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09/09/2023

Patto di stabilità, anno zero

di Guido Salerno Aletta

A Bruxelles è ancora buio pesto: a poche settimane dalla scadenza del termine per la presentazione della NADEF, la Nota di Aggiornamento del DEF, non si conoscono ancora le regole del nuovo Patto di Stabilità, dopo la sospensione del Fiscal Compact e la sua definitiva messa in disarmo.

Si rientra nell'alveo dei Trattati europei, mettendo fine alla avventura iniziata nel 2012 con la disciplina speciale, dettata da un apposito Trattato internazionale, che prevedeva come obiettivi a medio termine il pareggio strutturale dei bilanci pubblici e l'abbattimento del debito eccedente il rapporto del 60% sul Pil al ritmo di 1/20 l'anno.

Si ritorna comunque ai due criteri fondamentali che sono stati elaborati fin dal Trattato di Maastricht, il limite del 3% al deficit e la riduzione tendenziale del rapporto debito/Pil eccedente il 60%, ma all'interno di una architettura più articolata che tenga conto su base pluriennale di fattori sia soggettivi che oggettivi: da una parte sarebbero tenuti maggiormente sotto freno i bilanci degli Stati maggiormente indebitati, e dall'altra potrebbero essere favorite alcune tipologie di investimento pubblico, ad esempio nel settore della transizione ambientale, della digitalizzazione e della difesa, che sarebbero scorporati dal calcolo del deficit.

Ci sono in corso dibattiti politici assai complessi, vista la grande eterogeneità delle situazioni contingenti: dopo la sospensione del Fiscal Compact a partire dal 2020 per via della emergenza sanitaria e poi dal 2022 a causa delle conseguenze della guerra in Ucraina, i conti pubblici della gran parte dei Paesi europei si sono gonfiati di nuovo debito.

Nel primo biennio, il 2020-2021, sono aumentate a dismisura le spese pubbliche finanziate in disavanzo per sostenere le famiglie e le imprese a fronteggiare la crisi economica derivante dalla pandemia; nel secondo biennio, il 2022-2023, sono aumentate in modo consistente quelle volte a sostenere i bilanci delle famiglie e delle imprese che si trovavano a fronteggiare un aumento enorme dei prezzi dei prodotti energetici, di quelli al consumo e alla produzione.

Ci sarebbe dunque da gestire innanzitutto una sorta di rientro verso la "normalità", ma viviamo in tempi di assoluta imprevedibilità sul versante geopolitico ed economico: nessuno sa prevedere come evolverà la situazione in Ucraina, quali saranno gli andamenti del prezzo internazionale del petrolio e del gas liquefatto, quale sarà l'impatto dell'aumento dei tassi di interesse sui bilanci di famiglie ed imprese.

È invece assolutamente certo l'abbandono di tutta l'architettura normativa e di quella tecnica a livello statistico e previsionale che era stata elaborata a partire dal 2012 al fine di presidiare gli obiettivi del Fiscal Compact.

Diviene così del tutto inutile la previsione dell'articolo 81 della Costituzione che fu modificato per introdurre l'obbligo del pareggio di bilancio, derogabile solo con un voto motivato a maggioranza assoluta; non si discuterà più dell'Output-gap, della distanza tra il Pil reale e quello potenziale, né del Nawru, che definisce il tasso di disoccupazione indispensabile al fine di evitare che le tensioni sul mercato del lavoro determinino richieste di aumenti salariali incompatibili con una crescita non inflazionistica dell'economia.

Questo è il segno dei tempi che sono cambiati radicalmente: lo Stato non è più un soggetto potenzialmente perturbatore degli equilibri dell'economia, che deve limitare al massimo la propria azione per non interferire con le dinamiche del mercato, ma diviene un soggetto dinamico, attivo, che ne deve guidare la crescita verso obiettivi sostenibili dal punto di vista ambientale e coerenti con la strategia geopolitica che vede l'Europa allineata ai driver statunitensi, in competizione tecnologica con la Cina e non più dipendente dalla energia proveniente dalla Russia.

Tra il dire ed il fare, c'è di mezzo il mare.

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