Da qualche settimana è scoppiata una guerra tra Ucraina e Russia, che esplicita un conflitto che va avanti dal 2014 ed è infine sfociato in un’invasione da parte dei russi. Questa guerra coinvolge indirettamente anche gli Stati Uniti, la NATO e i Paesi UE, in un quadro internazionale segnato da un livello di conflittualità crescente, caratterizzato anche dalla tensione tra Stati Uniti e Cina.
Una delle reazioni del blocco occidentale è stato aumentare le ‘sanzioni’ economiche verso la Russia, colpendo transazioni economiche e finanziare, esportazioni e importazioni, escludendo in parte la Russia dalla rete di pagamenti internazionale SWIFT. Non siamo di fronte a una novità. Molti altri Paesi nel mondo sono sottoposti a ‘sanzioni’ più o meno forti da parte degli USA: Bielorussia, Cipro, Cina, Corea del Nord, Yemen, Iran, Iraq, Afghanistan, Siria, Cuba, Venezuela, Nicaragua, Eritrea, Libia, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, etc. Praticamente un terzo del mondo è sottoposto a questo tipo di sanzioni.
Un altro effetto collaterale di questa guerra è stato l’annuncio dell’aumento delle spese militari in vari Paesi europei, in particolare Germania e Italia, che rientra negli accordi sottoscritti all’interno dell’ambito della NATO ed ha già portato negli ultimi anni a un graduale incremento delle risorse dedicate alla difesa. Al di fuori dell’Europa, anche il Giappone ha incrementato la spesa militare, che era stata contenuta sin dalla sconfitta nella seconda guerra, come nel caso della Germania.
Un programma di riarmo a lungo termine come quello italiano o tedesco difficilmente potrà avere effetti nell’immediato di questa guerra, ma il maggiore impegno militare europeo deve essere letto nel senso di una riduzione delle risorse (militari) americane dall’Europa e dal confronto con la Russia, finalizzato a un maggiore impegno nei confronti della Cina, vera antagonista della potenza statunitense.
Anche mentre soffiano i venti di guerra, si muovono in parallelo e sullo sfondo dinamiche economiche fondamentali di cui proviamo a dare un’interpretazione. Negli ultimi decenni il sistema economico mondiale si è sviluppato in maniera globalizzata, basandosi su catene globali del valore, cioè un sistema complesso di filiere produttive estremamente estese e frammentate a livello geografico, che ha consentito una delocalizzazione produttiva a livello globale finalizzata a sfruttare al massimo il lavoro e i bassi salari diffusi nel Sud del mondo, eludere le normative sull’ambiente e ingannare il fisco. Per produrre una qualche merce, un pezzo viene prodotto in Cina, un altro in Messico, in Turchia, in Pakistan; i pezzi vengono montati a Singapore e spediti in USA, dove viene messo il marchio e organizzata la distribuzione e la vendita della merce, a un prezzo molto maggiore dei costi effettivi (inquinando il mondo aumentando l’uso dei trasporti). La costruzione dei moderni telefoni cellulari, per esempio, segue strade simili.
La Germania, “locomotiva d’Europa”, ha basato la propria crescita in questi anni sull’esportazione, comprimendo la domanda interna e vendendo i propri prodotti al resto dei Paesi europei, agli USA e alla Cina. La Germania importa materie prime dal resto del mondo (pensiamo al gas russo) e ha sviluppato una propria filiera con i Paesi dell’Europa dell’est.
Questo sistema globale sembra al tramonto. Gli USA sotto la presidenza Trump hanno cominciato ad opporsi alle politiche mercantiliste tedesche e alla fabbrica del mondo cinese, poi la crisi economica legata al Covid e le conseguenti chiusure a singhiozzo della produzione hanno colpito duramente questo sistema produttivo globalizzato. Si è infatti registrato sin dal 2021 un significativo aumento del costo delle materie provocato da molteplici fattori, tra cui i colli di bottiglia produttivi e logistici, la transizione ecologica, la speculazione finanziaria. Come se non bastasse, è arrivata la botta finale con la guerra.
Russia e Ucraina producono molte materie prime necessarie alle industrie occidentali, a cominciare dal gas. Il trasporto nel mondo costa sempre di più, essendo aumentato il prezzo della benzina e la rete di produzione sopra illustrata diviene sempre più costosa. Ma soprattutto un sistema come quello globalizzato presuppone un mondo in pace, o quantomeno unipolare. Un mondo multipolare, con blocchi contrapposti, guerre a bassa o media intensità e guerre economiche ad alta intensità potrebbe essere la premessa per una profonda trasformazione della globalizzazione degli ultimi decenni. Sempre più Paesi dovranno schierarsi con un pretendente o con l’altro, mettendo a rischio le relazioni economico-commerciali con gli altri blocchi. Al momento i Paesi schierati senza se e senza ma con gli USA sono l’Europa, il Giappone e l’Australia.
Ovviamente questi sono processi lunghi che si dipaneranno nel corso dei prossimi anni in forme e modi tutti da vedere. Ma il capitalismo, per usare una parola tanto di moda oggi, è resiliente. Qual è la soluzione per salvare i profitti? Paradossalmente potrebbe essere una versione particolare del keynesismo. Se le cose vanno male si chiede aiuto allo Stato. Ma che tipo di keynesismo? Certo i capitalisti non vogliono aumentare il welfare o migliorare la condizione dei lavoratori, sia mai che dopo chiedano un aumento salariale... Ma se ci sono venti di guerra, perché non le spese militari?
L’aumento della spesa militare è perfetto per il capitale, come brillantemente evidenziato da Kalecki. Più si spende in armi, più ci si sente forti e potenti, più servono armi, in un circolo vizioso senza uscita. Questo ciclo si autoalimenta e porta a un sempre maggiore utilizzo di armi, spingendo verso lo scoppio di nuovi conflitti, ad intensità crescente.
La spesa militare, tuttavia, non è facile da far digerire all’opinione pubblica e allora deve attivarsi il pervasivo sistema mediatico in appoggio di questa svolta. Soffiano sirene di guerra a tutto spiano, in una narrazione criminale e ansiogena finalizzata a convincere la popolazione della bontà di questa scelta, sempre indirizzata ad affermare i nostri alti valori morali comuni. Basta ci sia un mostro antidemocratico da qualche parte che per essere buttato giù richiede l’uso di quell’industria bellica. Non stiamo dicendo che Putin non sia un autocrate, con tutto ciò che ne consegue, ma che il blocco occidentale tende a nascondere gli interessi estremamente materiali e le opportunità di profitto che ogni conflitto porta con sé.
Parallelamente, in Italia già si levano voci che affermano che per fare queste spese militari bisogna tagliare un po’ di spesa pubblica improduttiva, magari qualche ospedale (come se non avessimo ancora centinaia di morti al giorno per la pandemia) o meglio ancora il reddito di cittadinanza: perché aiutare i poveri e dare loro una vita dignitosa, quando si possono costruire bombe con cui ammazzare altri poveri in giro per il mondo? Con la scusa della guerra si potrebbe eliminare una delle misure sociali più invise ai padroni italiani di oggi. Due piccioni con una fava.
Come grandi economisti del passato ci insegnano (per esempio Sweezy e Baran), i padroni preferiscono sempre le spese militari, perché hanno un portato politico non neutrale, ma anzi, evocano militarismo, ordine e disciplina, non di certo il tanto temuto (dai padroni) spettro del pieno impiego, con l’aumento di potere contrattuale per i lavoratori che ne conseguirebbe. Allo stesso tempo, la spesa pubblica militare non disturba e non interferisce con la penetrazione del capitale privato nei settori storicamente caratterizzati da una forte presenza pubblica, continuando a spartirsi la torta del Sistema Sanitario Nazionale, della scuola pubblica, delle telecomunicazioni, dell’energia.
In quest’ottica si può leggere il riarmo della Germania, nel tentativo di spostare la produzione da un modello legato all’esportazione a uno legato al keynesismo militare, in una specie di notte nera dove tutti i keynesiani sono neri e assetati di sangue del nemico. Compito della sinistra è condannare tutto questo e chiedere interventi volti al miglioramento delle condizioni del welfare e del benessere dei cittadini, nonché della pace e della solidarietà internazionale. Non tutti gli interventi pubblici sono uguali e la guerra non è mai un’opzione accettabile.
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