di Sandro Moiso
La nostalgia non è mai una buona compagna di viaggio, sia nella vita che in politica, pertanto le riflessioni che seguono esulano da eventuali rimpianti per una stagione apparentemente finita da decenni. Detto questo, però, è inevitabile registrare come in una società che non ha mai perso le caratteristiche di sfruttamento e comando sulla forza lavoro che già erano state alla base delle rivolte operaie degli anni Sessanta e Settanta, in un contesto in cui alcune caratteristiche del lavoro precarizzato sono penetrate sempre di più anche all’interno dei percorsi scolastici contraddicendo la favoletta della formazione culturale dei futuri cittadini, sia ridiventata possibile sperare in una ripresa dell’unità di intenti tra settori del mondo del lavoro e studenti, soprattutto delle scuole superiori, come è riscontrabile oggi a partire dalle mobilitazioni che hanno coinvolto gli stessi in almeno trenta città italiane dopo la tragica morte, durante l’ultimo giorno dello stage di alternanza scuola-lavoro, di un giovane diciottenne, Lorenzo Parelli, in un’azienda dislocata in provincia di Udine.
D’altra parte gli studenti medi, nelle spontanee manifestazioni avvenute dopo la morte di un loro coetaneo sul luogo di lavoro in cui avrebbe dovuto apprendere elementi utili ad una formazione professionale, cui le scuole statali sembrano aver abdicato da molti anni a questa parte, hanno evidenziato un elemento che da troppo tempo, al di là dei falsi piagnistei sindacali e governativi, caratterizza il mondo del lavoro italiano, ovvero il fatto che in questa democratica repubblica sono da contare almeno tre morti al giorno sui posti di lavoro. Cifra che il periodo di allerte ed emergenze pandemiche non ha certamente contribuito a far diminuire.
Secondo l’Inail nel 2021 sono stati 1.221 i morti sul lavoro, mentre 1.270 erano stati nel 2020 (compresi quelli da Covid-19, contratto soprattutto tra il personale ospedaliero), senza contare quelli che restano non censiti (ad esempio quelli “in itinere” ovvero durante lo spostamento da casa al luogo di lavoro o viceversa). Infatti fonti ufficiose ipotizzano che circa un terzo degli infortuni mortali sul lavoro rimanga sottotraccia, non censito, e che la quota di sommerso sia ancora più rilevante nel settore agricolo e sul fronte degli incidenti stradali. Una media che supera i 3 al giorno e rispetto alla quale non vi sono ancora mai state mobilitazioni significative, al di là delle parole retoriche dei rappresentanti dei sindacati confederali, delle frasi di circostanza governative e della rassegnazione di tanti lavoratori di fronte ad un fenomeno recepito, troppo spesso ormai, come inevitabile.
Così mentre i rappresentanti sindacali da un lato e il populismo no green pas o no vax dall’altro riducevano tutto il problema della sicurezza e della dignità dei lavoratori all’esaltazione o alla critica (in entrambi i casi assoluta) dell’uso dei vaccini e dei green pass, gli studenti sono stati i primi a mobilitarsi su un tema centrale per la definizione dei reali rapporti intercorrenti tra lavoratori, Stato, formazione, datori di lavoro, giovani e realtà dello sfruttamento capitalistico travestito da unico modo possibile di vita e organizzazione sociale.
Ponendo una questione eminentemente politica e contribuendo così a riaprire una riflessione collettiva e un’iniziativa spontanea dal basso dalla possibile connotazione anti-capitalista, in grado di scardinare nuovamente la morta gora sociale che le mancate iniziative sul Covid-19 e le misure anti-pandemiche, anche là dove si pensano radicali come nel caso del movimento anti-green pass, hanno contribuito soltanto a rafforzare[1].
Proprio per questo motivo la risposta poliziesca è stata così dura e violenta, al di là delle fasulle spiegazioni dei questori coinvolti (qui) oppure dei finti piagnistei della stampa mainstream sull’inspiegabilità dei comportamenti delle forze dell’ordine nei confronti delle manifestazioni studentesche. Una ragazza di 18 anni con un’anca rotta, una di 14 con sei punti di sutura sulla testa, un ragazzo poco più che maggiorenne ancora ricoverato per un’emorragia cerebrale non ancora riassorbita e decine di altri costretti ad andare all’ospedale e da lì usciti con collari, fasciature e prognosi per lussazioni, in almeno tre città italiane (Torino, Roma e Milano)[2], non costituiscono soltanto dei “casi”.
Raffigurano bene l’unica strategia governativa e imprenditoriale possibile di fronte a un’iniziativa che, se non scoraggiata immediatamente, potrebbe rivelarsi perniciosa per un establishment che già fatica a galleggiare sulle proprie contraddizioni politiche ed economiche, oltre che sanitarie. Ma questa strategia affonda le proprie radici anche, e forse soprattutto, in scelte riguardanti la formazione dei giovani che, dopo aver già dimostrato la propria inconsistenza e superficialità nelle scelte riguardanti la DAD e la gestione degli spazi scolastici e dei trasporti pubblici durante l’attuale lunghissima fase pandemica, è iniziata con i tagli alla scuola pubblica e alla formazione professionale statale fin dagli anni ’90.
Chi scrive è stato per quasi quarant’anni docente di scuola superiore, sempre nel settore dell’istruzione tecnica e professionale e quindi, a ragion veduta, può affermare senza alcun dubbio di essere stato testimone di una svalutazione della formazione pubblica che era tesa, oltre che al risparmio sulla spesa pubblica indirizzata alla scuola, ad una svalorizzazione del lavoro in termini di costi della manodopera, qualificata o meno che fosse.
Si può dire che tutto ebbe inizio con il progetto Brocca (dal nome del sottosegretario italiano alla Pubblica istruzione Beniamino Brocca che coordinò la commissione ministeriale autrice del progetto), uno studio per la revisione del sistema didattico pubblico italiano effettuato a cavallo fra gli anni ’80 e ’90. Istituita nel 1988, la Commissione Brocca ricevette dall’allora ministro Giovanni Galloni il mandato di “revisionare” i programmi dei primi due anni della secondaria superiore, in vista del prolungamento dell’istruzione obbligatoria al sedicesimo anno d’età. L’anno successivo (confermata in carica peraltro dal successivo ministro Sergio Mattarella) si ebbe il primo esito concreto della commissione, cioè l’elaborazione dell’area comune del biennio.
Tenuto conto della tripartizione (istruzione liceale, tecnica e professionale) della scuola secondaria superiore, la commissione propose di superare le diverse barriere tra indirizzi di studio. Per superare le diversità di indirizzo si suggerì di dare maggior spazio alle discipline fondamentali. La commissione scartò l’adozione di un “biennio unico”, ossia di un semplice proseguimento della scuola media, per preferire l’alternativa del “biennio unitario articolato”.
Il tentativo era nell’insieme quello di liceizzare la scuola italiana, che raggiunse il suo apice, poi respinto da una vasta mobilitazione di docenti e studenti promossa dai sindacati di base, con le proposte dell’allora ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer, con il quale si intendeva modificare radicalmente la suddivisione del sistema scolastico.
Il risultato, per quanto riguardava gli Istituti Tecnici Industriali che allora raccoglievano il maggior numero di iscritti, insieme agli Istituti Tecnici professionali, fu quello di abolire le ore di officina del biennio. Ore in cui gli allievi e le allieve, oltre a ricevere i primi rudimenti di una professionalità specificamente tecnica, imparavano ad usare macchine a controllo numerico e torni secondo le norme della sicurezza sul lavoro.
I docenti tecnico-pratici furono trasferiti, salvo un breve e superficiale corso di aggiornamento, alla funzione di assistenti di laboratorio di informatica e matematica, mentre le ore delle materie teoriche andavano a sostituire quelle di officina meccanica. Il tutto condito da una retorica umanistico-scientifica che serviva soltanto a nascondere il fatto che proprio l’istruzione tecnico-pratica, in ogni settore e quindi anche le ore di officina del biennio, era quella che costava di più alla scuola italiana, facendo sì che all’epoca gli istituti tecnici industriali e professionali fossero quelli che costavano di più allo Stato in termini di spesa per macchine, laboratori, materie prime e materiali di consumo (bulloneria, attrezzi, preparati, vernici etc.).
Un liceo costa molto meno allo Stato, poiché biblioteche e laboratori linguistici, anche là dove esistono in maniera degna di questo nome, costano di meno di quanto rapidamente elencato prima, mentre il costo maggiore (dizionari, libri, quaderni, penne etc.) ricade principalmente sulle famiglie degli utenti ovvero sugli studenti.
La strategia che proseguì poi negli anni seguenti, nel tripudio irrazionale dei docenti di materie umanistiche (di cui il sottoscritto ha fatto parte per tutta la carriera lavorativa), portò successivamente ad una parziale esternalizzazione della formazione tecnica specifica attraverso le attività di alternanza scuola-lavoro, istituite a partire dai primi anni 2000[3] e codificate definitivamente con riordino dei licei, degli istituti tecnici e degli istituti professionali emanati dal Presidente della Repubblica in data 15 marzo 2010 (Registrati alla Corte dei Conti in data 1 giugno 2010). Seguita, infine, dall’abolizione della qualifica professionale che era conseguita dagli studenti degli Istituti Tecnici Professionali al termine del terzo anno a seguito di un esame professionalizzante (anno durante il quale le ore di laboratorio-officina della materia qualificante ammontavano a 12 su 36/38 settimanali).
Questo lungo percorso di esternalizzazione, almeno parziale, della formazione tecnica e professionale degli allievi delle scuole superiori di ogni ordine e grado, non dipendeva soltanto però da una volontà politica, ma anche da una economico-imprenditoriale tesa ad approfittare della suddetta svalutazione della formazione da due punti di vista. Entrambi remunerativi per il mondo dell’imprenditoria, grande o piccola che fosse.
In prima battuta, là dove ancora non esisteva oppure non esistesse più una specifica formazione professionale statale, gli imprenditori avrebbero potuto approfittare dei fondi europei per la formazione, istituendo corsi ad hoc da spartirsi annualmente tra i promotori.
In seconda battuta la creazione di una manodopera meno cosciente dei propri diritti (lavorativi ed economici) legati al possesso di ben precise tecniche e conoscenze professionali, decisamente più disposta ad adattarsi alle nuove “norme” della sempre più diffusa precarizzazione del lavoro.
Chi scrive, avendo insegnato per oltre un decennio in uno specifico contesto di economia turistica (Isola d’Elba), può tranquillamente affermare ciò, ricordando come i maggiori oppositori all’apertura di un Istituto Tecnico Professionale alberghiero in tale situazione socio-economica fossero stati proprio i maggiori albergatori locali, abituati a spartirsi annualmente i fondi europei per la formazione (con corsi semestrali) e ad utilizzare in prevalenza manodopera scarsamente professionalizzata e, proprio per questo motivo, a bassissimo costo. L’apertura dell’Istituto Alberghiero fu, in quel contesto, un’autentica vittoria per la qualificazione professionale di una parte dei giovani isolani, anche se destinata a durar poco proprio a causa delle riforme più sopra esposte.
È chiaro, pertanto, che le manganellate di oggi arrivano da lontano e portano firme importanti (visto che in periodi diversi si sono alternati sul “trono” della scuola rappresentanti politici di ogni colore e grado), tutte al servizio di interessi che con la cultura hanno ben poco a che fare, ma molto di più con gli interessi della riduzione della spesa pubblica e dell’imprenditoria nostrana.
La riduzione delle ore di laboratorio, negli istituti tecnici e professionali, è di fatto coincisa con un allargamento della manodopera gratuita prestata ad aziende e settori delle amministrazioni pubbliche per centinaia di ore pro-capite per studente che diventano centinaia di migliaia annualmente per le imprese e aziende interessate. Coinvolgendo in tale “prestito lavorativo” anche gli studenti liceali che fino all’istituzione dell’alternanza scuola-lavoro erano rimasti esclusi da qualsiasi tipo di pratica lavorativa.
Questo, di per sé, non costituirebbe un male se davvero costituisse, come vorrebbe far credere chi la promuove, una fase della formazione sociale, culturale e lavorativa dei giovani. Ma questa ipotesi sembra costituire soltanto il cappello sotto cui nascondere l’untume ideologico e la forfora economica di chi tali iniziative ha promosso e di chi ne trae vantaggio. Soprattutto alla luce del fatto che per molti giovani, qualificati e diplomati, l’alternativa lavorativa più diffusa sia quella di rider per la consegna a domicilio di cibo spazzatura, merci o altro.
«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». Tutto sembra rinviare, a distanza di novant’anni alla frase con cui si apriva uno dei primi, importanti romanzi di formazione del ‘900: Aden, Arabia di Paul Nizan (1931).
Violenta, superba, categorica, “vera”, questa frase è da sempre piaciuta molto ed è diventata famosa come specchio del rifiuto, indice di ribellione e bandiera della gioventù tribolata e scontenta.
Frase, quella di Nizan, cui seguiva di lì a poco un’altra, altrettanto emblematica: «Nulla sapevamo di quanto sarebbe stato necessario sapere e la cultura era troppo complessa per permetterci di capire altro che le rughe superficiali»[4].
Oggi la critica per la mancanza di democrazia può costituire un movente dello scontro politico, ma la richiesta di realizzazione della democrazia rimane entro i confini di un mondo dominato dal modo di produzione capitalistico che è causa esso stesso di quella mancata promessa di democrazia.
Allo stesso tempo la critica di una scuola che non funziona più, o non ha mai funzionato, come strumento di elevazione sociale in una società profondamente ineguale non può fermarsi alla promozione di un’idea di scuola che funzioni nell’ambito della società “borghese”.
La critica odierna, quella collegata al rifiuto dell’alternanza scuola-lavoro, costituisce già di per sé un superamento dei due esempi appena citati, ponendo al centro dell’attenzione il tema del lavoro e della cultura ad esso collegata. Un tema centrale che, non per nulla, sembra essere ancora accolto a suon di manganellate. Anche se nella fase attuale la possibile condanna o richiesta di dimissioni della ministra Lamorgese da parte di alcune forze parlamentari (ad esempio il PD) sembra rispondere alla duplice esigenza di premiare lo “sforzo” leghista per il voto a Mattarella da un lato e di limitare lo sviluppo della protesta studentesca prima che questa debordi dall’altro.
Già, il lavoro. Poiché se è proprio il sopravvivere di una società che esalta continuamente l’individuo e la sua indipendenza formale, per poi schiacciarlo sotto il peso delle sue difficoltà economiche, lavorative, affettive e famigliari, a provocare tanta parte della rabbia, del disagio e della frustrazione che animano i giovani, è proprio la questione del lavoro ad agitarsi nel profondo di questo scontento.
Il lavoro dovrebbe essere la principale attività della specie umana, quella che la distingue dalle altre specie animali. Il lavoro umano ha infatti subito nel tempo un’evoluzione diversa dall’istinto e contiene la possibilità di astrarre geometrie e forme che danno luogo a un progetto diverso dalla ripetitività istintiva genetica.
La domanda che sorge spontanea allora è questa: se l’unica cosa che distingue la nostra specie dalle altre, permettendogli di progettare l’ambiente e la realtà che lo circonda, come mai il lavoro stesso diventa, sotto il regime capitalista, un’attività coatta, non libera, estraniata, continuamente rifuggita? E cosa dovrebbero dire oggi le giovani generazioni, che non solo sono vittime del lavoro alienato che opprimeva l’operaio raffigurato da Marx, ma come tendenza storica nell’ambito del capitalismo attuale, sono tagliate fuori, in tutto e per tutto, da un lavoro degno di questo nome?
Essere separati dal lavoro significa essere separati dal proprio futuro, dato che non si può contare su di una vita autonoma; significa vedere annichilite le proprie potenzialità, che rimangono sprecate, non utilizzate neppure per fini capitalistici; significa quindi veder mortificate le proprie energie proprio nel momento in cui potrebbero esprimersi al massimo grado. In altre parole il motore sotterraneo e primario di tanto malessere giovanile, non solo studentesco, non trova la sua regione nel rifiuto di questo o quel governo, in questo o quel programma scolastico, in questo o quel provvedimento restrittivo della libertà “individuale”, ma più in generale nella perdita di senso reale della vita sotto la schiavitù capitalistica.
I giovani separati dal lavoro non possono che volerlo mentre, allo stesso tempo, lo odiano sia perché è la fonte del loro disagio, sia perché vedono, da un punto di vista relativamente privilegiato (finché hanno un minimo di libertà di sopravvivenza legata alla famiglia o a lavori saltuari o altro), coloro che dal lavoro sono schiavizzati. L’impatto giovanile con il lavoro è in genere traumatico perché non vi è ancora stata assuefazione allo sfruttamento insito nello stesso. Ancor di più se questo si manifesta attraverso la morte di un coetaneo durante uno stage di “formazione”. Fatto che rivela come la svalutazione delle competenze professionali e del lavoro finisca, in un paese in cui già sussistono salari tra i più bassi d’Europa, con il negare il valore della vita stessa.
Tragica conseguenza che le cifre degli incidenti mortali sul lavoro, sciorinate più sopra, rendono ancor più evidente.
La posta in gioco delle manifestazioni della scorsa settimana e di questo sabato e, speriamo, ancora di quelle future è molto più alto quindi di quel che sembra. Da qui, come si è già detto, la violenza della risposta e la necessità di una riflessione e auto-organizzazione che sappia superare i limiti della dimensione studentesca e giovanile per approcciarsi diversamente al mondo del lavoro e alla sue spietate leggi regolamentate soltanto dalla legge dell’estrazione del plusvalore e del profitto.
Nell’autunno del 1968, proprio a Torino, chi scrive fu risvegliato a nuova vita e ad un’attività di critica radicale militante, durata una vita intera, dalle violente cariche dei carabinieri di fronte alla facoltà di Architettura. In quell’occasione una generazione ancora adolescente imparò in fretta a mantenere il punto delle proprie rivendicazioni tenendo testa, nelle strade e nelle piazze, ai reparti della celere e dei carabinieri. L’auspicio non può essere allora altro da quello che le cariche e le manganellate di oggi, invece di seminare il panico e il terrore come si vorrebbe, ottengano il risultato opposto, contribuendo a “formare” una generazione destinata a cambiare il mondo, ben al di là dei blah blah di Greta Thunberg e della sua lamentela per il futuro negato alle giovani generazioni occidentali che, però, non ricorda mai il fatto che molti giovani e giovanissimi, in gran parte del mondo e della società attuale, non possano nemmeno sperare in una vita che vada al di là delle successive 24 ore.
Note
1) Si vedano in proposito gli articoli pubblicati su Carmilla nel corso del 2020 da chi scrive e da altri redattori, poi raccolti in L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, (a cura di Jack Orlando e Sandro Moiso), Il Galeone Editore, Roma 2020
2) Si veda Selvaggia Lucarelli, C’è una “strategia del manganello” per spaventare gli studenti in piazza, «Domani» di martedì 1 febbraio 2021
3) L’alternanza scuola-lavoro è stata istituita con la Legge 53/2003 e il Decreto Legislativo n. 77 del 15 aprile 2005 e ridefinita dalla Legge n. 107 del 13 Luglio 2015
4) Paul Nizan, Aden, Arabia, Savelli editore, Roma 1978
Fonte
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