Forse posso dare un modesto contributo alla ricerca della classe
smarrita. Con una precisazione iniziale: la ricerca non ha per noi
alternative per una questione di elementare coerenza con la premessa del
nostro lavoro politico. Rivoluzionaria dovrebbe essere una persona che
nutre almeno un minimo di speranza nella possibilità di cambiare il
mondo nel senso dell’uguale libertà. E il mondo non cambia, se non c’è
una classe che, in qualche modo ed entro certi limiti, si fa carico del
cambiamento.
Una traccia può essere individuata nel mutamento
dell’immaginario che vede la società divisa in classi in modo tale che,
con criteri di definizione scientificamente adeguati e con efficaci
mezzi di inchiesta, si possa tracciare una sorta di architettura,
mettendo ciascun gruppo al suo posto. Chi sopra, chi sotto e chi nel
mezzo o magari dietro, come residuo di modi di produzione precedenti.
Questa visione viene presto invalidata da due semplici
constatazioni. La prima è che non si sa mai dove operare il taglio. Il
rapporto con la produzione e la distribuzione di ricchezza è infatti
rappresentato da un gran numero di posizioni diverse ma assai vicine
l’una all’altra. La seconda constatazione è che le classi presunte non
agiscono quasi mai secondo la classificazione e risultano perciò delle
astrazioni prive di carne e di sangue, e quindi politicamente
inutilizzabili.
Bisognerebbe invece pensare le classi come formazioni solide su
una realtà sociale liquida e mucillaginosa, ben prima che Bauman e il
Censis utilizzassero le due definizioni. Solide non vuole dire
permanenti. Le classi nascono e muoiono, si densificano, si
cristallizzano, si frantumano, si sfarinano, si liquefano. Oppure in
altri modi si trasformano, diventando profondamente diverse da se
stesse. Per il complesso della società vale quello che scriveva
Thompson, cioè che la classe è un rapporto e non una “cosa” o un
“fatto”. Ma le formazioni solide, cioè i gruppi sociali capaci di
pensiero politico e che decidono, organizzano, confliggono ecc. sono
invece cose e fatti, individuabili nei corpi, nei confini, nei centri di
potere, nelle istituzioni.
Altre, importanti, tracce si trovano in Marx purché non le si
cerchi dove non si trovano. Il Moro aveva tra i suoi ambiziosi progetti
di ricerca – a cui si oppose la durata della vita umana – l’elaborazione
di una teoria delle classi, che non ebbe mai il tempo di affrontare,
anche perché i numerosi acciacchi di cui soffriva lo spedirono al
cimitero londinese di Highgate con qualche anno di anticipo. Ma anche se
non elaborò una teoria, disseminò i suoi scritti di indizi in grado di
rendere meno difficili le indagini successive, in tempi assai lontani
dal suo.
Apro qui una parentesi, servendomi per comodità di un testo di
Roberto Fineschi pubblicato nella raccolta di interventi nel convegno Pensare con Marx ripensare Marx (Alegre, 2008).
Fineschi spiega in che cosa consiste la storicità del Capitale. Se storia significa solo narrazione dell’avvenimento, allora il Capitale
oggi non serve più a niente perché parla degli operai del XIX secolo e
non del mondo contemporaneo. La sua storicità consiste invece
nell’individuazione di un tempo proprio del capitale, di una sua
immanente logica interna. Le descrizioni storiche nel senso della narrazione sono solo esempi empirici di leggi logiche.
E’ per questo – potremmo aggiungere – che 150 anni dopo di fronte ai
fenomeni della mondializzazione, della finanziarizzazione e della
crisi, gli stessi avversari di classe possono rendergli omaggio,
riconoscendo l’utilità di conoscere la sua opera per comprendere se
stessi e il modo di produzione che incarnano.
La premessa teorica è importante perché libera il campo dalle posizioni che riducono la storicità del Capitale
alla generalizzazione di fatti storici ottocenteschi. Con due effetti
opposti. Con l’effetto di continuare a pensare i rapporti sociali in
un’ottica incapace di tenere conto del presente o con quello di un
abbandono del marxismo per la sua presunta incapacità di tenerne conto.
Questo concetto di storia, per il suo livello di astrazione, non
spiega le dinamiche reali, per pensare le quali è necessario scendere a
un livello di astrazione più basso, includere analisi dettagliate che
non riguardano il modo di produzione capitalistico in quanto tale ma “i
capitalismi” determinati fattualmente, geograficamente e via dicendo. La
ricerca storiografica, la storia degli storici è perciò fattibile,
quando si sa che cosa significa modo di produzione capitalistico, quali
sono i suoi presupposti e le sue dinamiche.
Anche i rapporti di classe evidentemente rispondono a una logica
specifica e anche per questi è necessario distinguere tra quella
logica, propria del capitalismo in ogni tempo e in ogni luogo, e le
formazioni economico-sociali. Fineschi insiste particolarmente sul
concetto di sussunzione del lavoro al capitale (sussumere significa
integrare in posizione subalterna, assoggettare, inserire in un ordine
gerarchico) come logica di fondo che ha determinato le trasformazioni
del modo di produrre nel capitalismo. E chiama “determinazioni di forma
sotto il capitale” le manifestazioni del processo di sussunzione: la
cooperazione e l’essere parte, il cui carattere sociale si realizza
tuttavia come forma fenomenica del capitale; un rapporto specifico con
il sistema delle macchine, di cui il lavoratore è diventato appendice;
la crescita dell’importanza della scienza e dell’elaborazione
tecnologica nell’organizzazione del processo produttivo e nella
creazione di ricchezza, separata però dall’esistenza dei lavoratori e
sotto il diretto controllo del capitale.
Queste forme teoriche si presentano in “figure”, cioè nelle
espressioni concrete con cui il processo di sussunzione si manifesta di
volta in volta storicamente. Anche in questo caso, identificando forma e
figura, cioè la logica interna e le sue espressioni storiche, si riduce
la teoria alla descrizione storico-sociologica di come funzionava il
capitalismo della rivoluzione industriale. Mentre invece le linee di
tendenza elaborate da Marx appaiono oggi realizzate su larga scala e più
di quanto lo fossero ai suoi tempi.
E’ evidente che l’estensione a nuovi ambiti della logica
della sussunzione ha coinvolto nel tempo lavoratori non necessariamente
legati alla fabbrica: l’operaio-massa (Fineschi chiama così l’operaio
non qualificato della grande industria, protagonista tra le altre delle
lotte degli anni Settanta) è stato finora la figura più rappresentativa
della forma, ciò non toglie che essa possa avere altre figurazioni,
anche più sviluppate. Compito del lavoro teorico è individuare quali
siano le nuove figure delle forme definite grazie all’analisi della
sussunzione.
Il testo pubblicato da Alegre è utile proprio per la chiara
distinzione tra una logica immanente e le sue manifestazioni storiche,
tra forma e figura. Il discorso di Fineschi può infatti essere
rovesciato, almeno nella sottolineatura: le classi reali, quelle che si
vedono e possono apparire come cose e fatti, si incontrano nella
storiografia, negli scritti politici, nelle cronache e nelle inchieste
sul modo in cui una classe agisce in una determinata fase del conflitto
sociale.
Non ce la si può cavare con una definizione semplice, che è forse
possibile e forse anche utile, ma che rappresenterebbe un primo passo
privo delle indicazioni per compiere il secondo.
Una classe traspare in Marx negli scritti politici, nelle lettere e negli indirizzi, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, nella trilogia sulla lotta di classe in Francia e altrove. Una classe si manifesta chiaramente nella Storia della rivoluzione russa
di Trotskij e nelle cronache, interviste, volantini e altri reperti
numerosissimi dell’attività operaia in Italia dalla fine degli anni
Sessanta alla dissoluzione della struttura consiliare.
Questa distinzione tuttavia non dice ancora come si distingue
una classe. Per fare il passo successivo serve almeno un’altra traccia,
fornita anche questa da Marx quando si riferisce a che cosa una classe
non è. I piccoli contadini proprietari in Francia, sparsi qua e là per
le campagne – scrive nel 18 Brumaio – sono classe perché hanno
condizioni economiche, stili di vita, interessi e cultura propria
distinti e contrapposti a quelli di altre classi. Ma non sono classe
perché l’identità di interessi non crea una comunità, un’unione politica
su scala nazionale e forme di organizzazione politica.
La classe operaia di fabbrica è invece classe in senso compiuto per
la ragione opposta, perché la cooperazione e l’essere parte si
manifestano nel processo lavorativo cioè nella vita quotidiana dei
lavoratori, che possono così percepirsi come comunità. La classe operaia
– osserva Marx – cresce in numero e si addensa e i singoli individui
sono in stretta relazione tra loro, obbligati a collaborare
dall’organizzazione del lavoro e spinti alla solidarietà dall’interesse
comune a resistere.
Ma l’esperienza di una condizione comune non è
sufficiente perché l’unione nella subalternità e nello sfruttamento non
fa un soggetto, ma un non-soggetto. Bisogna che la negatività sia negata
attraverso una prolungata esperienza di auto-organizzazione e di lotta.
Marx addirittura, in una polemica nella Lega dei Comunisti, azzarda una
quantificazione della sua durata. Servono – dice – quindici, venti,
trent’anni di guerra civile, cioè di acuto conflitto politico-sociale,
prima che la classe sia pronta ad assumere il potere perché deve
cambiare soprattutto se stessa.
La “prassi sovvertitrice” è una delle due soluzioni che il Moro
individua per affrontare una contraddizione, di cui per altro fu
perfettamente consapevole. Quella cioè tra l’immagine dell’operaio
descritto come “bestia da soma”, “ ridotta ai più elementari bisogni
della vita”,” anima abbrutita” estranea alle potenze intellettuali del
lavoro e quella di classe destinata a liberare se stessa e l’umanità,
diventando per un periodo di indeterminata durata classe dominante.
La ricerca delle tracce della classe perduta impone a questo punto un’altra domanda: la classe operaia di fabbrica è stata davvero una classe nel senso in cui Marx la immaginava?
Rispondendo contemporaneamente sì e no, si rende esattamente l’idea
della precarietà e dell’intermittenza dell’essere compiutamente classe
dei lavoratori e delle lavoratrici di fabbrica.
Il bilancio non si fa sulla base della verifica che la classe
operaia non ha liberato se stessa e l’umanità: questa è la parte di
utopia contenuta in ogni teoria di liberazione. Un bilancio deve più
realisticamente fare i conti con il dato di fatto che alla classe
operaia non sono mai stati concessi quei quindici, venti, trent’anni di
cui parlava Marx. Vale a dire che non le è stato concesso un periodo
così lungo di lotte non eterodirette, di auto-organizzazione e di
esercizio al potere. Se questo deriva da limiti intrinseci della sua
esperienza e cultura o da accidenti della storia, è oggi una discussione
tanto tardiva quanto poco interessante.
Ciò non toglie che in gran parte del Novecento sia esistita una
formazione solida radicata nella capacità, sia pure intermittente, di
essere classe dell’operaio di fabbrica. E’ esistito cioè il
movimento operaio (cosa ovviamente diversa dalla classe), che ha risolto
il problema dell’intermittenza con un’organizzazione sindacale e
politica permanente. Al prezzo però della formazione di una casta parassitaria che ha finito con l’uccidere l’organismo a cui si era sovrapposta.
La vicenda del Novecento lascia qualche altra labile traccia.
Non c’è solo la differenza tra “forma” e “figura”, di cui parla
Fineschi, cioè tra la logica con cui il capitale trasforma il modo di
produrre e le diverse forme storiche del lavoro subalterno. In realtà la
stessa classe operaia di fabbrica è stata al proprio interno diversa,
tanto che così come si potrebbe parlare di “capitalismi”, si potrebbe
parlare di classi operaie. La classe operaia statunitense degli anni
Cinquanta protagonista di forti lotte sindacali ma disposta a votare in
massa per la destra razzista, la classe rivoluzionaria del 1917 in
Russia e quella italiana degli anni Settanta, organizzata nelle
strutture consiliari hanno avuto comportamenti tra loro assai diversi
legati al contesto storico, geopolitico, culturale ma anche alle
personalità, agli accidenti e ad altri casi della vita e della politica.
Oggi parliamo di classe smarrita, di soggetto perduto
ecc. perché il lavoro subalterno per diverse ragioni non costituisce più
una classe in senso politico e non della semplice classificazione
sociologica. Ciò non significa che non esista una formazione solida,
cioè un settore della società capace di agire come classe. Esiste la
classe dominante.
Se infatti spostiamo lo sguardo dal basso all’alto, la realtà ci
appare assai meno fluida. Questa classe ha i suoi uomini e le sue donne
che transitano tra banche, governi, consigli di amministrazione e
apparati sindacali e di cui si possono fare nomi e cognomi. Come tutte
le classi non agisce nella sua interezza, ma attraverso i suoi gruppi
più forti e più capaci di pensare in una dimensione politica. Come tutte
le classi ha conflitti interni, nel caso specifico una spiccata
propensione in tempi di crisi a eliminare i suoi settori più deboli con
la conseguenza di isolare la parte più forte e più solida. Ha bisogno di
mediazioni politiche e di intellettuali che, contrariamente alla classe
operaia del Novecento, è riuscita a tenere sotto controllo. Si è
dimostrata più fornita di coscienza di classe del suo avversario, ma
questo non significa che sia davvero in grado di decidere del proprio
destino come comunità e insieme di interessi. Le classi talvolta anche
si suicidano, come l’aristocrazia dell’Europa occidentale, quando smise
di svolgere ogni funzione sociale, riducendosi a pura formazione
parassitaria.
Un’ultima traccia per un uso migliore di Marx. Utilizzarlo – sia
chiaro – non è un obbligo. Abbiamo detto o no che non ci servono
santini, papi con il dono dell’infallibilità e libri in cui tutto sia
già scritto e che bisogna solo saper leggere? Tuttavia, se del lavoro
del Moro ci si vuol servire, si deve imparare a frugare qua e là con
pazienza.
A un certo punto della sua riflessione Marx deve avere considerato
la “prassi sovvertitrice” una soluzione insufficiente della
contraddittorietà delle due immagini, quella cioè dell’anima abbrutita e
della nuova classe dominante. Nella seconda versione la lieta fine del
conflitto è affidata non solo e non tanto all’autotrasformazione, quanto
a una riappropriazione delle potenze mentali della produzione
attraverso un processo che vede da una parte la proprietà e dall’altra
l’intero corpo lavorativo, il lavoratore collettivo, che è l’insieme di
tutti coloro che formano la macchina produttiva totale.
Di questa
macchina fanno parte manovali e dirigenti, ingegneri e sorveglianti,
tecnici e aiutanti, insomma tutti coloro che sono dipendenti del
proprietario e percepiscono un salario. E’ facile obiettare che in
realtà le cose sono andate diversamente: prima di tutto la parte alta
del corpo lavorativo è stata integrata economicamente e culturalmente
nella proprietà e comunque una sapiente politica di divisione interna ha
impresso alla realtà un differente andamento.
Tuttavia, al di là delle realizzazioni concrete, ancora una volta
Marx indica una logica e una linea di tendenza verificabile oggi più di
quanto lo fosse ai suoi tempi.
Oggi i processi legati alla sussunzione coinvolgono quasi l’intera
società e si espandono ben oltre la fabbrica. Le articolazioni
politicamente più intelligenti del corpo lavorativo vivono esperienze di
parcellizzazione e svalorizzazione, che rendono legittimo parlare di
proletarizzazione. Ma qui le tracce si perdono perché la
riappropriazione, sia pure parziale, delle potenze mentali non risolve
il problema. Una nuova “figura” per ora non emerge, per quanto
da quel punto di vista le possibilità dovrebbero essere maggiori che nel
Novecento.
Una delle ragioni potrebbe essere che la cooperazione e l’essere
parte restano fuori dall’esperienza della maggioranza del lavoratore
collettivo. L’auto-organizzazione intelligente crea gruppi, movimenti e
lotte non ancora una classe e il compito di individuare le nuove figure è
ancora in gran parte non assolto.
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