Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

06/03/2024

Palestina - L’inganno della soluzione dei due Stati

di Bassam Saleh

All’improvviso, la coscienza morale e politica americana si è svegliata, insieme a quella europea, per predicare ancora una volta ai palestinesi e agli arabi il progetto statale promesso, nel quadro di quella che divenne nota come la soluzione dei due Stati.

Ciò accade dopo l’assenza o l’assenza deliberata, per un lungo periodo, del concetto di Stato palestinese, dal dizionario politico e diplomatico americano/europeo, e dopo anni di totale ignoranza del dossier palestinese, a favore di ciò che è noto come gli accordi del secolo e i loro derivati, e dopo quasi due decenni dall’uccisione del leader Yasser Arafat, “sull’altare” dello Stato di Oslo, da cui non si è ottenuto nulla.

Pochi giorni prima dell’operazione Al-Aqsa Flood, il Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Jack Sullivan aveva dichiarato che “il Medio Oriente è diventato più calmo che in qualsiasi momento degli ultimi 20 anni”, sottolineando, nello stesso contesto, la capacità degli Stati Uniti di concentrare le sue priorità strategiche al di fuori del Medio Oriente. L’implicito in questo discorso è che non c’è più bisogno di fare “concessioni” e complimenti ai palestinesi finché è possibile muoversi su altri fronti nella regione a prescindere dai palestinesi.

È ormai radicato nella mente dei potenti americani, e ovviamente israeliani, che la linea di normalizzazione attraverso gli “Accordi di Abramo” non ha bisogno di parlare di questioni che riguardano lo Stato palestinese, le colonie, Gerusalemme e altre questioni spinose sospese. L’importante è che la locomotiva della normalizzazione con gli arabi si muova nella direzione desiderata.

È necessario quindi togliere di mezzo le problematiche dei palestinesi, anche se questo significa che gli “arabi” raggirano i palestinesi e li stringono in una tenaglia tra le opzioni dell’isolamento o dell’adattamento in una nuova situazione governata da equilibri di potere più grandi di loro.

Il presidente Biden non è d’accordo con il suo predecessore Trump in quasi tutto ciò che riguarda la politica interna ed estera americana, ma è rimasto coerente con le politiche di Trump per tutto ciò che riguarda la questione palestinese e mediorientale, compreso quello che era noto come l’accordo del secolo. Accordo che Trump ha iniziato con suo genero Kushner, e che Biden ha confermato e sviluppato in seguito come una conquista sulla quale proseguire anche il lavoro per portare più paesi arabi nella casa dell’“obbedienza abramitica”.

Questo ci indica che esiste una costante immutata nella fluttuante agenda americana per il Medio Oriente e che fa perno su Israele in quanto centro regolatore dei movimenti della regione e delle sue tendenze future.

Ma cosa è cambiato perché la questione di uno Stato palestinese o di una soluzione a due Stati riaffiori improvvisamente alla superficie nel discorso americano ed europeo, e venga ripetuta in ogni momento dai loro politici? Ciò che è cambiato, secondo me, è che lo shock del “Diluvio di Al-Aqsa” ha ricordato a tutti che la teoria della deterrenza israeliana, nonostante la sua importanza, si è erosa e non fornisce più una garanzia adeguata per la sicurezza e la continuità dello Stato di Israele.

È emersa l’incapacità di Israele di bloccare l’attacco proveniente da Gaza nei tempi previsti, e questo ha motivato più che mai gli americani e i loro alleati circa la necessità di proteggere Israele non solo dai palestinesi, ma anche dai pericoli regionali, ricorrendo a nuove/vecchie tattiche, invece di fare affidamento esclusivamente sulla pura forza militare.

Ciò che attira l’attenzione qui è che la soluzione dei due Stati non appare nel discorso americano-europeo dalla prospettiva del suo legame con i palestinesi e le loro aspirazioni alla sovranità e al diritto all’autodeterminazione, come nel caso di tutti i popoli che sono state sottoposti a occupazione straniera, ma piuttosto come la migliore garanzia per la sicurezza e l’incolumità di Israele.

Ciò che importa è quindi la sicurezza di Israele, come se fosse una vittima dell’occupazione palestinese e araba, e non una potenza di occupazione e aggressione.

Le diverse amministrazioni americane, e Israele, si sono abituate a selezionare le iniziative e le posizioni arabe che rispondono alle loro priorità e ai loro calcoli in Medio Oriente.

Quando Riyadh presentò la sua iniziativa araba al vertice di Beirut nel 2002 con il titolo “Terra in cambio di pace”, gli Stati Uniti e Israele hanno visto in quella proposta solo un’opportunità per espandere l’arco della normalizzazione, e ogni volta che Washington esamina posizioni e iniziative arabe, risponde immediatamente: “Grazie per il tuo impegno in queste posizioni, ma... è tutto qui?”

Fin dalle prime ore del “Diluvio di Al-Aqsa”, Biden non ha esitato a lanciare una linea aerea aperta e diretta, per rifornire Israele di munizioni e di tutti i tipi di armi strategiche e tattiche, proibite e non, di cui il suo piccolo alleato ha bisogno.

Fin dai primi giorni è stato fornito a Israele un sostegno finanziario eccezionale, 14 miliardi di dollari in un colpo solo, per non parlare delle generose donazioni e degli aiuti successivi.

Inoltre, Biden si astiene ancora dal chiedere, implicitamente o dichiaratamente, un cessate il fuoco, e per la terza volta la sua amministrazione ha usato il potere di Veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per impedire che passassero proposte di risoluzione al riguardo, senza parlare dei precedenti in cui i progetti erano stati esclusi addirittura prima di essere presentati al Consiglio.

Ovviamente non ha risparmiato sforzi per scagionare lo stato aggressore dall’accusa di genocidio a cui è sottoposto presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

Anche gli europei hanno ripreso dagli USA la parola d’ordine della soluzione dei due Stati.

Improvvisamente tutti si sono uniti nel linguaggio intorno alla richiesta di uno Stato palestinese, compresi i tedeschi, la cui posizione è quasi una copia delle posizioni del primo ministro della potenza occupante Netanyahu, e anche gli inglesi, che fanno un unico coro congiunto con la Casa Bianca per quanto riguarda le questione del Medio Oriente.

La soluzione dei due Stati verrà ricordata come una parola magica che viene usata, spesso senza senso in dichiarazioni, in modo appropriato e anche a sproposito.

Dopo un attento esame, è chiaro che la soluzione dei due Stati rientra in quella che per gli americani è la loro visione riguardo al giorno successivo, cioè il futuro. Questo si traduce nel creare/rafforzare accordi di sicurezza politica tra Israele e il resto de Medio Oriente, consentendo così la realizzazione del “Grande Israele” come punto cardine della regione.

Per raggiungere lo scopo le capitali arabe vengono riunite attraverso complessi e intrecciati meccanismi di sicurezza, intelligence ed economici con Israele, al punto che è impossibile staccarsene.

Con il denaro arabo riciclato nella catena di questo enorme sistema, che deve essere costruito, nel quadro di quello che Shimon Peres ha definito nel suo libro “Il Nuovo grande Medio Oriente”, si propone un connubio tra denaro arabo e intelligence israeliana, ovvero la riproduzione del progetto egemonico americano-israeliano, adattando le dinamiche interne e il tessuto delle relazioni guidate da Tel Aviv, senza la necessità di dipendenza continua e permanente da un surplus di potenza militare.

Questo significa bloccare la strada a qualsiasi possibile espansione Cinese o Russa nella regione, e quindi aggirare il progetto della Via della Seta, nel quale i cinesi sono coinvolti da decenni e su cui hanno speso centinaia di miliardi.

Parallelamente significa anche iniziare a gestire la linea congiunta mare/terra che si estende tra l’India e il Golfo, e da lì verso l’Europa.

Gli eventi di Gaza hanno dimostrato l’importanza di questa linea, soprattutto dopo l’assedio imposto recentemente dagli yemeniti sul Mar Rosso e Bab al-Mandab.

È chiaro che c’è una differenza tattica tra Washington e Tel Aviv, ma che non influenza le opzioni e le strategie principali. L’obiettivo comune è porre fine alla Resistenza palestinese e prosciugarne le fonti, anche se ciò richiede l’imposizione di sfollamenti.

Non è un segreto che il segretario di Stato americano Blinken, quando ha visitato diverse capitali arabe, dopo che i carri armati israeliani si erano spostati verso Gaza, stava portando avanti nella sua valigia diplomatica l’approvazione del progetto di sfollamento, ma è stato costretto, successivamente, a dichiarare il contrario di ciò che aveva nascosto, dopo aver incontrato una certa resistenza da parte degli arabi.

E quando oggi la Casa Bianca dichiara di opporsi all’espansione delle operazioni militari israeliane verso Rafah senza un piano realizzabile, ciò si traduce in un’approvazione pratica dell’attacco purché questo avvenga con un piano realizzabile, cioè razionalizzando gli obiettivi israeliani e rendendoli relativamente più leggeri per la popolazione civile, evitando così imbarazzi soprattutto di fronte alla crescente pressione dell’opinione pubblica mondiale e alle decisioni della Corte Internazionale di Giustizia.

Ma l’importante per loro è che il piano vada avanti sul campo, verso l’obiettivo desiderato, con alcune dichiarazioni ingannevoli che esprimono fastidio e ansia e l’invio di inviati americani nella regione.

La fonte del disaccordo tattico, è che Netanyahu e i suoi alleati della destra ebraica sono immersi nei dettagli della scena palestinese e insistono su un maggiore controllo della Cisgiordania e all’interno della Linea Verde (dove vivono i palestinesi all’interno di Israele) e sull’espansione degli insediamenti coloniali, mentre gli occhi di Biden sono focalizzati su un panorama più ampio e importante, cioè lo scenario complessivo del Medio Oriente e oltre, e vuole riprendere la missione da dove si era fermata per il “Diluvio di Al-Aqsa”.

Il primo obiettivo è portare l’Arabia Saudita nello spazio aperto dichiarato della normalizzazione, nella speranza che trascini con sé il resto dei paesi arabi e islamici, per poi confondere il campo del rifiuto dei paesi e delle forze popolari, e procedere di conseguenza con l’organizzazione.

Per costruire questo sistema egemonico americano si richiede la creazione di nuove dinamiche nella regione che consentano la produzione e la riproduzione del controllo di Israele, mentre la priorità di Netanyahu è focalizzata sulla protezione del suo governo dalla caduta e sulla protezione di sé stesso dalle prove e dalle responsabilità giudiziarie che lo attendono.

Ciò che complica la situazione è che Netanyahu non vuole dare all’amministrazione americana un’ancora di salvezza per far passare il suo progetto, anche vendendo l’illusione e accettando formalmente l’esistenza di uno Stato palestinese “virtuale”, che aiuta a guadagnare tempo, ad espandere il margine di manovra e trovare nuovi equilibri attraverso la normalizzazione.

Gli Stati Uniti, possono non essere d’accordo con l’indisciplinato Netanyahu, su alcuni dettagli e metodi, ma sono d’accordo con lui sulla necessità di portare a termine la missione e inviare messaggi forti ai paesi arabi alleati, prima di quelli nemici, primo fra tutti l’Egitto e la stessa Arabia Saudita, che non hanno altra scelta se non quella di controllare il loro comportamento politico alla luce della superiorità americana e israeliana, e alla situazione di Gaza e come si è ridotta, e poi acconsentire al progetto presentato, chiudendo le porte e le finestre a qualsiasi scommessa, cooperazione o gioco sugli equilibri tra Washington, Pechino e Mosca nel prossimo o lontano futuro.

Tutto ciò di cui l’amministrazione americana ha bisogno, in questo momento è vendere promesse per un gelatinoso Stato palestinese privo di sovranità. Sa, prima di chiunque altro, che si tratta solo di un miraggio, ma è un miraggio di cui proprio il sistema arabo ufficiale ha bisogno.

I regimi ne hanno bisogno per giustificare la normalizzazione, sostenendo così di aver ottenuto un vantaggio importante per i palestinesi, e che tutto ciò si basa sul fatto che i governanti arabi hanno fatto concessioni per il bene della Palestina e dei palestinesi!

Tutti i movimenti indipendentisti, iniziano innanzitutto con il progetto di liberazione e di conquista della sovranità, poi lo Stato viene come titolo di autodeterminazione, tranne che nel caso palestinese, si intende mettere il carro davanti ai buoi, cioè dichiarare lo Stato come progetto e sbarrare la strada alla domanda di liberazione stessa svuotando il concetto di Stato del suo contenuto.

È chiaro che l’idea di una soluzione a due Stati è un grande inganno come quello ordito nei confronti di Sharif Hussein, al quale gli inglesi avevano promesso di assumere la guida di un grande stato arabo che includesse l’Hijaz, la grande Siria, e il Levante arabo. Si trovò esiliato nell’isola di Cipro, senza terra, né unità, né altro...

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento