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02/05/2014

Lavoro in Israele - Dal socialismo arab-free al precariato per tutti

Da sistema di welfare a economia liberista. Il percorso compiuto dal giovane Stato israeliano, dal 1948 a oggi, ha portato nell’arco di sei decenni alla creazione di una forza lavoro politicamente debole e a una struttura economica fondata su profonde differenze tra ricchi e poveri. Il socialismo israeliano, osannato negli anni '60 e '70 in Europa, non esiste più: al suo posto, si è radicato un sistema di libero mercato che fa occupare a Tel Aviv il primo posto nella poco onorevole classifica dei paesi industrializzati con il più alto tasso di povertà (21 per cento contro una media dell’11) e il quinto in quella dei paesi con le più forti differenze sociali ed economiche.

“Come anno di riferimento di una simile trasformazione dobbiamo prendere il 1985 – ci spiega Assaf Adiv, coordinatore nazionale del sindacato israeliano indipendente Wac Ma’an –, quando il governo lanciò un programma di stabilizzazione a causa dell’iper-inflazione dell’epoca. Si optò per l’adozione del sistema di libero mercato: da quel momento lo Stato si liberò dalla responsabilità della tutela del lavoro e dei lavoratori. Creare occupazione non era più una priorità del governo. Al contrario, la priorità divenne quella di attrarre investimenti interni e internazionali. Abbiamo così assistito a una radicale liberalizzazione, a una privatizzazione selvaggia fondata sull’assenza quasi totale di una regolamentazione statale”.

Una tale politica ha portato in pochissimi anni al crollo del livello di sindacalizzazione, passato dall’85 al 30 per cento. Se in passato i lavoratori israeliani erano tutelati da contratti collettivi, da un sistema pensionistico pubblico e stabile e da un alto livello di sicurezza sul posto di lavoro, nell’arco di un decennio si è venuta a creare una situazione opposta: precariato, instabilità, lavoro temporaneo, privatizzazione del sistema pensionistico. Prendiamo come esempio il settore edilizio, passato da una struttura estremamente regolamentata a una vera e propria giungla: dal 2008 a oggi, gli anni della crisi, il settore delle costruzioni ha avuto una crescita del 55 per cento, riuscendo ad assorbire il 10 per cento della forza lavoro israeliana. A cosa si deve un simile risultato?

“Il terreno di coltura del boom edilizio – spiega ancora Adiv – è quello della quasi totale cancellazione dei diritti del lavoro. I sindacati hanno perso il controllo delle aziende e i diritti fondamentali sono evaporati a causa della creazione di un sistema di subappalti, nel quale aziende molto piccole si spartiscono il lavoro e assumono direttamente i lavoratori, riconoscendo loro una porzione minima dei diritti dovuti. I prezzi si sono così abbassati, grazie a una riduzione dei costi che ha pesato quasi esclusivamente sulle spalle dei lavoratori”. Le conseguenze per la società israeliana però sono state catastrofiche. Il gap economico e sociale tra ricchi e poveri si è allargato a dismisura e la differenza tra centro e periferia si è radicalizzato.

“L’immagine di un Israele ‘socialista’, frutto delle politiche degli anni '60 e '70, si è eclissata – prosegue Adiv –. In passato il sistema egualitario di welfare si era sviluppato a spese della popolazione palestinese, come elemento fondante del progetto sionista: un’economia fondata sull’uguaglianza sociale ed economica dei cittadini ebrei e sulle discriminazioni verso le comunità arabe. Oggi anche questo non c’è più: attraverso la liberalizzazione selvaggia, i vertici politici israeliani hanno dato vita a uno Stato basato sulle disuguaglianze anche tra i cittadini privilegiati, ovvero gli ebrei”.

La politica economica ha finito per accomunare i partiti politici, la destra alla sinistra. Il partito laburista, fondatore dello Stato di Israele e forza di governo nei primi trent’anni, ha adottato una visione strutturale di disuguaglianza etnica, fondamentalmente anti-araba e lontanissima dalle idee politiche dei partiti socialisti europei: “Negli anni '80 i laburisti, sotto la guida dell’attuale presidente israeliano Shimon Peres – prosegue Adiv –, hanno deciso il passaggio verso un’economia di mercato che ha lasciato la forza lavoro senza una vera guida. Dalla fondazione dello Stato di Israele, infatti, ogni diritto del lavoro è piovuto dall’alto, ‘concesso’ dai vertici politici. Il miglioramento delle condizioni dei lavoratori non è stato il frutto delle lotte di un movimento, come accaduto in Europa. Per questa ragione, quando tali diritti sono venuti meno (in primo luogo con la privatizzazione del sistema pensionistico), nessuno ha protestato e tutti sono rimasti in attesa di un cambio di rotta del governo e di una nuova concessione dei diritti fondamentali”.

Un ruolo centrale è stato giocato dal sindacato Histadrut, per decenni l’unico a rappresentare la forza lavoro in quanto struttura subordinata al partito laburista. Nato come colonna portante del progetto sionista, ha da subito avuto come obiettivo la creazione di diritti e privilegi riservati ai cittadini ebrei attraverso il controllo assoluto del sistema sindacale. Histadrut era l’unico a firmare i contratti collettivi e fino al 2011 impediva il tesseramento di lavoratori immigrati o di origine palestinese. “L’obiettivo di Histadrut, costola del partito laburista, è stato per decenni quello di creare un mercato del lavoro arab-free – ci spiega Yonathan Balaban, membro del sindacato israeliano indipendente Koach LaOvdim –. Fino agli anni '80 aveva il monopolio assoluto del sistema sindacale e operava come una dittatura: il segretario generale e i vertici erano nominati dal partito laburista, all’epoca al governo, per cui era strettamente dipendente dalle scelte politiche ed economiche dell’esecutivo”. 

Le discriminazioni etniche e di genere

Uno degli aspetti centrali del mercato del lavoro israeliano è la sistematica discriminazione della popolazione araba. Se la legge sul lavoro non prevede alcun tipo di differenza nell’applicazione di diritti e nelle opportunità di impiego, nella realtà una serie di fattori impedisce ai palestinesi cittadini israeliani di godere dello stesso standard di vita: prima di tutto l’esclusione a priori da determinati settori economici e un salario più basso del 30-40 per cento rispetto a dipendenti di origine ebrea.

“Molti datori di lavoro – ci spiega Adiv – non assumono lavoratori palestinesi per ‘ragioni di sicurezza’: non ne troverete nei porti, negli aeroporti, nelle industrie elettriche né in quelle militari. Non ci sono palestinesi manager di aziende pubbliche né di quelle private. Sono pochissimi coloro che riescono a diventare liberi professionisti, e solo il 5 per cento dei dipendenti pubblici è palestinese. Unica eccezione è il settore sanitario: sono moltissimi i palestinesi medici e infermieri all’interno degli ospedali perché il sistema sanitario nazionale è molto avanzato e c’è una grande necessità di professionisti”.

Va poi considerata la differenza di sviluppo economico e infrastrutturale tra le comunità ebraiche e palestinesi: con l’eccezione delle sette città miste, la popolazione di origine palestinese (il 20 per cento del totale) vive in città e villaggi esclusivamente arabi, dove lo Stato evita di investire. La maggior parte dei palestinesi cittadini israeliani risiede lontano dalle zone industriali e dai centri dell’economia, obbligati a vivere da pendolari o a scegliere impieghi di più basso livello ma vicino al luogo di residenza.

“Prendiamo ad esempio Nazareth, la più grande città palestinese in Israele – ci spiega Adiv –. Come molte altre comunità arabe, non è inserita nella pianificazione nazionale: lo Stato non costruisce zone industriali, centri culturali e sportivi o università e non permette l’espansione dei confini municipali. È un circolo vizioso: nessuna infrastruttura, nessun investimento, quindi poco lavoro”.

Alla discriminazione etnica si aggiunge quella di genere. Il tasso di occupazione delle donne israeliane ebree è pari al 55 per cento (che scende al 25 tra quelle di origine araba), mentre solo il 5 per cento dei manager pubblici e privati è donna. La differenza di salario media, per un impiego di pari livello, è di circa il 33 per cento rispetto a quella di un uomo: “A intervenire sono una serie di fattori strutturali – spiega Balaban –. Le donne non godono di strumenti di sostegno alla famiglia e sono spesso relegate verso settori considerati ‘femminili’: l’infermiera, la badante l’insegnante”.

Infine, gli immigrati: durante la Seconda Intifada, Israele ha aperto i confini a lavoratori provenienti dall’Asia dell’Est e dall’Africa, per supplire alla diminuzione del numero di palestinesi della Cisgiordania e di Gaza impiegati in Israele. Le loro condizioni di vita sono spesso drammatiche: “Arrivano a lavorare anche 16-17 ore al giorno e in cambio ottengono il salario minimo, circa 500 euro – continua Balaban –. Spesso il datore di lavoro trattiene il loro passaporto per impedirgli di muovere vertenze o di lasciare il lavoro per un impiego migliore. Vivono in appartamenti piccoli, sovraffollati, alle periferie delle principali città israeliane, e hanno il costante timore di essere espulsi: chi perde il lavoro, perde immediatamente il permesso di soggiorno. E chi arriva legalmente, con un regolare contratto di lavoro, finisce dopo qualche anno per restare nel paese da clandestino perché privato del permesso di soggiorno”. 

L’attività dei sindacati indipendenti

Gli ultimi venti anni sono stati il teatro di una profonda trasformazione del sistema sindacale: il crollo del numero di lavoratori sindacalizzati e la maggiore precarietà hanno ridotto il campo d’azione di Histadrut, incapace a rinnovarsi. Per questo, dal 2000 a oggi sono sorti piccoli sindacati indipendenti, in risposta al bisogno di protezione dei lavoratori israeliani. Tra questi ci sono Wac Ma’an e Koach LaOvdim, entrambi fondati sulla volontà di annullare le divisioni etniche nel mercato del lavoro. Entrambi si sono sviluppati intorno a una struttura il più democratica possibile, attraverso la creazione di comitati interni ai luoghi di lavoro e a referenti locali e nazionali.

Una sorta di piramide, la cui base è la forza lavoro che elegge i propri rappresentanti e autogestisce gli strumenti di lotta. “Negli ultimi 5 anni – ci spiega Adiv – abbiamo rafforzato la nostra presenza in molte fabbriche, nelle scuole e nel settore sanitario. Oggi rappresentiamo qualche migliaio di lavoratori, ebrei e arabi. Operiamo eliminando le differenze etniche, convinti che dalle lotte dei lavoratori possa nascere una nuova coscienza di classe che vada al di là della razza. Quest’anno abbiamo già siglato 3 contratti aziendali e stiamo lavorando alla stipula di altri 3”.

Analoga è la storia di Koach LaOvdim, nato nel 2007: 13 mila lavoratori tesserati (di cui circa 400 immigrati), per lo più insegnanti, impiegati in aziende chimiche e compagnie di pulizie, sanitari, badanti. Ogni 50 dipendenti viene eletto un rappresentante d’azienda che partecipa all’assemblea nazionale, l’ente che firma i contratti collettivi. “Il nostro obiettivo – ci spiega Balaban – è raggiungere quota 60-70 mila membri, per poter guadagnare, anche attraverso l’eventuale federazione con altri sindacati indipendenti, un potere contrattuale che ci consenta di sederci allo stesso tavolo del governo e dei rappresentanti dei datori di lavoro”.

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