L’Italia è un paese in cui la memoria storica è bene raro, riservato a pochi. La memoria storica andrebbe esercitata ogni giorno ed essere anche una guida per il presente e il futuro. Ma quando una memoria storica quotidiana, presente e attiva non c’è, ecco nascere “giornate” più o meno surrettizie e dettate dalle convenienze politiche.
Infatti, dopo un paio d’anni di iter parlamentare, il Senato ha approvato alla quasi unanimità l’istituzione di una “Giornata nazionale della memoria del sacrificio degli alpini” che sarà celebrata dall’anno prossimo il 26 gennaio.
Di questa giornata è stata promotrice la Lega, che ai tempi di Bossi voleva “appendere nel cesso” la bandiera italiana, ma che ora si è fatta nazionalista e che soprattutto vede nelle valli montane del nord, da cui proviene gran parte degli alpini, un’area elettorale a cui lisciare il pelo.
Insomma, un calcolo elettorale miserabile a cui è stata piegata la Storia, che provoca danni incalcolabili sul piano storico e politico. Un danno di cui sono però complici e responsabili tutti i senatori che hanno votato un tale obbrobrio, compresi coloro che, come quelli del PD, si proclamano antifascisti solo in tempi di campagna elettorale.
È molto grave la data scelta per tale giornata: il 26 gennaio, in ricordo dell’azione disperata dell’esercito italiano, ormai sconfitto, per aprirsi un varco nella sacca di Nikolajevka, in cui era stato accerchiato dall’esercito sovietico.
Fu l’azione di diverse divisioni che cercavano una via di scampo dopo una campagna d’invasione fortunatamente fallita. Proprio niente di “eroico”, se non il tentativo di salvarsi la vita dopo essere stati mandati al macello da un regime criminale. Chi sacrificò le vite di decine di migliaia di alpini fu il fascismo, non certo l’URSS, che non fece altro che difendersi da un’invasione brutale.
È bene ricordarlo, anche se dovrebbe apparire ovvio, che la sconfitta delle truppe dell’Asse in URSS cambiò il corso della guerra e salvò il mondo dal nazismo che, in caso contrario, sarebbe dilagato ovunque.
Come ha scritto in un suo libro troppo poco conosciuto in Italia lo storico Thomas Schlemmer[1], gli alpini in URSS furono truppe d’invasione che collaborarono attivamente all’occupazione del paese, comprese la repressione della resistenza partigiana e dell’opposizione delle popolazioni locali e che contribuirono alla spoliazione delle colture e delle risorse del territorio che doveva diventare, nelle intenzioni di Hitler, un grande deposito per sostenere la Germania. L’Italia era, forse inutile ricordarlo, fedele alleata della Germania di Hitler.
Naturalmente, la vulgata degli “italiani brava gente”, come quella contenuta nel libro del repubblichino Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, e in tanti altri, ha cercato sempre di attribuire un ruolo diverso, nell’occupazione dell’URSS, ai tedeschi e agli italiani.
In realtà, tra i due comandi ci fu buona cooperazione, dal punto di vista degli intenti, anche se i tedeschi consideravano gli italiani inferiori per mezzi, addestramento e capacità di combattimento.
Tuttavia gli italiani non erano affatto “brava gente”, come in Jugoslavia, in Grecia o in Albania furono invece esercito di conquista e di occupazione, che derubò, uccise e violentò.
Non si dimentichi che l’esercito italiano era comandato da generali fascisti che avevano ben pochi scrupoli e che rispondevano al comando di Roma. In accordo con l’ideologia nazista, i russi erano undermenschen cioè razza inferiore da sottomettere e distruggere.
L’esercito italiano occupò in URSS zone popolate e poiché era necessario evitare che i rifornimenti dovessero arrivare, in modo improbabile, dall’Italia, si diede ordine di procurarsi sul posto le risorse necessarie per sopravvivere, che significa razzia delle case e delle risorse.
L’URSS doveva diventare, come ho scritto, “il granaio dell’Asse”, non solo per le truppe d’occupazione ma più in generale, per vincere la guerra, per i rifornimenti dei paesi occupanti.
L’esercito italiano, forse proprio perché ritenuto dai tedeschi inferiore per capacità di combattimento, fu deputato al controllo del territorio e agì in URSS con la stessa crudeltà usata negli altri paesi occupati, passando per le armi ogni partigiano od oppositore, ma spesso anche soldati sovietici fatti prigionieri. Molti villaggi furono occupati e le popolazioni sottomesse con la forza delle armi.
Oltre al controllo del territorio, esercitato anche attraverso i carabinieri e miliziani collaborazionisti appositamente reclutati, l’esercito italiano fu così deputato alla repressione di ogni movimento contrario all’occupazione.
Tra le sue altre attività, l’esercitò italiano si dedicò a un’altra non certo edificante occupazione: l’apertura di bordelli per le truppe. Tre per ogni divisione mandata in URSS, dato che si volevano evitare, come già avvenuto nelle imprese coloniali, contatti affettivi tra occupanti e donne locali.
Questo era anche sintomo dell’idea che l’occupazione sarebbe stata lunga e avrebbe potuto creare legami indesiderati dal regime. Però, poiché donne volontarie per questo “lavoro” non c’erano, molte furono costrette ad esercitarlo sotto la minaccia della vita.
La cosiddetta “Campagna di Russia” è una pagina vergognosa della storia italiana, che dovrebbe essere ricordata solo come uno dei crimini del fascismo che mandò a morire decine di migliaia di giovani in un’aggressione criminale che provocò all’URSS, secondo i dati più recenti diffusi dal governo russo, quasi 27 milioni di morti.
Per fortuna, fu anche l’evento che fece prendere coscienza a molti giovani, come Nuto Revelli, che partirono fascisti e tornarono partigiani.
Purtroppo sembra che tutto ciò sia dimenticato, a dispregio della vera memoria, in un momento di ripresa preoccupante del nazionalismo bellicista. Tra l’altro, il 26 gennaio è contiguo, per data, alla giornata della memoria delle vittime dell’Olocausto che è il 27 gennaio.
Non vorremmo che questa seconda, importante, data fosse sovrastata dalla prima in una pulsione nazionalista che appare quasi incontrollabile.
Note
1) Schlemmer T.: Invasori, non vittime, Bari, Laterza, 2019.
Fonte
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