La visita a Parigi di giovedì del ministro per la Brexit, David Frost, ha allentato solo in parte le tensioni tra Francia e Regno Unito, esplose da qualche tempo attorno ai diritti di pesca dei due paesi dopo l’addio di Londra all’Unione Europea. Il mancato accordo su una questione più importante dal punto di vista simbolico che economico ha minacciato un clamoroso tracollo dei rapporti anglo-francesi, evitato almeno per il momento dai colloqui rilanciati dopo il passo indietro di Macron e Boris Johnson nel corso del recente vertice sul clima di Glasgow.
Il summit nella capitale francese era stato preceduto mercoledì da un gesto distensivo delle autorità transalpine, con il rilascio di un’imbarcazione britannica sequestrata settimana scorsa nel porto di Le Havre perché sprovvista del permesso di pesca nelle acque territoriali della Francia. Al peschereccio era stata inizialmente imposta una cauzione di 150 mila euro, alla fine sospesa, in cambio della liberazione del capitano e dell’equipaggio, attesi da un processo fissato per il prossimo anno.
Dopo l’incontro tra Frost e il ministro francese per gli affari europei, Clement Beaune, non sono emersi elementi concreti che facciano intravedere una risoluzione della crisi. Un comunicato britannico ha parlato soltanto di “discussioni sulle difficoltà derivanti dall’applicazione degli accordi tra Regno Unito e Unione Europea”. Beaune ha definito il colloquio “utile e positivo”, sia pure ammettendo il persistere di “differenze significative”. I due membri dei rispettivi governi dovrebbero vedersi nuovamente a inizio della prossima settimana.
La contesa è da far risalire alle diverse interpretazioni proposte dai due governi riguardo agli accordi sui diritti di pesca stipulati dopo l’entrata in vigore della Brexit. Nello specifico, la questione che ha infiammato le relazioni bilaterali è rappresentata dall’accesso dei pescherecci francesi alle acque territoriali del Regno Unito nel canale della Manica, vicino alle isole autonome di Jersey e Guernsey. I pescatori francesi hanno in teoria la possibilità di continuare a farlo purché siano in grado di dimostrare che operavano in quest’area anche prima della Brexit.
Il problema è sorto attorno alla natura delle prove da presentare al governo di Londra per ottenere le dovute licenze. Il Regno Unito richiede i dati satellitari e del pescato nelle proprie acque, che molti piccoli pescatori francesi non hanno la possibilità di produrre. Inoltre, a coloro che avevano ottenuto permessi prima della Brexit, ma non ne avevano usufruito, dovrebbe essere ora negato l’ingresso nelle acque britanniche. I francesi, da parte loro, sostengono di avere presentato la documentazione necessaria, ma non tutti hanno ottenuto una nuova licenza. Sul numero delle imbarcazioni ancora sprovviste di un permesso non c’è accordo tra i due governi, ma, al di là di ciò, l’accusa di Parigi è che il governo Johnson stia sfruttando la vicenda per ragioni politiche.
Il rifiuto di concedere i permessi mancanti, che secondo la Francia rappresenterebbe una decisione deliberata da parte di Londra, ha innescato reazioni molto dure a Parigi. Oltre ai toni insolitamente accessi, il governo del presidente Macron aveva minacciato vari provvedimenti concreti, come l’intensificazione dei controlli sulle merci da e per il Regno Unito e sulle imbarcazioni britanniche nelle acque territoriali francesi. Addirittura, esponenti del governo francese erano arrivati a ipotizzare un taglio delle forniture di energia elettrica alle isole britanniche nella Manica.
Il ministro francese responsabile per le questioni legate alla pesca, Annick Girardin, aveva affermato che era giunto il momento di usare “il linguaggio della forza” per risolvere la disputa, dal momento che, a suo dire, “il governo britannico non è in grado di comprendere altro”. Il conflitto anglo-francese ha occupato anche buona parte del vertice sul clima in Scozia, ospitato proprio dal premier Johnson. Quest’ultimo e Macron erano stati protagonisti di un faccia a faccia di un’ora che non aveva tuttavia risolto nulla. Il presidente francese aveva infatti ribadito l’intenzione di attuare le misure minacciate contro gli interessi britannici se Londra non avesse fatto marcia indietro sulle licenze entro il 2 novembre.
Dopo ulteriori discussioni e ripetuti appelli alla de-escalation di media e governi, più che altro per lo spettacolo imbarazzante offerto durante un summit apparentemente organizzato per risolvere i problemi climatici del pianeta, Macron ha abbassato i toni e fatto rientrare l’ultimatum. A ciò è appunto seguita la discussione di giovedì a Parigi tra i ministri Frost e Beaune, ma i pochissimi dettagli che sono circolati fanno pensare che l’epilogo dello scontro sia ancora lontano.
Il rischio di una guerra commerciale o addirittura di uno scontro armato tra due paesi europei sembrerebbe decisamente fuori luogo se si considera che il settore della pesca contribuisce rispettivamente per lo 0,06% e per lo 0,1% al PIL di Francia e Regno Unito. Dietro allo scontro ci sono però questioni di ben altro rilievo. Entrambi i governi stanno ad esempio sfruttando la controversia per accumulare del capitale politico sul fronte interno in un frangente delicato. Macron è atteso l’anno prossimo dalle elezioni presidenziali e la sua eventuale riconferma è minacciata, in assenza di candidati forti a sinistra, dalla destra e dall’estrema destra. Agitare una contesa con il Regno Unito, facendo credere che siano in gioco questioni di sovranità nazionale, può dunque tornare utile per intercettare consensi a destra.
Se per Johnson non ci sono invece calcoli elettorali immediati, la contesa serve comunque al suo governo principalmente per consolidare l’immagine di una Gran Bretagna forte e sovrana dopo l’uscita dall’UE. Legato a questo aspetto c’è poi quello del “protocollo” nordirlandese, motivo di scontro da tempo con Bruxelles. Londra chiede una modifica all’accordo sugli scambi commerciali con l’Irlanda del Nord, che ha stabilito una frontiera marittima di fatto tra quest’ultima e la Gran Bretagna, e potrebbe sfruttare la vicenda dei diritti di pesca per estrarre concessioni dall’Europa.
In un quadro più ampio, la sfida anglo-francese in ambito ittico è il sintomo delle tensioni di carattere strategico scatenate dalla Brexit e dal riassestamento degli equilibri internazionali in atto. L’insistenza di Parigi nel piegare il Regno Unito e favorire i propri pescatori è innanzitutto il tentativo di evitare da subito concessioni a Londra sui numerosi aspetti post-Brexit che restano da regolare nei rapporti con l’UE. Cedere su questo fronte a Johnson rischierebbe di fissare un precedente per le successive trattative. Per la Francia si tratta in sostanza di fare della questione un esempio, ovvero, come ha scritto il primo ministro Jean Castex alla presidente della Commissione europea Von der Layen, di dimostrare che “abbandonare l’Unione è meno vantaggioso rispetto a rimanervi”.
In merito a questo punto ci sono implicazioni che vanno al cuore delle divisioni e delle rivalità che stanno lacerando il panorama internazionale. Il precipitare delle relazioni tra Londra e Parigi si collega all’obiettivo britannico post-Brexit di rafforzare l’alleanza con gli Stati Uniti e, a questo scopo, di alimentare divisioni all’interno dell’UE con l’intenzione di indebolire quello che è diventato a tutti gli effetti un rivale strategico.
D’altro canto, la Francia e l’Europa sono impegnate a ostacolare questi piani e a costruire al contrario un sistema continentale capace di proporsi come forza autonoma sul piano internazionale, ritrovandosi perciò nella necessità di evitare qualsiasi spinta centrifuga che tragga forza o ispirazione dall’esempio britannico.
Per molti osservatori, infine, le scintille anglo-francesi sono un ulteriore motivo di preoccupazione perché rischiano di avvelenare ciò che resta del clima di collaborazione in Europa e in Occidente in genere. Una prospettiva, quest’ultima, vista con ansia da una parte della classe dirigente occidentale che, davanti al rapido evolversi delle dinamiche multipolari, continua a illudersi circa la possibilità di costruire un fronte comune sulle due sponde dell’Atlantico per contrastare la presunta minaccia di potenze emergenti come Russia e, soprattutto, Cina.
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