I leader del sistema economico globale stanno abbandonando la linea
“negazionista” in tema di crescita delle diseguaglianze economiche. Per
decenni imprenditori, politici, media e accademici hanno sostenuto,
contro ogni evidenza, la tesi secondo cui il processo di globalizzazione
avrebbe contribuito a ridurre le diseguaglianze, sia fra i vari Paesi
sia all’interno di ognuno di essi. A sette
anni dall’inizio della crisi questa menzogna è divenuta insostenibile
anche per i più zelanti lacché del pensiero unico liberal liberista.
Così, negli ultimi mesi, iniziano ad apparire imbarazzate ammissioni: sulle pagine dell’Economist,
come nei discorsi al recente Forum di Davos, circolano discorsi in cui
si riconosce che la distanza fra ricchi e poveri non è mai stata tanto
grande, che ai primi segni di ripresa della “crescita” (leggi dei
profitti) non fanno riscontro significativi aumenti dell’occupazione e
dei salari, che tale tendenza potrebbe durare a lungo, anche in presenza
di un rilancio più consistente dell’economia, infine che questa
situazione è destinata a generare aspri conflitti sociali.
Naturalmente tali ammissioni non implicano ripensamenti sui principi
del pensiero economico “mainstream”; né inducono riflessioni sulla
necessità di riforme strutturali; nella migliore delle ipotesi, si
accenna all’opportunità di ricorrere a palliativi assistenziali, e a
strategie comunicative che instillino nelle classi subalterne l’idea
della crisi come “catastrofe naturale” da sopportare con la stessa
rassegnazione con cui si sopportano terremoti e alluvioni.
Un esempio tipico di questo atteggiamento è stato il recente discorso
sullo Stato dell’Unione del presidente Obama. Criticando
l’insensibilità dei Repubblicani sui guasti provocati dai livelli sempre
più elevati di diseguaglianza economica, Obama ha espresso l’intenzione
di bypassare l’ostruzionismo parlamentare attraverso una serie di
“executive order” (decreti presidenziali che non richiedono ratifica
parlamentare) per combattere povertà e disoccupazione. Ma dietro questo
“decisionismo” si nasconde un’operazione propagandistica.
Anche un giornale amico, come il New York Times, ironizza
sui limiti di questa “svolta”: gli executive order non vincolano il
successore di Obama, che potrà cancellarli con un tratto di penna, e il
più strombazzato di questi provvedimenti – l’aumento del salario minimo a
10 dollari l’ora – riguarda solo i contractor del Governo federale che
verranno assunti d’ora in avanti (qualche migliaio di lavoratori a
fronte delle decine di milioni che rivendicano questo provvedimento).
Insomma: fumo negli occhi per ammansire le classi più esposte ai
morsi d’una crisi che per loro non passa (mentre Wall Street ha ripreso a
galoppare). Ma su altri media americani si sono letti commenti più
salati al topolino partorito dalla montagna presidenziale. Mi limito a
citare tre pezzi apparsi sull’Huffington Post.
Nel primo
si evidenzia come nel suo discorso non siano mai state pronunciate le
parole Wall Street, banche, deregulation, frode, inchiesta, troppo
grande per fallire, Glass-Steagall (la legge che imponeva la separazione
fra banche commerciali e banche di investimento), come a dire: ha
deprecato le diseguaglianze ma non ha fatto menzione dei responsabili.
Nel secondo
si ricorda che, mentre si erge a paladino della lotta alla
diseguaglianza, Obama è impegnato a condurre in porto l’accordo TPP
(Trans Pacific Partnership) che consentirà alle corporation di aggirare
“legalmente” le regole dei Paesi sottoscrittori in materia di salute,
sicurezza del lavoro e ambiente (generando ulteriori diseguaglianze).
Infine il terzo dopo
avere analizzato lo “Stato dell’Unione” di minatori, tassisti,
domestici, dipendenti di ristoranti, catene commerciali, Fast Food e
altri lavoratori, conclude che le loro condizioni richiedono qualcosa in
più dei pannicelli caldi presidenziali. Per ora, la spettro di
possibili tensioni sociali induce il potere a effettuare qualche
correzione di strategia comunicativa; per ottenere di più serve che le
tensioni virtuali divengano reali e generino lotte di massa.
Carlo Formenti
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