di Fabrizio Casari
Dopo l’ultimatum UE di una settimana, tempo nel quale verranno
presentate le nuove sanzioni occidentali contro Mosca, a far crescere
notevolmente la tensione politica e militare tra Russia e Nato, arriva
puntuale il premier britannico Cameron, che in una intervista al Financial Times
informa dell’intenzione di attivare una forza militare a comando
britannico che comprenderebbe militari di Gran Bretagna, Danimarca,
Norvegia, Paesi Bassi, Estonia, Lettonia e Lituania (il Canada si
sarebbe detto disponibile).
Una forza di spedizione congiunta denominata JEF, dotata di unità
terrestri, aeree e navali forte di diecimila uomini. Si muoverebbe
continuamente ai confini sud-orientali russi e, seppur in funzione di
deterrenza e come segnale di disponibilità alla risposta rapida,
utilizzerebbe proprio l’assenza di stanzialità e basi fisse per evitare
la violazione degli accordi tra Nato e Mosca in ordine all’equilibrio di
forze in Europa.
Difficile credere che questo schieramento possa
impensierire Mosca sotto il profilo militare, dal momento che la
sproporzione di forze è tale da non essere messa in discussione da
questa nuova creatura militare partorita dal sempre gravido ventre degli
Stranamore occidentali. E’ invece plausibile che l’iniziativa intenda
mettere di fronte al fatto compiuto Germania e Italia, che continuano a
chiedere una soluzione negoziata. L’operazione Nato, voluta da Obama e
attuata da Cameron, sembra destinata a rassicurare i paesi dell’Est che
continuano a chiedere con cadenza quotidiana soldi e guerra per
rinsaldare le rispettive gang di mafiosi al potere.
Non gli si può concedere una guerra termonucleare globale per
difendere Kiev ma si può far finta di non limitarsi alla guerra delle
sanzioni economiche. Il messaggio è comunque indirizzato anche a Mosca,
indicando la disponibilità ad alzare ulteriormente l’asticella del
confronto militare alle sue frontiere utilizzando i paria ex Patto di
Varsavia.
Si tratterà di vedere se e come il dispositivo pensato
da Cameron potrà concretizzarsi e quale sarà la risposta di Mosca, che
riafferma con Putin l’intenzione di non farsi accerchiare e di garantire
alle regioni che vogliono continuare ad essere legate alla Russia tutto
l’appoggio necessario. Ma volendo scongiurare una escalation militare,
al momento la questione delle sanzioni occidentali e delle contro
sanzioni russe rappresentano il cuore del conflitto, essendo la
soluzione politica, la grande assente dalla discussione europea,
ancorché l’unica soluzione possibile. E sono quindi le sanzioni il
terreno dove si misureranno le contraddizioni europee nella prossima
settimana.
Nonostante la questua quotidiana di Kiev e degli altri
paesi dell’Est, il danno per l’Europa è decisamente elevato. Secondo
alcune stime indipendenti il complessivo danno possibile per l’Occidente
con la guerra economica alla Russia è di 1200 miliardi di Euro, 190 dei
quali a carico della sola Germania. Solo per quanto riguarda il settore
agricolo ammontano a due miliardi di Euro i mancati introiti del 2014
derivanti dalle esportazioni europee verso la Russia, 706 milioni solo
per quanto riguarda l’Italia.
Ma sono importi destinati a crescere e a ripercuotersi nell’economia
più generale, dal momento che la mancata esportazione dei prodotti
deteriorabili renderà necessario immetterli nei mercati interni già
saturi, con il risultato di dover applicare ulteriori abbassamenti dei
prezzi complicando così ulteriormente la dinamica domanda-offerta già
messa a durissima prova dalla deflazione. Deflazione che non è positiva;
non viene infatti da una riduzione dei prezzi data da maggiore
concorrenza, ma da l’abbassamento dei prezzi determinato dalla riduzione
dei consumi causata dalla contrazione delle entrate, conseguenza ovvia
della crisi occupazionale.
Nemmeno
pensare poi, a quello che avverrà nei prossimi due mesi, quando il gas
russo, dal quale dipendono quasi tutti all’Est e che risulta
determinante anche per l’approvvigionamento di Germania e Italia,
potrebbe essere bloccato da Mosca oppure venduto a prezzi decisamente
più alti di quello pagato fino ad ora, determinando così un costo ancora
più alto per tutta la filiera e che andrebbe a colpire l’utenza finale.
Non è peraltro escluso che nel caso l'escalation occidentale contro
Mosca proseguisse, Putin potrebbe addirittura scegliere di bloccare
l’export del gas, la cui cosa avrebbe come risultato lasciare mezza
Europa nella morsa del gelo.
Sono diversi quindi gli elementi che
spingono Germania, Italia e la stessa Francia ad un atteggiamento meno
ideologico nel confronto tra Bruxelles e Mosca. L’impressione è che
l’Europa, nella fretta di assecondare le mire statunitensi di
contrastare la Cina nel Nord dell’Eurasia e di limitare il
consolidamento dell’alleanza euroasiatica, sia rimasta con il classico
cerino in mano. Aprire un nuovo scontro in un nuovo scenario con Russia e
Cina, infatti, è tutto nell’esclusivo interesse statunitense, che nella
limitazione dell’espansione dell’alleanza tra Mosca e Pechino vede il
suo core business per la difesa dell’impero unipolare.
Tutt’altra
questione per quanto riguarda Mosca, che ha già trovato nel mercato
euroasiatico e nella Turchia la riallocazione di alcuni dei suoi
prodotti oggi bloccati dalle sanzioni e che ha in Argentina e Brasile i
nuovi fornitori agricoli (dal grano alle verdure e alla frutta) che
importava dall’Europa e che ha già un accordo con la Cina per
l’assegnazione delle quote di gas fino ad ora assegnate al Vecchio
continente.
Rischia dunque di costare carissima la scelta dei
golpisti di Kiev di aderire ai trattati europei, in opposizione a quanto
il legittimo governo di Yanukovic aveva voluto, cioè l’adesione
all’Unione Doganale Euroasiatica, composta da Russia, Bielorussia e
Kazhakistan, che prevedeva una circolazione di merci senza dazi e a
tariffe uniche nei tre paesi per il commercio con i paesi terzi e
l’approvvigionamento energetico a prezzi calmierati da parte di Mosca.
L’adesione di Kiev agli accordi con Bruxelles, siglata nello scorso
Giugno dai golpisti guidati da Poroshenko, non prevedono
altro che prestiti finanziari dal FMI a fronte di prezzi calmierati per
le esportazioni ucraine verso l’Europa e sono da escludersi donazioni di
entità determinanti da parte europea, vista la crisi drammatica in cui
si trova. Dunque non vi sono questioni di convenienza economica per
Kiev, ma solo di natura politica-ideologica. L’adesione agli accordi
economici preferenziali con Bruxelles è la porta di servizio dalla quale
passare per la successiva richiesta, quella di entrare nella Nato.
L’Europa,
infatti, ha scelto di aizzare la destra ucraina al colpo di stato
proprio per rompere con Mosca. Primo fondamentale passaggio per
incorporare Kiev nella Nato e poter così ulteriormente allargare la
presenza dell’alleanza Atlantica a Est, arrivando nel giro di poco tempo
a piazzare armamenti e uomini ai confini con la Russia, in violazione a
quanto pattuito con Mosca solo pochi anni addietro e ribadito pochi
mesi orsono.
Una
richiesta di adesione alla Nato avrebbe messo la Russia con le spalle
al muro e l'avrebbe probabilmente spinta, da accerchiata, ad una
risposta militare immediata, per quanto limitata, che indicasse senza
equivoci l’indisponibilità a scherzare con la sua sicurezza. Ma
Washington non vede altra strada che non sia quella di esercitare
minacce e pressioni a Pechino e Mosca per ridurre la loro crescente
influenza nello scenario globale e mette nel conto sacrificare pace e
sicurezza di chiunque.
In questo senso l’Europa, proprio per
sfilarsi dalla morsa nella quale Washington intende stringerla deve
cercare nella soluzione politica al conflitto ucraino la via d’uscita.
Lo scioglimento del Parlamento ucraino da parte di Poroshenko e
l’indizione di elezioni per il prossimo 26 Novembre, risultano una
manovra per cancellare la presenza parlamentare dei rappresentanti di
Crimea e Donbass e ridurre quella dell’estrema destra con cui Bruxelles e
Washington non gradiscono apparire nelle foto di rito. Si vedrà come
andranno le elezioni, visto che alle ultime la maggioranza dei voti sono
andati ai filorussi guidati da Yanukovic e che la drammatica crisi
economica, con aggiunte le minacce di guerra, stanno provocando proteste
massicce a Kiev contro il re del cioccolato.
Ammesso quindi che
Poroshenko possa vincere (cosa non semplice) dovrà comunque decidere di
trovare una soluzione politica alla crisi con Mosca. Tanto nei colloqui
in Finlandia, come nell’incontro tra Putin e Poroshenko a Minsk, Kiev al
momento si dice disposta a riconoscere un’ampia autonomia alla regione,
ma Putin ritiene questo assolutamente insufficiente sotto il profilo
della sicurezza delle sue frontiere, per questo, propone la nascita di
uno stato vero e proprio che tenga insieme Crimea e Dombass e che
rappresenti una sorta di cuscinetto tra Russia e Occidente.
Non
sembrano, quelle di Putin, pretese eccessive; a maggior ragione dopo che
i bombardamenti ucraini su Donetsk e le migliaia di civili morti
nell'assalto dell'esercito di Kiev alle città e ai villaggi del Donbass
non favoriranno certo la convivenza nel prossimo futuro. Dunque la
proposta di Putin è praticabile e di buon senso: la dimensione
dell’Ucraina è cosa assolutamente trascurabile.
Bruxelles potrebbe effettivamente lavorare per convincere Washington
che l’Europa non può pagare un prezzo economico altissimo per legarsi ad
un paese insignificante (se non per essere utilizzato in funzione
antirussa) o essere addirittura portata sull’orlo di una guerra per
assecondare i piani del Pentagono. Cominciando col dire che l’opzione
militare è scartata e che la soluzione del conflitto deve essere
politica, Bruxelles si farebbe un favore. Pazienza se gli Stranamore di
Washington, i nazisti di Budapest e Varsavia e i golpisti di Kiev ci
resteranno male.
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