1. Tra pochi giorni prenderà avvio un nuovo anno scolastico. Ma la situazione che insegnanti, studenti e famiglie si ritroveranno a vivere sarà molto diversa da quella degli anni precedenti.
Nel silenzio pressoché totale di istituzioni, sindacati e organi di informazione sta infatti per entrare in vigore l’ennesima, distruttiva riforma della Scuola italiana, peggiore persino della “Buona Scuola” di Renzi.
Pianificata dal governo Draghi su mandato europeo e implementata in perfetta continuità dal Governo Meloni, fa parte a tutti gli effetti del PNRR, il piano straordinario di investimento dell’UE finalizzato a ridare fiato agli Stati membri provati dalla pandemia.
In realtà, il PNRR è un colossale piano di indebitamento delle nazioni europee, obbligate a trasformare le loro istituzioni, economie e società in direzione delle politiche sanitarie, alimentari, energetiche, digitali e, non ultime, anche belliche, decise dalle lobby d’Oltreoceano che detengono i brevetti delle relative tecnologie.
Mai come in questo frangente storico è risultato più palese l’asservimento delle élite nazionali ed europee agli interessi geopolitici statunitensi e all’avidità delle corporation che ormai ne detengono il controllo.
Prima la pandemia, ora la guerra contro la Russia, testimoniano senza mezzi termini l’assenza completa d’iniziativa e d’indipendenza dell’UE dagli interessi americani; ne svelano la funzione di “caporalato” nei confronti dei singoli Stati membri ridotti ormai a semplici colonie.
Ed è in questo contesto “neo-coloniale” che vanno lette le pesanti trasformazioni cui dà seguito il PNRR.
La transizione digitale, la transizione green, la rivoluzione sanitaria, la riforma scolastica e il riarmo europeo, di là della propaganda europeista che ce li vende come strumenti indispensabili per superare le continue emergenze di cui ormai consiste la nostra povera esistenza di sudditi, costituiscono in realtà le leve di fondo di un programmato smantellamento delle democrazie liberali, con le loro garanzie costituzionali, lo Stato sociale, la difesa del Lavoro e la partecipazione delle masse alle dinamiche di governo.
Prerogative divenute ormai troppo dispendiose nel nuovo scenario geopolitico occidentale polarizzato verso i colossi asiatici, che all’UE figlia della NATO non viene più concesso di esercitare.
Le enormi risorse economiche liberate dalle suddette “riforme” sono drenate a vantaggio delle lobby atlantiste che si contendono il potere economico mondiale coi loro omologhi dell’estremo Oriente, in un pericoloso risiko a precipizio verso la guerra mondiale.
Queste riforme non sono più semplicemente “promosse” presso partiti politici o singoli deputati attraverso il lobbismo classico (com’era in uso prima della pandemia), con tutte le lungaggini, le disarmonie e i connessi rischi degli iter parlamentari nazionali, ma sono direttamente comandate per conto terzi a tutti gli Stati membri dalla Commissione Europea, che lavora in completa assenza di sindacato democratico.
È il vantaggio offerto dallo stato d’emergenza permanente. Lo choc pandemico, infatti, ha accentrato l’informazione, terrorizzato l’opinione pubblica, piegato gli scrupoli istituzionali, spezzato le garanzie costituzionali, azzerato ogni forma di dissenso.
Chi non accetta le “riforme” si situa perciò stesso al di fuori del perimetro della legittimità politica, mediatica, culturale del consesso civile: è nemico pubblico in una guerra civile latente e non dichiarata interna alle singole nazioni europee, come lo sono stati coloro che hanno rifiutato il Greenpass per vivere.
Sono riforme, queste, da implementarsi – come avviene in ogni colonia – semplicemente per via amministrativa, senza cioè passare al vaglio democratico dei popoli, ormai espropriati della loro sovranità.
Né possono essere fermate dalla magistratura, esautorata nella sua precisa funzione istituzionale da un quadro nazionale molto distante ormai da quello incorniciato oltre settant’anni fa dalla nostra Costituzione, perché in buona parte ormai incardinato in vincoli giuridici sovranazionali.
È il caso dell’attuale riforma scolastica, anch’essa a quanto pare resasi indispensabile dopo i disagi della pandemia, senza che nessuno però ce ne abbia mai chiarito il perché.
Si compone di quattro nuovi pilastri introdotti nell’edificio dell’Istruzione italiana con il probabile scopo di poter abbattere a tempo debito tutti gli altri, resi inutili.
È un’operazione portata avanti senza clamore con interventi normativi allegati a semplici decreti-legge, senza il vaglio parlamentare o un vero dibattito pubblico. Vale a dire con mezzi e finalità palesemente incostituzionali.
2. Il primo “pilastro” riguarda la trasformazione fisica degli ambienti di apprendimento (100.000 aule) grazie a una forzata iniezione di tecnologia di ultima generazione: dispositivi informatici personalizzati, schermi multifunzione, intelligenza artificiale, realtà aumentata, stampanti 3D, ecc.
È il cespite più consistente dell’iniziativa: circa i ¾ degli investimenti previsti. Entro Natale 2022 tutte le scuole sono state “caldamente invitate” dal Ministero a fare incetta di strumentazioni high tech per il massimo degli stanziamenti virtuali disponibili (cioè a contribuire sconsideratamente al Debito pubblico), indipendentemente dalle dotazioni pregresse, dalla reale capacità di fruizione delle nuove, dalla loro utilità per il tipo di scuola, ecc.
Il resto dei finanziamenti servirà per “smontare” le aule tradizionali e riqualificarne l’apertura al mondo attraverso banchi a rotelle, aule-laboratorio, ambienti virtuali, ecc.
Questa trasformazione della scuola è funzionale ad una vera e propria rivoluzione pedagogica sul piano dell’apprendimento, che non dovrà essere più “frontale” e meramente “cognitivo” (come se lo fosse mai stato!) ma multilaterale ed esperienziale. È il concetto di apprendimento “ibrido”.
Saranno incentivate le situazioni d’apprendimento collaborativo e la didattica “concreta” (simulata però da IA e spazi virtuali!) finalizzata alla creazione di prodotti informatici, servizi digitali e start-up innovative.
L’approccio sarà work based learning e gli spazi dovranno essere disegnati “come un continuum fra la scuola e il mondo del lavoro”.
Solo in questo modo, cioè anticipando il lavoro, lo studente potrà imparare veramente qualcosa e costruire fin da subito il suo percorso professionale!
Si tratta insomma di una macroscopica riconversione della Scuola italiana alle finalità di un mercato del lavoro ormai globalizzato e virtualizzato, bisognoso di operai con una nuova alfabetizzazione, questa volta digitale, funzionale ai bisogni neocolonialisti dei colossi BigTech che ci dominano.
3. Sarà dunque il lavoro – e non più la formazione dell’individuo – la nuova finalità dell’istruzione. Da passaggio fondamentale per la scoperta di sé attraverso la trasmissione sociale del sapere, la Scuola sarà svilita a componente della riforma del lavoro, sollevando le aziende dall’onere di selezionare e formare il proprio personale.
La riforma introduce infatti due nuove figure di insegnanti (la seconda grande novità): il docente Orientatore e il docente Tutor. Con compiti, l’uno, di aiutare lo studente nella scelta precoce della futura professione e, l’altro, di consigliarlo nei percorsi di apprendimento liberi ad essa più adeguati.
Nel nuovo scenario scolastico, infatti, non tutti studieranno tutte le materie previste dal curricolo o non tutti nello stesso modo o negli stessi tempi, ma ciascuno in base alle sue presunte esigenze e preferenze, così da “avvantaggiarsi” sul percorso professionale prescelto.
Una scuola à la carte, insomma, nella quale studiare solo ciò che aggrada o è stato inculcato come preferibile, più “utile” al nostro futuro.
Questi due insegnanti dovranno infatti operare negli anni una vera e propria profilazione lavorativa dello studente. La strategia propagandistica fa leva sulle idee di “personalizzazione” dell’apprendimento contro l’omologazione attuale, di “libertà” di scelta del singolo contro la coercizione dell’istituzione, di “collaborazione” Stato-famiglie per garantire ai giovani un futuro lavorativo, ecc.
Ripropone cioè tutte le caratteristiche della scuola pre-repubblicana, funzionale ad una società gerarchizzata e competitiva che intende la libertà nella sua accezione più elementare di “scelta” pragmatica (non importa quanto condizionata).
Si misconoscono completamente le ragioni storiche dell’attuale assetto costituzionale della Scuola, che proprio quel tipo di società intendeva superare.
Cioè la possibilità offerta dallo Stato ad ogni cittadino di godere degli stessi percorsi d’istruzione indipendentemente dai condizionamenti della situazione familiare, economica o sociale di partenza; di educare cittadini consapevoli e attivi, che esercitino diritti e doveri come contributo alla res publica, e non egoisticamente; di formare persone libere, cioè in grado di perseguire fini che nascono dal più autentico Sé e non da invisibili condizionamenti ideologici o economici.
Nel tempo queste due nuove figure esproprieranno il Consiglio di Classe della prerogativa di condurre in modo concertato il progetto formativo relativo al singolo studente e di valutarne progressi o ritardi, secondo l’attuale prassi pedagogica che mira alla globalità della persona.
Sarà di fatto conferito loro il potere di limitare la libertà d’insegnamento altrui per implementare una pluralità di percorsi differenziati nelle stesse classi, un patchwork ritagliato sulle esigenze delle aziende e di famiglie blandite nell’illusione di potersi finalmente sostituire a quei docenti ritenuti incapaci di comprendere le potenzialità dei loro figli, i loro nascosti “meriti”.
4. La difesa del merito – di studenti e insegnanti – è in effetti il terzo pilastro della riforma, come del resto programmaticamente annunciato dal Governo Meloni fin dal nuovo nome del Ministero dell’Istruzione, divenuto pure “del Merito”.
Chi potrà dirsene contrario senza autodenunciarsi come immeritevole? Si tratta in realtà di un tentativo, già compiuto da altri governi, di introdurre criteri di valutazione del lavoro completamente spurii rispetto ai doveri contrattuali e costituzionali del docente italiano, per il cui rispetto tra l’altro esistono già adeguate procedure disciplinari.
Con la nozione di “merito” si vorrebbe misurare l’efficacia prestazionale del docente, la sua “bravura”, per intenderci.
Si finge qui di non sapere che ad ogni ruolo della pubblica amministrazione si accede per concorso; vale a dire dopo aver superato una selezione per titoli e prove che stabilisce una volta e per sempre l’idoneità e la legittimità – dunque il merito – di ricoprire quel ruolo.
Come parametro di natura eminentemente soggettivo la “bravura” non può costituire un requisito per insegnare, più di quanto non accada per le altre professioni del settore pubblico. E ciò per un banale principio di neutralità delle selezioni pubbliche teso ad evitare parzialità e corruzione.
L’insegnante meritevole è semplicemente quello che si attiene al suo dovere, che è anzitutto di trasmettere in scienza e coscienza il suo sapere. Così come lo studente meritevole ha il dovere di apprendere, per sé prima che per comando. Non c’è altro né può esserci, se vogliamo che l’istruzione resti libera.
Del resto, nessun altro criterio di giudizio può essere più significativo per un insegnante dell’apprezzamento ricevuto da studenti, famiglie e colleghi; che tuttavia resta e deve restare di natura esclusivamente morale, se non vuol trasformarsi in un indebito strumento di lusinga o di pressione. Come invece farebbe certamente comodo ad una classe politica tra le più immeritevoli al mondo.
È fin troppo chiaro infatti quale sia la vera finalità di questo sbandierato progetto di valorizzazione del merito. Anzitutto, acquisire un’arma di ricatto contro la libertà professionale degli insegnanti costituzionalmente garantita (art. 33).
Ogni nuovo regime cerca infatti di consolidarsi sottomettendo ai propri fini l’Istruzione e chi la esercita, così da conseguire una (pseudo) legittimazione sociale prima ancora che politica.
Cancellando il principio della fedeltà alla propria coscienza che è tipico delle “professioni togate”, si vuole insomma trasformare gli insegnanti in semplici impiegati della pubblica amministrazione, per renderli più organici al potere.
Non a caso analoghe ipotesi di riforma sono in fieri anche per i medici e i magistrati. L’introduzione del criterio del “merito” è funzionale proprio a questa cancellazione, attraverso la dipendenza che si verrà a creare tra gli insegnanti e i dirigenti che dovranno valutarne la bravura.
Sottoposti già da alcuni anni ad un analogo sistema di valutazione da parte del Ministero che li spinge a confondere spesso i propri doveri nei confronti dello Stato con l’obbedienza al Governo, i dirigenti scolastici fungono infatti sempre più da “catena di trasmissione” nei confronti della “truppa” dei docenti.
Alla condizione di assoggettamento etico e professionale degli insegnanti si arriverà probabilmente correlando al merito lo stipendio, il punteggio interno alla scuola e quello esterno per i trasferimenti.
Così i veri doveri dell’educatore (preservare dalle ingerenze del potere la libertà del sapere e i suoi effetti emancipatori sui discenti), saranno doppiati e sostituiti dal merito di un’adesione incondizionata al nuovo sistema socio-pedagogico.
5. Quest’ultimo – e veniamo così al quarto “pilastro” della riforma – prevede lo stravolgimento delle finalità educative della Scuola italiana, reindirizzate e rimodulate a favore della transizione digitale pilotata in Occidente dalle BigTech statunitensi.
Le finalità umanistiche e “liberali” dei tradizionali curricoli scolastici lasceranno il posto a quelle utilitaristiche della formazione tecnologica, funzionale alla creazione di un vasto proletariato di nuova concezione.
Con il pretesto (certamente allettante per le famiglie plagiate dai valori consumistici) di fornire ai giovani un’istruzione “al passo coi tempi”, si priveranno le nuove generazioni di un enorme capitale culturale forse unico al mondo, selezionato nei secoli per farne uomini e donne liberi.
Blanditi nell’idea di veder trasformati i propri limiti cognitivi e caratteriali in meriti non ancora scoperti e valorizzati, gli studenti saranno inseriti in percorsi ad hoc interni alle singole scuole (che così perderanno le loro specificità) con l’illusione di formarsi a lungo termine per un mondo del lavoro che invece cambia ogni sei mesi.
Anche le famiglie beneficeranno dell’illusione di essere maggiormente coinvolte nei processi didattici dei propri figli, finalmente non più considerati bisognosi di umilianti “bisogni educativi speciali” (BES) nel mosaico di percorsi personalizzati divenuti normalità.
Naturalmente si chiederà anche agli insegnanti di adeguarsi ai tempi, adattando le loro conoscenze didattiche agli strumenti e alle finalità delle nuove onnipresenti tecnologie informatiche, secondo i voleri insindacabili dell’UE (vedi Quadro di riferimento europeo per le competenze digitali dei docenti, il “DigCompEdu”).
Inseriti in un sistema europeo di riconoscimento delle competenze digitali, saranno valutati (e domani stipendiati) secondo una precisa scala di bravura didattica con tanto di titolo distintivo: A1) Novizio; A2) Esploratore; B1) Sperimentatore; B2) Esperto; C1) Leader; C2) Pioniere.
In altre parole, non saranno più riconosciuti come professionisti tutti ugualmente “sapienti” nelle loro rispettive materie, ma incardinati in una gerarchia di valore (e di diritti) di natura prettamente tecnica, che confonde i fini del loro lavoro con gli strumenti utilizzati per conseguirli.
Concludiamo con un paradosso.
Il grottesco di questa riforma della Scuola – nella quale insegnanti studenti e famiglie convergeranno macchinalmente verso un mondo senza libertà, che non sia quella concessa loro – non può soffocare una sarcastica considerazione: valeva la pena percorrere tutto il cerchio dell’ideale democratico per tornare al “MinCulPop”, ai Balilla e ai Lupetti da cui proveniamo? – E allora vogliamo pure i Colonnelli!
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