda sono creazioni yankee, i talebani non lo sono: questa circostanza, dice Matuzov, avrebbe dovuto esser sfruttata, e invece nel 2003 i talebani vengono inseriti tra le organizzazioni considerate terroristiche in Russia, arrivando a sostenere le truppe USA nei loro attacchi ai talebani nel nord dell’Afghanistan, o a concedere, nel 2012, la base aerea di Ul’janovsk, 900 km a sudest di Mosca, quale punto di trasbordo per “materiali militari NATO non letali” (da qui, vettori russi dovevano trasportare i carichi via terra fino a Riga e Tallin e poi via mare verso basi NATO in Germania e altri paesi) quando in realtà gli americani stavano «portando via dall’Afghanistan centinaia di tonnellate di eroina».
Di comune con la questione iraniana, afferma ancora Matuzov, oggi come allora si trova in Russia una “quinta colonna” che esorta a mandare le truppe o addirittura a smembrare il paese in tanti piccoli staterelli, dimenticando che sono proprio i talebani ad assicurare il controllo delle frontiere afghane con Uzbekistan, Turkmenistan, Tadžikistan, tenendo a bada i terroristi di Isis, Nusra, Qaeda, trasferiti da Ankara, parte in Libia e Azerbajdžan, ma per la maggior parte in Afghanistan, su aerei USA, dopo l’accordo russo-turco sulla Siria.
In effetti, a giudicare dalle mosse sia russe che cinesi, con delegazioni talebane ad alto livello ricevute a Mosca e a Pechino, sembra che qualcosa della strategia elaborata in occasione della “rivoluzione degli ayatollah” sia stato recepito.
Importante, sembra, è non dimenticare quali fossero gli obiettivi a lunga portata (geografica e storica) con cui negli anni ’80 Washington era entrata in Afghanistan a sostegno dei mujaheddin e capire se e in che misura tali obiettivi siano mutati, o meno.
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