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19/01/2014

Sulle tracce della classe

Forse posso dare un modesto contributo alla ricerca della classe smarrita. Con una precisazione iniziale: la ricerca non ha per noi alternative per una questione di elementare coerenza con la premessa del nostro lavoro politico. Rivoluzionaria dovrebbe essere una persona che nutre almeno un minimo di speranza nella possibilità di cambiare il mondo nel senso dell’uguale libertà. E il mondo non cambia, se non c’è una classe che, in qualche modo ed entro certi limiti, si fa carico del cambiamento.

Una traccia può essere individuata nel mutamento dell’immaginario che vede la società divisa in classi in modo tale che, con criteri di definizione scientificamente adeguati e con efficaci mezzi di inchiesta, si possa tracciare una sorta di architettura, mettendo ciascun gruppo al suo posto. Chi sopra, chi sotto e chi nel mezzo o magari dietro, come residuo di modi di produzione precedenti.
Questa visione viene presto invalidata da due semplici constatazioni. La prima è che non si sa mai dove operare il taglio. Il rapporto con la produzione e la distribuzione di ricchezza è infatti rappresentato da un gran numero di posizioni diverse ma assai vicine l’una all’altra. La seconda constatazione è che le classi presunte non agiscono quasi mai secondo la classificazione e risultano perciò delle astrazioni prive di carne e di sangue, e quindi politicamente inutilizzabili.

Bisognerebbe invece pensare le classi come formazioni solide su una realtà sociale liquida e mucillaginosa, ben prima che Bauman e il Censis utilizzassero le due definizioni. Solide non vuole dire permanenti. Le classi nascono e muoiono, si densificano, si cristallizzano, si frantumano, si sfarinano, si liquefano. Oppure in altri modi si trasformano, diventando profondamente diverse da se stesse. Per il complesso della società vale quello che scriveva Thompson, cioè che la classe è un rapporto e non una “cosa” o un “fatto”. Ma le formazioni solide, cioè i gruppi sociali capaci di pensiero politico e che decidono, organizzano, confliggono ecc. sono invece cose e fatti, individuabili nei corpi, nei confini, nei centri di potere, nelle istituzioni.

Altre, importanti, tracce si trovano in Marx purché non le si cerchi dove non si trovano. Il Moro aveva tra i suoi ambiziosi progetti di ricerca – a cui si oppose la durata della vita umana – l’elaborazione di una teoria delle classi, che non ebbe mai il tempo di affrontare, anche perché i numerosi acciacchi di cui soffriva lo spedirono al cimitero londinese di Highgate con qualche anno di anticipo. Ma anche se non elaborò una teoria, disseminò i suoi scritti di indizi in grado di rendere meno difficili le indagini successive, in tempi assai lontani dal suo.
 

Apro qui una parentesi, servendomi per comodità di un testo di Roberto Fineschi pubblicato nella raccolta di interventi nel convegno Pensare con Marx ripensare Marx (Alegre, 2008).
Fineschi spiega in che cosa consiste la storicità del Capitale. Se storia significa solo narrazione dell’avvenimento, allora il Capitale oggi non serve più a niente perché parla degli operai del XIX secolo e non del mondo contemporaneo. La sua storicità consiste invece nell’individuazione di un tempo proprio del capitale, di una sua immanente logica interna. Le descrizioni storiche nel senso della narrazione sono solo esempi empirici di leggi logiche.
E’ per questo – potremmo aggiungere – che 150 anni dopo di fronte ai fenomeni della mondializzazione, della finanziarizzazione e della crisi, gli stessi avversari di classe possono rendergli omaggio, riconoscendo l’utilità di conoscere la sua opera per comprendere se stessi e il modo di produzione che incarnano.

La premessa teorica è importante perché libera il campo dalle posizioni che riducono la storicità del Capitale alla generalizzazione di fatti storici ottocenteschi. Con due effetti opposti. Con l’effetto di continuare a pensare i rapporti sociali in un’ottica incapace di tenere conto del presente o con quello di un abbandono del marxismo per la sua presunta incapacità di tenerne conto.
Questo concetto di storia, per il suo livello di astrazione, non spiega le dinamiche reali, per pensare le quali è necessario scendere a un livello di astrazione più basso, includere analisi dettagliate che non riguardano il modo di produzione capitalistico in quanto tale ma “i capitalismi” determinati fattualmente, geograficamente e via dicendo. La ricerca storiografica, la storia degli storici è perciò fattibile, quando si sa che cosa significa modo di produzione capitalistico, quali sono i suoi presupposti e le sue dinamiche.

Anche i rapporti di classe evidentemente rispondono a una logica specifica e anche per questi è necessario distinguere tra quella logica, propria del capitalismo in ogni tempo e in ogni luogo, e le formazioni economico-sociali. Fineschi insiste particolarmente sul concetto di sussunzione del lavoro al capitale (sussumere significa integrare in posizione subalterna, assoggettare, inserire in un ordine gerarchico) come logica di fondo che ha determinato le trasformazioni del modo di produrre nel capitalismo. E chiama “determinazioni di forma sotto il capitale” le manifestazioni del processo di sussunzione: la cooperazione e l’essere parte, il cui carattere sociale si realizza tuttavia come forma fenomenica del capitale; un rapporto specifico con il sistema delle macchine, di cui il lavoratore è diventato appendice; la crescita dell’importanza della scienza e dell’elaborazione tecnologica nell’organizzazione del processo produttivo e nella creazione di ricchezza, separata però dall’esistenza dei lavoratori e sotto il diretto controllo del capitale.

Queste forme teoriche si presentano in “figure”, cioè nelle espressioni concrete con cui il processo di sussunzione si manifesta di volta in volta storicamente. Anche in questo caso, identificando forma e figura, cioè la logica interna e le sue espressioni storiche, si riduce la teoria alla descrizione storico-sociologica di come funzionava il capitalismo della rivoluzione industriale. Mentre invece le linee di tendenza elaborate da Marx appaiono oggi realizzate su larga scala e più di quanto lo fossero ai suoi tempi.
E’ evidente che l’estensione a nuovi ambiti della logica della sussunzione ha coinvolto nel tempo lavoratori non necessariamente legati alla fabbrica: l’operaio-massa (Fineschi chiama così l’operaio non qualificato della grande industria, protagonista tra le altre delle lotte degli anni Settanta) è stato finora la figura più rappresentativa della forma, ciò non toglie che essa possa avere altre figurazioni, anche più sviluppate. Compito del lavoro teorico è individuare quali siano le nuove figure delle forme definite grazie all’analisi della sussunzione.

Il testo pubblicato da Alegre è utile proprio per la chiara distinzione tra una logica immanente e le sue manifestazioni storiche, tra forma e figura. Il discorso di Fineschi può infatti essere rovesciato, almeno nella sottolineatura: le classi reali, quelle che si vedono e possono apparire come cose e fatti, si incontrano nella storiografia, negli scritti politici, nelle cronache e nelle inchieste sul modo in cui una classe agisce in una determinata fase del conflitto sociale.
Non ce la si può cavare con una definizione semplice, che è forse possibile e forse anche utile, ma che rappresenterebbe un primo passo privo delle indicazioni per compiere il secondo.
Una classe traspare in Marx negli scritti politici, nelle lettere e negli indirizzi, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, nella trilogia sulla lotta di classe in Francia e altrove. Una classe si manifesta chiaramente nella Storia della rivoluzione russa di Trotskij e nelle cronache, interviste, volantini e altri reperti numerosissimi dell’attività operaia in Italia dalla fine degli anni Sessanta alla dissoluzione della struttura consiliare.

Questa distinzione tuttavia non dice ancora come si distingue una classe. Per fare il passo successivo serve almeno un’altra traccia, fornita anche questa da Marx quando si riferisce a che cosa una classe non è. I piccoli contadini proprietari in Francia, sparsi qua e là per le campagne – scrive nel 18 Brumaio – sono classe perché hanno condizioni economiche, stili di vita, interessi e cultura propria distinti e contrapposti a quelli di altre classi. Ma non sono classe perché l’identità di interessi non crea una comunità, un’unione politica su scala nazionale e forme di organizzazione politica.
La classe operaia di fabbrica è invece classe in senso compiuto per la ragione opposta, perché la cooperazione e l’essere parte si manifestano nel processo lavorativo cioè nella vita quotidiana dei lavoratori, che possono così percepirsi come comunità. La classe operaia – osserva Marx – cresce in numero e si addensa e i singoli individui sono in stretta relazione tra loro, obbligati a collaborare dall’organizzazione del lavoro e spinti alla solidarietà dall’interesse comune a resistere.

Ma l’esperienza di una condizione comune non è sufficiente perché l’unione nella subalternità e nello sfruttamento non fa un soggetto, ma un non-soggetto. Bisogna che la negatività sia negata attraverso una prolungata esperienza di auto-organizzazione e di lotta. Marx addirittura, in una polemica nella Lega dei Comunisti, azzarda una quantificazione della sua durata. Servono – dice – quindici, venti, trent’anni di guerra civile, cioè di acuto conflitto politico-sociale, prima che la classe sia pronta ad assumere il potere perché deve cambiare soprattutto se stessa.
La “prassi sovvertitrice” è una delle due soluzioni che il Moro individua per affrontare una contraddizione, di cui per altro fu perfettamente consapevole. Quella cioè tra l’immagine dell’operaio descritto come “bestia da soma”, “ ridotta ai più elementari bisogni della vita”,” anima abbrutita” estranea alle potenze intellettuali del lavoro e quella di classe destinata a liberare se stessa e l’umanità, diventando per un periodo di indeterminata durata classe dominante.

La ricerca delle tracce della classe perduta impone a questo punto un’altra domanda: la classe operaia di fabbrica è stata davvero una classe nel senso in cui Marx la immaginava? Rispondendo contemporaneamente sì e no, si rende esattamente l’idea della precarietà e dell’intermittenza dell’essere compiutamente classe dei lavoratori e delle lavoratrici di fabbrica.
Il bilancio non si fa sulla base della verifica che la classe operaia non ha liberato se stessa e l’umanità: questa è la parte di utopia contenuta in ogni teoria di liberazione. Un bilancio deve più realisticamente fare i conti con il dato di fatto che alla classe operaia non sono mai stati concessi quei quindici, venti, trent’anni di cui parlava Marx. Vale a dire che non le è stato concesso un periodo così lungo di lotte non eterodirette, di auto-organizzazione e di esercizio al potere. Se questo deriva da limiti intrinseci della sua esperienza e cultura o da accidenti della storia, è oggi una discussione tanto tardiva quanto poco interessante.
Ciò non toglie che in gran parte del Novecento sia esistita una formazione solida radicata nella capacità, sia pure intermittente, di essere classe dell’operaio di fabbrica. E’ esistito cioè il movimento operaio (cosa ovviamente diversa dalla classe), che ha risolto il problema dell’intermittenza con un’organizzazione sindacale e politica permanente. Al prezzo però della formazione di una casta parassitaria che ha finito con l’uccidere l’organismo a cui si era sovrapposta.

La vicenda del Novecento lascia qualche altra labile traccia. Non c’è solo la differenza tra “forma” e “figura”, di cui parla Fineschi, cioè tra la logica con cui il capitale trasforma il modo di produrre e le diverse forme storiche del lavoro subalterno. In realtà la stessa classe operaia di fabbrica è stata al proprio interno diversa, tanto che così come si potrebbe parlare di “capitalismi”, si potrebbe parlare di classi operaie. La classe operaia statunitense degli anni Cinquanta protagonista di forti lotte sindacali ma disposta a votare in massa per la destra razzista, la classe rivoluzionaria del 1917 in Russia e quella italiana degli anni Settanta, organizzata nelle strutture consiliari hanno avuto comportamenti tra loro assai diversi legati al contesto storico, geopolitico, culturale ma anche alle personalità, agli accidenti e ad altri casi della vita e della politica.

Oggi parliamo di classe smarrita, di soggetto perduto ecc. perché il lavoro subalterno per diverse ragioni non costituisce più una classe in senso politico e non della semplice classificazione sociologica. Ciò non significa che non esista una formazione solida, cioè un settore della società capace di agire come classe. Esiste la classe dominante.
Se infatti spostiamo lo sguardo dal basso all’alto, la realtà ci appare assai meno fluida. Questa classe ha i suoi uomini e le sue donne che transitano tra banche, governi, consigli di amministrazione e apparati sindacali e di cui si possono fare nomi e cognomi. Come tutte le classi non agisce nella sua interezza, ma attraverso i suoi gruppi più forti e più capaci di pensare in una dimensione politica. Come tutte le classi ha conflitti interni, nel caso specifico una spiccata propensione in tempi di crisi a eliminare i suoi settori più deboli con la conseguenza di isolare la parte più forte e più solida. Ha bisogno di mediazioni politiche e di intellettuali che, contrariamente alla classe operaia del Novecento, è riuscita a tenere sotto controllo. Si è dimostrata più fornita di coscienza di classe del suo avversario, ma questo non significa che sia davvero in grado di decidere del proprio destino come comunità e insieme di interessi. Le classi talvolta anche si suicidano, come l’aristocrazia dell’Europa occidentale, quando smise di svolgere ogni funzione sociale, riducendosi a pura formazione parassitaria.

Un’ultima traccia per un uso migliore di Marx. Utilizzarlo – sia chiaro – non è un obbligo. Abbiamo detto o no che non ci servono santini, papi con il dono dell’infallibilità e libri in cui tutto sia già scritto e che bisogna solo saper leggere? Tuttavia, se del lavoro del Moro ci si vuol servire, si deve imparare a frugare qua e là con pazienza.
A un certo punto della sua riflessione Marx deve avere considerato la “prassi sovvertitrice” una soluzione insufficiente della contraddittorietà delle due immagini, quella cioè dell’anima abbrutita e della nuova classe dominante. Nella seconda versione la lieta fine del conflitto è affidata non solo e non tanto all’autotrasformazione, quanto a una riappropriazione delle potenze mentali della produzione attraverso un processo che vede da una parte la proprietà e dall’altra l’intero corpo lavorativo, il lavoratore collettivo, che è l’insieme di tutti coloro che formano la macchina produttiva totale.
Di questa macchina fanno parte manovali e dirigenti, ingegneri e sorveglianti, tecnici e aiutanti, insomma tutti coloro che sono dipendenti del proprietario e percepiscono un salario. E’ facile obiettare che in realtà le cose sono andate diversamente: prima di tutto la parte alta del corpo lavorativo è stata integrata economicamente e culturalmente nella proprietà e comunque una sapiente politica di divisione interna ha impresso alla realtà un differente andamento.
Tuttavia, al di là delle realizzazioni concrete, ancora una volta Marx indica una logica e una linea di tendenza verificabile oggi più di quanto lo fosse ai suoi tempi.
Oggi i processi legati alla sussunzione coinvolgono quasi l’intera società e si espandono ben oltre la fabbrica. Le articolazioni politicamente più intelligenti del corpo lavorativo vivono esperienze di parcellizzazione e svalorizzazione, che rendono legittimo parlare di proletarizzazione. Ma qui le tracce si perdono perché la riappropriazione, sia pure parziale, delle potenze mentali non risolve il problema. Una nuova “figura” per ora non emerge, per quanto da quel punto di vista le possibilità dovrebbero essere maggiori che nel Novecento.
Una delle ragioni potrebbe essere che la cooperazione e l’essere parte restano fuori dall’esperienza della maggioranza del lavoratore collettivo. L’auto-organizzazione intelligente crea gruppi, movimenti e lotte non ancora una classe e il compito di individuare le nuove figure è ancora in gran parte non assolto. 


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