Alla riunione di ieri del Gruppo di contatto a Minsk, i rappresentanti di DNR e LNR, Denis Pušilin e Vladislav Dejnego hanno dichiarato che le Repubbliche popolari del Donbass accettano di rinviare le lezioni locali ai primi mesi del 2016. Le cancellerie europee tirano un sospiro di sollievo, pur se la parte del “direttore d'orchestra” l'ha giocata, come sta avvenendo anche in Medio Oriente, il presidente russo Vladimir Putin.
Quello delle elezioni locali nel Donbass era stato uno dei punti principali, insieme alla dichiarazione sulla “integrità territoriale dell'Ucraina senza la Crimea”, uscito dall'incontro parigino di venerdì del “Quartetto normanno”: Hollande, Merkel, Putin e Porošenko. Secondo il Minsk-2, il voto nelle Repubbliche popolari avrebbe dovuto tenersi entro il 31 dicembre e DNR e LNR lo avevano già fissato rispettivamente per il 18 ottobre e il 1 novembre. Venerdì, Hollande aveva dichiarato che, per rispettare le formalità che ne garantiscano la piena legittimità, la data avrebbe dovuto essere spostata e lui e Merkel avevano chiesto a Putin di far pressione sul Gruppo di contatto affinché le Repubbliche popolari accettassero sia il rinvio, sia le norme generali ucraine sul voto. Si attendeva quindi la riunione del Gruppo di contatto, per ufficializzare una risposta che, nei termini della richiesta fatta a Putin da Hollande e Merkel, appariva abbastanza scontata, così come in effetti è stata: sono suonati abbastanza retorici i commenti a caldo delle agenzie russe, secondo cui “il Cremlino appoggia la decisione delle Repubbliche popolari”. Più sincera la dichiarazione del presidente della Commissione esteri del Consiglio di Federazione, Konstantin Kosačev: "Per me è molto importante, in tale situazione, percepire che la decisione di Donetsk e Lugansk è venuta dopo il vertice di Parigi e che Mosca è riuscita a lavorare seriamente con Donetsk e Lugansk facendo leva sulla nostra autorità e le nostre possibilità in questi territori. È chiaro che noi non li controlliamo, non possiamo dare indicazioni agli abitanti di Donetsk e Lugansk”, ha detto Kosačev.
Ora dunque, DNR e LNR hanno annunciato ufficialmente e congiuntamente di essere disposte a posticipare il voto al prossimo 21 febbraio, a condizione che, nel frattempo, Kiev attui tutte le condizioni previste dall'accordo di Minsk del febbraio scorso, il cosiddetto Minsk-2: riconoscimento dello status speciale per il Donbass, amnistia generale, scambio completo di prigionieri, sminamento del territorio su cui si è combattuto per un anno e mezzo, nessun perseguimento dei combattenti delle milizie, modifiche concordate della legislazione ucraina che rendano effettivamente possibile il voto. Attualmente, infatti, possono candidarsi solo i rappresentanti di partiti registrati in Ucraina, quali non sono le formazioni attive in DNR e LNR. Un pacchetto niente affatto semplice da esperire; nelle attuali condizioni di zuffe interne al regime di Kiev, tra chi è assolutamente contrario a ogni compromesso e chi lo accetta un po' per finta e un po' per necessità finanziaria, pare che solo un deciso intervento di alcuni – non tutti – ben precisi sponsor occidentali del regime golpista potrà ridurre Kiev alla ragione. La riprova si è avuta già ieri alla Rada suprema, dove è iniziata la discussione – che prosegue oggi – sui risultati del summit parigino: tra i banchi del parlamento ucraino non ci si limita, come in altri scranni europei, ai semplici gesti volgari – si passa direttamente alle vie di fatto! E d'altronde, non più tardi di ieri l'altro, il vice capo dell'amministrazione presidenziale ucraina, Konstantin Eliseev, spiattellava che Kiev non ha alcuna intenzione di dialogare con DNR e LNR, perché nei territori non controllati da Kiev “oggi ci sono i combattenti, coi quali noi non dialoghiamo; punto e basta”. Eliseev aveva anche dichiarato che l'Ucraina non intende attuare le misure contemplate nel Minsk-2: “Nel nostro dizionario non esiste il concetto di status speciale, abbiamo solo una legge sul regime speciale di autogoverno locale in alcune province delle regioni di Donetsk e Lugansk". Non sono certo dichiarazioni da poco che, oltre a sconfessare platealmente Porošenko, lasciano pochi dubbi su quale delle ambasciate occidentali a Kiev le abbia suggerite.
Comunque, Pušilin e Dejnego hanno sottolineato, riportava ieri Interfax, che la decisione di accettare il rinvio del voto è stata presa dopo lo studio delle raccomandazioni di Hollande e Merkel a conclusione del summit del 2 ottobre, le consultazioni con Russia e Osce e le disposizioni emanate dai presidenti delle due Repubbliche, Aleksandr Zakharčenko e Igor Plotnitskij. Soprattutto, hanno tenuto a evidenziare Pušilin e Dejnego, la nostra decisione “non è un passo indietro, bensì un passo di incontro e ci aspettiamo lo stesso da parte di Kiev. Rileviamo che il Quartetto normanno ha tenuto conto della proposta della LNR sul rinvio delle elezioni nel Donbass al 21 febbraio 2016, a condizione della piena attuazione da parte di Kiev dei punti politici del Minsk-2”.
I rappresentanti di DNR e LNR hanno sottolineato ancora una volta che il percorso di modifiche legislative deve essere concordato tra le Repubbliche popolari e Kiev e non deciso unilateralmente da quest'ultima: quello del dialogo diretto tra centro e sudovest del paese, è un punto su cui la leadership del Donbass e Mosca hanno sempre insistito e che era stato ribadito da Putin al vertice di Parigi. Vertice nel corso del quale sia Hollande che Merkel avevano messo l'accento sul riconoscimento dello status speciale per il Donbass: secondo il primo, esso dovrà entrare in vigore a partire dal giorno delle elezioni; per la seconda, dovrà essere fissato nella Costituzione ucraina.
Ma, ancora una volta, c'è solo da augurarsi che tutto proceda linearmente, da qui al 21 febbraio: ieri, il rappresentante ucraino al Gruppo di contatto, l'ex presidente Leonid Kučma, mentre annunciava che “la parte ucraina saluta la dichiarazione dei rappresentanti di alcune province delle regioni di Donetsk e Lugansk sul rinvio delle elezioni del 18 ottobre e del 1 novembre, nel contempo fa notare la necessità di annullare i risultati del voto del 2 novembre 2014”. Un voto, è bene ricordarlo, che aveva visto una straordinaria affluenza popolare e che aveva confermato nella carica gli allora “facenti funzione” di leader di DNR e LNR, Aleksandr Zakharčenko e Igor Plotnitskij. Le code fuori dai seggi avevano “scioccato” gli osservatori stranieri (italiani, tedeschi, americani, cechi, austriaci, ecc.), unanimi nel rilevare la “perfetta organizzazione, la democraticità e legittimità della consultazione” e avevano rappresentato una risposta a Kiev, Washington, UE e Osce, che rifiutavano di riconoscere la validità del voto.
Ad ogni modo, già all'indomani di Parigi, non mancava chi evidenziava la piena indisponibilità di Kiev a rispettare il “pacchetto di Minsk”. L'attuazione di quegli accordi, ha dichiarato alla russa Vzgljad il direttore dell'Istituto ucraino di analisi politica Ruslan Bortnik, “significa la piena destabilizzazione del potere di Porošenko: semplicemente, egli non gli sopravviverebbe. Ma egli non può nemmeno non attuarli”. Secondo Bortnik, "a Parigi non si sono fatti progressi. Il fatto che le delegazioni siano tornate a casa e abbiano iniziato a dare ognuno una interpretazione diversa degli accordi dimostra come, purtroppo, non si siano accordate su nulla. In realtà le parti non sono disposte a compromessi e quindi la risoluzione del conflitto nel Donbass non si vede ancora". In un quadro di deterioramento economico, prevede Bortnik, cadranno ancora di più le quotazioni di Porošenko, già ora a non più del 20% dei consensi. E ciò significa un calo del controllo sull'attuale Parlamento, in linea di principio contrario agli accordi di Minsk”.
Ieri Julija Timošenko ha dichiarato che la sua frazione parlamentare, “Patria”, voterà per la legge sulle elezioni nei “territori occupati” solo dopo che “saranno disarmate le formazioni illegali”. Il capogruppo degli ultranazionalisti di “Autoaiuto”, Oleg Berezjuk, a proposito del vertice di Parigi, ha chiesto al Ministro degli esteri Pavel Klimkin: “Abbiamo dato il paese in concessione?”, con riferimento all'accordo che, a detta ucraina, sarebbe stato sottoscritto “a tre”, alle spalle di Porošenko, tra Hollande, Merkel e Putin.
In un paese in cui, con il cessate il fuoco nel Donbass, le squadre militari dei battaglioni nazionalisti e neonazisti cercano ogni sotterfugio per procurarsi di che vivere, dalla vendita delle armi al mercato nero, alle estorsioni ai danni dei trasportatori con il blocco della Crimea – un paese in cui l'ultima novità è quella di riuscire a racimolare 30 euro dalla vendita di contrabbando delle “decorazioni” di partecipante alla “Operazione antiterrorismo” nel Donbass e al cui vertice siedono individui che propongono all'Isis di pubblicare le foto degli aviatori russi in Siria – non procura particolari speranze sulla propria volontà di una soluzione ragionevole della crisi che si protrae da un anno e mezzo. Anche per questo, un qualche accenno di autonomia decisionale europea nei confronti di chi sta dietro alle decisioni più disgraziate di una junta antipopolare e bellicista, potrebbe forse costituire il lucignolo in grado di offrire un barlume di luce più consistente.
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