Da sistema di welfare a economia
liberista. Il percorso compiuto dal giovane Stato israeliano, dal 1948 a
oggi, ha portato nell’arco di sei decenni alla creazione di una forza
lavoro politicamente debole e a una struttura economica fondata su
profonde differenze tra ricchi e poveri. Il socialismo israeliano, osannato negli anni '60 e '70 in Europa, non esiste più:
al suo posto, si è radicato un sistema di libero mercato che fa
occupare a Tel Aviv il primo posto nella poco onorevole classifica dei
paesi industrializzati con il più alto tasso di povertà (21 per cento
contro una media dell’11) e il quinto in quella dei paesi con le più
forti differenze sociali ed economiche.
“Come anno di riferimento di una simile trasformazione dobbiamo
prendere il 1985 – ci spiega Assaf Adiv, coordinatore nazionale del
sindacato israeliano indipendente Wac Ma’an –, quando il governo lanciò
un programma di stabilizzazione a causa dell’iper-inflazione dell’epoca.
Si optò per l’adozione del sistema di libero mercato: da quel momento lo Stato si liberò dalla responsabilità della tutela del lavoro e dei lavoratori.
Creare occupazione non era più una priorità del governo. Al contrario,
la priorità divenne quella di attrarre investimenti interni e
internazionali. Abbiamo così assistito a una radicale
liberalizzazione, a una privatizzazione selvaggia fondata sull’assenza
quasi totale di una regolamentazione statale”.
Una tale politica ha portato in pochissimi anni al crollo del livello
di sindacalizzazione, passato dall’85 al 30 per cento. Se in passato i
lavoratori israeliani erano tutelati da contratti collettivi, da un
sistema pensionistico pubblico e stabile e da un alto livello di
sicurezza sul posto di lavoro, nell’arco di un decennio si è venuta a
creare una situazione opposta: precariato, instabilità, lavoro
temporaneo, privatizzazione del sistema pensionistico. Prendiamo come
esempio il settore edilizio, passato da una struttura estremamente
regolamentata a una vera e propria giungla: dal 2008 a oggi, gli anni
della crisi, il settore delle costruzioni ha avuto una crescita del 55
per cento, riuscendo ad assorbire il 10 per cento della forza lavoro
israeliana. A cosa si deve un simile risultato?
“Il terreno di coltura del boom edilizio – spiega ancora Adiv – è
quello della quasi totale cancellazione dei diritti del lavoro. I
sindacati hanno perso il controllo delle aziende e i diritti
fondamentali sono evaporati a causa della creazione di un sistema di
subappalti, nel quale aziende molto piccole si spartiscono il lavoro
e assumono direttamente i lavoratori, riconoscendo loro una porzione
minima dei diritti dovuti. I prezzi si sono così abbassati, grazie a una
riduzione dei costi che ha pesato quasi esclusivamente sulle spalle dei
lavoratori”. Le conseguenze per la società israeliana però sono state
catastrofiche. Il gap economico e sociale tra ricchi e poveri si è
allargato a dismisura e la differenza tra centro e periferia si è
radicalizzato.
“L’immagine di un Israele ‘socialista’, frutto delle politiche degli anni '60 e '70, si è eclissata – prosegue Adiv –. In
passato il sistema egualitario di welfare si era sviluppato a spese
della popolazione palestinese, come elemento fondante del progetto
sionista: un’economia fondata sull’uguaglianza sociale ed
economica dei cittadini ebrei e sulle discriminazioni verso le comunità
arabe. Oggi anche questo non c’è più: attraverso la liberalizzazione
selvaggia, i vertici politici israeliani hanno dato vita a uno Stato
basato sulle disuguaglianze anche tra i cittadini privilegiati, ovvero
gli ebrei”.
La politica economica ha finito per accomunare i partiti politici, la
destra alla sinistra. Il partito laburista, fondatore dello Stato di
Israele e forza di governo nei primi trent’anni, ha adottato una visione
strutturale di disuguaglianza etnica, fondamentalmente anti-araba e
lontanissima dalle idee politiche dei partiti socialisti europei: “Negli
anni '80 i laburisti, sotto la guida dell’attuale presidente israeliano
Shimon Peres – prosegue Adiv –, hanno deciso il passaggio verso
un’economia di mercato che ha lasciato la forza lavoro senza una vera
guida. Dalla fondazione dello Stato di Israele, infatti, ogni
diritto del lavoro è piovuto dall’alto, ‘concesso’ dai vertici politici.
Il miglioramento delle condizioni dei lavoratori non è stato il frutto
delle lotte di un movimento, come accaduto in Europa. Per
questa ragione, quando tali diritti sono venuti meno (in primo luogo con
la privatizzazione del sistema pensionistico), nessuno ha protestato e
tutti sono rimasti in attesa di un cambio di rotta del governo e di una
nuova concessione dei diritti fondamentali”.
Un ruolo centrale è stato giocato dal sindacato Histadrut, per
decenni l’unico a rappresentare la forza lavoro in quanto struttura
subordinata al partito laburista. Nato come colonna portante del
progetto sionista, ha da subito avuto come obiettivo la creazione di
diritti e privilegi riservati ai cittadini ebrei attraverso il controllo
assoluto del sistema sindacale. Histadrut era l’unico a firmare
i contratti collettivi e fino al 2011 impediva il tesseramento di
lavoratori immigrati o di origine palestinese. “L’obiettivo di
Histadrut, costola del partito laburista, è stato per decenni quello di
creare un mercato del lavoro arab-free – ci spiega Yonathan Balaban,
membro del sindacato israeliano indipendente Koach LaOvdim –. Fino agli
anni '80 aveva il monopolio assoluto del sistema sindacale e operava come
una dittatura: il segretario generale e i vertici erano nominati dal
partito laburista, all’epoca al governo, per cui era strettamente
dipendente dalle scelte politiche ed economiche dell’esecutivo”.
Le discriminazioni etniche e di genere
Uno degli aspetti centrali del mercato del lavoro israeliano è la
sistematica discriminazione della popolazione araba. Se la legge sul
lavoro non prevede alcun tipo di differenza nell’applicazione di diritti
e nelle opportunità di impiego, nella realtà una serie di fattori
impedisce ai palestinesi cittadini israeliani di godere dello stesso
standard di vita: prima di tutto l’esclusione a priori da
determinati settori economici e un salario più basso del 30-40 per cento
rispetto a dipendenti di origine ebrea.
“Molti datori di lavoro – ci spiega Adiv – non assumono lavoratori
palestinesi per ‘ragioni di sicurezza’: non ne troverete nei porti,
negli aeroporti, nelle industrie elettriche né in quelle militari. Non
ci sono palestinesi manager di aziende pubbliche né di quelle private.
Sono pochissimi coloro che riescono a diventare liberi professionisti, e
solo il 5 per cento dei dipendenti pubblici è palestinese. Unica
eccezione è il settore sanitario: sono moltissimi i palestinesi medici e
infermieri all’interno degli ospedali perché il sistema sanitario
nazionale è molto avanzato e c’è una grande necessità di
professionisti”.
Va poi considerata la differenza di sviluppo economico e
infrastrutturale tra le comunità ebraiche e palestinesi: con l’eccezione
delle sette città miste, la popolazione di origine palestinese (il 20
per cento del totale) vive in città e villaggi esclusivamente arabi,
dove lo Stato evita di investire. La maggior parte dei
palestinesi cittadini israeliani risiede lontano dalle zone industriali e
dai centri dell’economia, obbligati a vivere da pendolari o a scegliere impieghi di più basso livello ma vicino al luogo di residenza.
“Prendiamo ad esempio Nazareth, la più grande città palestinese in
Israele – ci spiega Adiv –. Come molte altre comunità arabe, non è
inserita nella pianificazione nazionale: lo Stato non costruisce zone
industriali, centri culturali e sportivi o università e non permette
l’espansione dei confini municipali. È un circolo vizioso: nessuna
infrastruttura, nessun investimento, quindi poco lavoro”.
Alla discriminazione etnica si aggiunge quella di genere. Il
tasso di occupazione delle donne israeliane ebree è pari al 55 per cento
(che scende al 25 tra quelle di origine araba), mentre solo il 5 per
cento dei manager pubblici e privati è donna. La differenza di
salario media, per un impiego di pari livello, è di circa il 33 per
cento rispetto a quella di un uomo: “A intervenire sono una serie di
fattori strutturali – spiega Balaban –. Le donne non godono di strumenti
di sostegno alla famiglia e sono spesso relegate verso settori
considerati ‘femminili’: l’infermiera, la badante l’insegnante”.
Infine, gli immigrati: durante la Seconda Intifada,
Israele ha aperto i confini a lavoratori provenienti dall’Asia dell’Est e
dall’Africa, per supplire alla diminuzione del numero di palestinesi
della Cisgiordania e di Gaza impiegati in Israele. Le loro condizioni di
vita sono spesso drammatiche: “Arrivano a lavorare anche 16-17 ore al
giorno e in cambio ottengono il salario minimo, circa 500 euro –
continua Balaban –. Spesso il datore di lavoro trattiene il loro
passaporto per impedirgli di muovere vertenze o di lasciare il lavoro
per un impiego migliore. Vivono in appartamenti piccoli,
sovraffollati, alle periferie delle principali città israeliane, e hanno
il costante timore di essere espulsi: chi perde il lavoro, perde
immediatamente il permesso di soggiorno. E chi arriva legalmente, con un
regolare contratto di lavoro, finisce dopo qualche anno per restare nel
paese da clandestino perché privato del permesso di soggiorno”.
L’attività dei sindacati indipendenti
Gli ultimi venti anni sono stati il teatro di una profonda
trasformazione del sistema sindacale: il crollo del numero di lavoratori
sindacalizzati e la maggiore precarietà hanno ridotto il campo d’azione
di Histadrut, incapace a rinnovarsi. Per questo, dal 2000 a oggi sono
sorti piccoli sindacati indipendenti, in risposta al bisogno di
protezione dei lavoratori israeliani. Tra questi ci sono Wac Ma’an e
Koach LaOvdim, entrambi fondati sulla volontà di annullare le divisioni
etniche nel mercato del lavoro. Entrambi si sono sviluppati
intorno a una struttura il più democratica possibile, attraverso la
creazione di comitati interni ai luoghi di lavoro e a referenti locali e
nazionali.
Una sorta di piramide, la cui base è la forza lavoro che elegge i
propri rappresentanti e autogestisce gli strumenti di lotta. “Negli
ultimi 5 anni – ci spiega Adiv – abbiamo rafforzato la nostra presenza
in molte fabbriche, nelle scuole e nel settore sanitario. Oggi
rappresentiamo qualche migliaio di lavoratori, ebrei e arabi. Operiamo
eliminando le differenze etniche, convinti che dalle lotte dei
lavoratori possa nascere una nuova coscienza di classe che vada al di là
della razza. Quest’anno abbiamo già siglato 3 contratti aziendali e
stiamo lavorando alla stipula di altri 3”.
Analoga è la storia di Koach LaOvdim, nato nel 2007: 13 mila
lavoratori tesserati (di cui circa 400 immigrati), per lo più
insegnanti, impiegati in aziende chimiche e compagnie di pulizie,
sanitari, badanti. Ogni 50 dipendenti viene eletto un rappresentante
d’azienda che partecipa all’assemblea nazionale, l’ente che firma i
contratti collettivi. “Il nostro obiettivo – ci spiega Balaban – è
raggiungere quota 60-70 mila membri, per poter guadagnare, anche
attraverso l’eventuale federazione con altri sindacati indipendenti, un
potere contrattuale che ci consenta di sederci allo stesso tavolo del
governo e dei rappresentanti dei datori di lavoro”.
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