Cauto ottimismo in Libano dopo la dichiarazione rilasciata lo scorso
venerdì dal leader del movimento "Futuro" Saad Hariri di essere
finalmente pronto a partecipare a un governo di coalizione che includa
anche il nemico di sempre Hezbollah. Il compromesso è arrivato dopo una
settimana di intensi colloqui tra le tre principali forze politiche del
Paese per trovare una soluzione definitiva alla crisi politica apertasi
lo scorso marzo con le dimissioni del primo ministro Najib Miqati.
Cauto, perché se la dichiarazione di Hariri è suonata a molti come la
benedizione definitiva alla formula promossa dal blocco centrista di un
governo di unità nazionale secondo la tripartizione "8-8-8" degli
incarichi ministeriali, sono ancora molte le questioni in sospeso in
grado di far nuovamente saltare il tavolo.
In cima alla lista c'è il mantenimento del famigerato trinomio
«popolo, esercito, resistenza» nella dichiarazione ministeriale a
fondamento del governo a venire. Inserita per la prima volta nel
2009 proprio da Saad Hariri per ottenere la fiducia necessaria a dare il
via libera in parlamento all'insediamento di un governo di unità
nazionale posto sotto la sua guida e reiterata da Miqati dopo essergli
subentrato nel 2011, essa ha fornito di fatto a Hezbollah la
legittimazione necessaria per mantenere il pieno ed esclusivo controllo
sulle sue milizie e sui suoi armamenti. Una legittimazione alla quale
quest'ultimo non intende rinunciare tanto più in virtù del suo
coinvolgimento diretto nel conflitto siriano dal maggio del 2013 a
fianco delle truppe di Bashar al-Assad, ma che allo stesso tempo
rappresenta il limite invalicabile posto dalla coalizione rivale,
rigorosamente anti-regime, in nome del rispetto della Dichiarazione di
Baabda sottoscritta nel giugno 2012 da tutte le forze politiche che
aveva sancito la neutralità dello stato libanese rispetto al limitrofo
conflitto.
In secondo luogo c'è la questione dei criteri di assegnazione dei
ministeri-chiave tra i tre blocchi politici che entrerebbero a far parte
del nuovo esecutivo. La proposta avanzata dalla coalizione del 14 Marzo
e ribadita sabato dal leader falangista Amin Gemayel è quella di una
rotazione periodica degli incarichi tra i candidati afferenti alle tre
coalizioni. Nessun accordo tuttavia è stato raggiunto né sulla rosa
di nomi da presentare, né sui tempi che dovrebbero scandire la
turnazione dei vari ministeri. L'8 marzo dal canto suo, continua a
glissare, subordinando la questione all'accettazione del trinomio da
parte della coalizione rivale.
La giornata di oggi potrebbe tuttavia riservare sorprese inaspettate. Proprio
oggi infatti scade l'ultimatum lanciato dal presidente della repubblica
Michel Sulaiman alle varie forze politiche per trovare un accordo per
procedere alla formazione di un governo di unità nazionale. Qualora il
termine non venisse rispettato, l'ipotesi del governo di unità nazionale
verrebbe definitivamente accantonata in favore della nomina di un
governo tecnico interamente di sua scelta.
Difficile capire quanta concretezza ci sia dietro quest'ultima
affermazione. Il presidente Sulaiman è infatti perfettamente consapevole
che un governo tecnico non otterrebbe mai dal parlamento la fiducia
necessaria per poter portare a termine il compito di guidare il paese
alle prossime tornate elettorali. Allo stesso modo è perfettamente
consapevole che una scelta in tal senso verrebbe interpretata dall'8
Marzo e dai suoi militanti come un imperdonabile ingerenza in favore
della coalizione avversa, essendo il governo tecnico il piano A
presentato nei mesi scorsi dal fronte del 14 Marzo per isolare
definitivamente Hezbollah in patria e neutralizzarne l'influenza negli
affari siriani. In ogni caso il sasso è stato lanciato, e qualora
venisse davvero seguito dai fatti, rappresenterebbe una minaccia per la
legittimità del Partito di Dio ben più grave rispetto alla volontaria
rinuncia alla formula «popolo-esercito-resistenza».
Per adesso, mentre le trattative continuano con lo sguardo tra Teheran, Riyadh e Leidschendam a Baabda tutto tace.
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