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18/09/2014

Piano Obama contro l’Isis: funzionerà?

Come si sa, a conclusione del recente vertice Nato, Obama ha indetto l’ennesima crociata per sconfiggere il nuovo nemico mediorientale: l’Isis. Dopo di che ha annunciato un programma per la sua liquidazione articolato in tre fasi:

- la prima consiste in una serie di attacchi aerei, per creare un cordone intorno all’area sotto il controllo dell’Isis;

- la seconda fase sarà quella di armare e addestrare ciò che rimane dell’esercito iracheno, i peshmerga curdi e le tribù sunnite dell’al Anbar, al confine con i territori dello Stato Islamico, per creare una “coalizione di prima linea” dietro la quale opererebbero gli occidentali e la coalizione araba di cui ci apprestiamo a dire;

- la terza fase (articolata in 36 mesi) sarà quella della distruzione dell’Isis privandolo delle sue fonti di finanziamento e riconquistando il terreno palmo a palmo grazie ad un’offensiva condotta a terra dalla coalizione “di prima linea” forse con la partecipazione di reparti turchi, giordani e libanesi.

La coalizione occidentale è in via di allestimento e, gli americani dicono che una quarantina di paesi scalpitano per farne parte; per ora c’è il si solo di Francia, Italia, Gran Bretagna, Polonia, Canada, Germania, Turchia, Danimarca, Australia.

Quanto alla coalizione promossa dalla Lega araba, essa sarebbe costituita da Arabia Saudita, Iraq, Kwait, Libano, Emirati Arabi Uniti, Quatar, Egitto, Giordania, Barhein e Oman. Ora vediamo che possibilità di successo può avere questo piano e le possibili obiezioni che possono essere fatte.

Iniziamo dal piano politico: la coalizione occidentale, per ora, è tutta sulla carta ed anche fra i paesi che hanno dato la loro adesione di massima, non si osserva alcuna particolare ondata di entusiasmo. Peraltro, l’unico pezzo che assumerebbe un ruolo reale sarebbe la Turchia, sia per il controllo delle frontiere da cui passano i volontari jhiadisti occidentali, sia come retrovia di parte delle forze militari della coalizione. Qualche aiuto verrebbe da francesi, inglesi, tedeschi e italiani e, per il resto arriverà qualche telegramma di solidarietà.

Ma questo significa fare i conti con Ankara che, verosimilmente, chiederà che non si dia troppo spazio all’”asse sciita” (Siria ed Iran) e, tantomeno, che si armino i curdi, nemmeno quelli irakeni, che, dopo, chiederebbero l’indipendenza. Vero è che i curdi sono appena entrati nel governo di unità nazionale a Bagdad, ma questo non vuol dire che un minuto dopo la fine della guerra, i Peshmerga, ormai armati come un esercito regolare, proclamerebbero l’indipendenza (e farebbero benissimo). E ad Ankara non andrebbe bene neanche l’indipendenza del solo Kurdistan iraqueno, perché, comunque, esso diverrebbe rapidamente la calamita per i suoi curdi, la retrovia strategica della guerriglia del Pkk. Fare dei patti rigidissimi con i Peshmerga per evitare questo rischio in futuro? E sai quanto valgono i patti di questo genere!! Per cui, non funziona neppure l’idea di armare i soli Peshmerga lasciando fuori il Pkk (che peraltro, sinora è stato l’unico a suonarle a quelli dell’Isis) oltre che per le ragioni sul dopo, perché, in questi contesti, non c’è alcun controllo dei flussi delle armi.

Poi c’è il “nodo Siria”: se si tiene fuori della coalizione il regime di Assad si perde un pezzo importante per la “coalizione di prima linea”, ma se li si ammette occorre lasciar cadere l’appoggio all’ “opposizione moderata” interna (che infatti ha già posto il veto all’allargamento della coalizione ad Assad) e far ingoiare questo alla Turchia ed all’Arabia Saudita. E c’è il problema dei bombardamenti oltre la linea di confine fra Iraq e Siria. Gli americani sperano di bombardare a piacimento la parte siriana del Califfato, nella speranza che l’Esercito Libero Siriano (l’Esl, l’opposizione cosiddetta moderata ad Assad) occupi i territori liberati, facendone la propria base. Damasco, dal canto suo, si è detta pronta ad autorizzarli e supportarli, ma solo se coordinati con le sue forze armate (tradotto: solo se viene riconosciuto come alleato, con conseguente cessazione delle ostilità nei suoi confronti e liquidazione dell’Els), diversamente riterrà il bombardamento un atto di aggressione ed i russi gli sono andati subito dietro, parlando quantomeno di una autorizzazione Onu. Dunque, almeno per ora, gli americani potrebbero lasciar perdere la parte siriana dell’Isis. Solo che, a quel punto, l’azione aerea si riduce ad un solo pezzo, con efficacia più che dimezzata. Ma chi lo va a spiegare ad Ankara e Ryiad che bisogna ammettere Damasco fra gli invitati alla festa?

Il guaio è che il piano Obama ragiona come se Siria ed Iran non ci fossero: mentre gli aerei ed i droni americani bersagliano gli jhiadisti per consentire all’Els di insediarsi al posto dell’Isis, i siriani e gli iraniani che fanno? Danno una festa da ballo? Organizzano battute di caccia alla volpe nel deserto? Indicono un torneo di tennis?

Va da sé che entrambi si infileranno con le loro truppe appena se ne presenti l’occasione. Potrebbero dunque prendere corpo due coalizioni: quella curdo-turco-sunnita e quella sciita. Il guaio è che il governo di Bagdad è diretto dagli sciiti filo iraniani, per cui a quel punto da che parte starebbe? Militarmente Bagdad non vale molto, ma politicamente come si fa a tenerla fuori? Dunque, dal punto di vista politico possiamo concludere che questa è una coalizione tenuta insieme con lo sputo.

E questo si connette ad un altro nodo da sciogliere: come riorganizzare l’esercito iraqueno dopo la splendida prova data a giugno, quando si è comportato come la “Brigata coniglio” davanti a forze tre volte meno numerose e molto male armate, dandosi ad una indecorosa fuga che ha lasciato in mano all’Isis armi pesanti, veicoli, munizioni, denaro, prigionieri. E’ con questi soldati che dobbiamo far la guerra?

La cosa più probabile è che Bagdad riorganizzi le sue forze armate sulla base di corpi etnici: una parte curda, riconoscendo i Peshmerga come reparti regolari del proprio esercito (e già i curdi chiedono armi pesanti), una parte sunnita composta dalle tribù al Anbar e simili, ed una terza parte sciita. Però questo ha evidenti costi politici: i sunniti sarebbero sicuramente la parte di gran lunga minoritaria, anche perché gli ex regolari delle forze armate baatiste, per ora, sono passate in blocco con l’Isis. La parte sciita dell’esercito diverrebbe rapidamente la più consistente ed armata, sia perché gli sciiti sono numericamente la parte più consistente della popolazione, sia perché il meno che ci si possa attendere è che essa sarebbe rapidamente rinforzata da “volontari” iraniani e godrebbe anche di consistenti aiuti militari del potente vicino. Quanto ai curdi, finalmente disporrebbero di un esercito regolare e, una volta presidiato il proprio territorio con un esercito regolare, chi li spianterebbe? Non certamente il pezzettino di esercito sunnita. Quanto agli sciiti, diventerebbero i padroni dell’intero Iraq, Kurdistan a parte, e sarebbero i sunniti, a quel punto, a rivendicare l’indipendenza. La tripartizione dell’esercito su base etnica è solo la premessa della secessione dell’Iraq. D’altro canto, mantenere l’esercito su base unitaria, con soldati agli ordini di ufficiali di diversa etnia, con comandi di unità misti e, quindi, attraversati da reciproche diffidenza, con un comando unico in cui coesistono progetti politico-militari rivali, non funzionerebbe mai.

Nell’incredibile comportamento dell’esercito regolare iraqueno a Mossul, ignominiosamente fuggito senza combattere, hanno pesato tanto la scarsa determinazione dei soldati, quanto l’inefficienza del modello “Unitario” franato alla prima verifica.

Sempre a proposito dei limiti militari del piano, non convince affatto questa idea della primazia aerea come elemento in sé risolutore. La cosa ha funzionato in Kosovo perché era la prima volta ed in Somalia perché lo scenario era ben diverso. Ma già in Libia ha mostrato un effetto molto più ridotto: i gheddafiani, che avevano studiato il precedente kosovaro, avevano elaborato tattiche ad hoc: i combattenti convergevano all’improvviso sugli obiettivi, senza divise e in gran parte con mezzi civili, per disperdersi subito dopo. Anche l’artiglieria viaggiava su comunissimi camion e i pochi blindati eventualmente impiegati, ripiegavano subito dopo in una serie di nascondigli nelle città, per tornare a raccogliersi alla successiva operazione. Un modello di azione del genere rende scarsamente utile l’aviazione, se non in tempi molto lunghi. Anche perché, se gli jhiadisti si asserragliano nelle città che si fa? Si bombardano le città? E chi glielo spiega ai Peshmerga che occorre bombardare Mossul?

E questo è il maggiore difetto del Piano Obama: tre anni (che facilmente diventerebbero quattro o cinque) sono un tempo infinito nella politica del nostro tempo e permettere al Califfato di mettere radici come realtà statuale sarebbe assai pericoloso. In primo luogo, l’Isis, grazie agli alleati ex baatisti, ha dimostrato di saper mettere su un apparato amministrativo e fiscale pienamente funzionante, per cui l’assedio finanziario potrebbe essere parzialmente compensato (sempre che realmente funzioni) e la cosa andare avanti molto per le lunghe.

In secondo luogo una coalizione che già nasce con queste linee di frattura fra “asse sciita” da una parte e sunniti dall’altra, fra Turchi e curdo-sciiti, segnato dalla rivalità fra Sauditi e quatarioti ecc. ecc. è un miracolo che resti in piedi per un po’ di mesi e forse uno o due anni, ma che non si frantumi in un tempo indefinitamente più lungo è una pretesa fuori dalla realtà. Anche perché una guerra non ha un andamento lineare e prevedibile, per cui l’occasionale sconfitta di uno dei pezzi della coalizione può determinarne il ritiro o modifiche di atteggiamento degli altri partner.

In terzo luogo, non dimentichiamoci che una parte non irrilevante dei pozzi petroliferi siriani ed iraqueni sono nelle mani dell’Isis, per cui, se quel petrolio continua ad essere commercializzato in qualche modo, il blocco ai finanziamenti Isis rimane nel libro dei sogni, se invece viene bloccato e dovesse combinarsi con il blocco delle forniture russe di gas, possiamo prevedere tranquillamente una impennata dei prezzi petroliferi. Siamo sicuri che l’Europa, ancora oggi in crisi, sia in grado di reggere questo urto? Considerato poi, che una guerra aerea della durata anche solo di tre anni (per non dire delle spese in aiuti militari agli alleati), dal punto di vista dei costi non è uno scherzo, gli Usa sarebbero  in grado di sostenerla, senza ripercussioni economiche di qualche entità?

Ancora, per l’Isis durare tre o quattro anni sarebbe già un successo straordinario ed abbiamo già visto in azione suoi imitatori in Nigeria e Libia, cellule spuntano in India, Egitto, Algeria, Tunisia, Indonesia. In tre anni di conflitto, quali altri fronti si aprirebbero nel mondo islamico? E dopo l’eventuale vittoria su Al Baghdadi, quale altro “nemico numero 1” sarebbe spuntato?

La verità è che l’accusa dei repubblicani americani ad Obama di non avere nessuna strategia per il Medio Oriente, non è affatto una calunnia (di cui il Presidente si lamenta) ma è la semplice verità: il Premio Nobel ha in testa poche idee ma ben confuse e quello che ha delineato non è un piano strategico, ma una chiacchiera da bar.

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