Al termine della Seconda Guerra
Mondiale, la Germania nazista fece i conti con i propri gerarchi a
Norimberga. In Italia non ci fu un simile processo. Si preferì infatti
fin da subito nascondere sotto il tappetto della neonata Repubblica i
pezzi grossi del regime ancora vivi: chi era fuggito all’estero, chi non
aveva abbandonato il fascismo ma aveva solo cambiato nome al partito…
Nessuno, o quasi, pagò per quei crimini.
Per questo oggi non conosciamo tante storie che hanno toccato il nostro Paese.
Capitoli interi che si è sempre preferito tenere nascosti, per non
turbare il delicato equilibrio sociale in cui si risvegliò l’Italia dopo
la Liberazione, e che ancora oggi ignoriamo. Come i campi di concentramento allestiti dall’Italia per internare prigionieri civili slavi,
provenienti dalla provincia di Lubiana, all’epoca accorpata al Regno e
dislocati sia nell’ex-Jugoslavia che nella Penisola, in particolare a
Gonars e Visco, paesini in provincia di Udine.
I fatti legati all’occupazione italiana
dei Balcani sono uno dei capitoli meno raccontati del fascismo, e
costituiscono la premessa per ciò che saranno negli anni successivi le
foibe. Ma andiamo con ordine: dopo aver dichiarato guerra alla
Jugoslavia insieme alla Germania, l’11 aprile del 1941 le truppe italiane entrarono a Lubiana, ponendola sotto il suo controllo insieme alla zona circostante.
Come ricorda Boris Mario Gombač
nell’articolo “Nei campi di concentramento fascisti di Rab – Arbe e
Gonars”, pubblicato sulla “Rivista telematica di studi sulla memoria
femminile”: “A differenza dei tedeschi, che avevano stretto la loro
zona d’occupazione in un abbraccio mortale, l’Italia preferì
un’occupazione diversa, dando alla Provincia di Lubiana un’autonomia che
prevedeva una Consulta formata da 14 consiglieri sloveni”. Gli inizi non furono dunque caratterizzati da drastiche violenze.
Le cose cambiarono quando i partigiani sloveni iniziarono a colpire duramente gli eserciti invasori.
Herman Janež, presidente del Comitato internati di Rab, in
un’intervista ha definito questo cambio di linea politica necessaria “per
stroncare l’aiuto che la popolazione offriva alla resistenza slovena
che operava nella regione di Kočevje, dove l’opzione della minoranza
autoctona tedesca per il Reich aveva completamente svuotato un’intera
regione”.
Lui all’epoca aveva 7 anni e ricorda così il momento della partenza: “I
soldati entrarono urlando, buttandoci giù dai letti e colpendo con i
calci dei fucili chi si fermava. Siamo stati ammassati nella piazzetta
dietro alla chiesa. (…). Prima ci hanno fatto fare sotto scorta la
strada a piedi fino al centro di Čabar (…). Poi, il giorno seguente, ci
hanno divisi in tre gruppi, uomini, donne e bambini e hanno fatto
l’appello. Se qualche uomo mancava, voleva dire che era partigiano e
quindi tutta la famiglia rischiava di essere passata per le armi”.
Insieme a molti altri fu spedito nel campo di Arbe, Rab in croato, che Alessandro Marzo Magno ha definito su Linkiesta “il più terribile e mortale fra i campi di internamento “per slavi” messi in piedi dall’Italia (soprattutto dal Regio esercito) durante l’occupazione della Jugoslavia”.
Lo storico Carlo Spartaco Capogreco ha raccolto i nomi degli altri
luoghi d’internamento, diventati campi di concentramento “de facto”, nel
suo libro “I campi del duce” (Einaudi). Il Friuli Venezia Giulia ne ospitava sei: quello più importante fu a Gonars, ma anche a Gorizia ce ne furono due (Piedimonte e Cighino).
Le condizioni igieniche erano pari a
quelle dei più tragicamente famosi lager nazisti: a causa del
sovraffolamento di Arbe, donne e bambini vennero trasferiti in altri
posti. Soltanto tra Visco e Gonars si arrivò a contenere quasi 10mila
prigionieri, ridotti alla fame, invasi da pidocchi e malati: “Dal 15 dicembre 1942 al 15 gennaio 1943 ne sono morti 161. In media muoiono 5 persone al giorno” scriveva il padre salesiano Tomec in una sua lettera del febbraio ’43, riportata dalla storica Alessandra Kersevan: “Nel monumento ossario del cimitero di Gonars – scrive Kersevan – ci
sono i resti di 453 persone, ma da diversi documenti i morti nel campo risultano essere stati oltre 500. Di essi circa un centinaio erano
bambini di meno di un anno”.
Le atrocità subite dagli internati
durante il tragitto per raggiungere i vari campi e il durante la
permanenza li ha raccontati Marija Poje, ex internata sia ad Arbe che in
Friuli, in un’intervista rilasciata a Gombač: “Ormai la sopravvivenza – racconta
– era diventata una lotta di tutti contro tutti. Si lottava contro gli
abitanti delle altre tende, contro i militari ma anche contro i nostri
uomini che dall’altra parte della rete pretendevano dalle mogli il loro
rancio quotidiano. Nelle nostre menti era inciso solo un pensiero: chi
riusciva a sopravvivere un giorno più degli altri era vivo e chi non ce
la faceva lo portavano giù verso le fosse comuni”.
Dopo l’8 settembre 1943, i campi di concentramento per gli slavi vennero chiusi e distrutti.
A Gonars, al posto di quell’inferno, oggi c’è il “Parco della memoria”,
inaugurato nel 2009, ma c’è ancora tanto da fare per far conoscere
questo capitolo nero mai completamente svelato. Anche perché non si
tratta di quattro gatti: secondo le stime dello storico sloveno Tone
Ferenc, ricavate dall’analisi di documenti militari italiani, è
attendibile che siano passati più di 25.000 tra sloveni e croati nei
campi italiani e di Arba.
Questo massacro di civili, all’inizio non premeditato consciamente dai vertici militari ma poi concretizzatosi senza che nessuno cercasse di evitarlo, ha gettato le basi per le vendette assassine dei partigiani titini a guerra conclusa:
italiani e sloveni contrari al comunismo furono gettati dentro gole
carsiche profondissime, note come foibe, e condannati a lunghe morti
atroci, se non morivano sul colpo. Un tema che è stato spesso impugnato
dalla destra italiana, dimenticandosi ciò che c’era a monte, ma anche
ignorato colpevolmente dalla sinistra, che vedeva in Tito un alleato
troppo importante all’indomani dell’armistizio.
Il silenzio che aleggia ancora su questa
storia è lo spettro di una nazione che non ha ancora fatto i conti con
sé stessa. Recentemente è uscito una graphic novel firmata da Davide
Toffolo, “L’Inverno d’Italia” (Coconino Press), che racconta
l’internamento a Gonars dal punto di vista di due bambini sloveni: i
loro occhi sono la condanna a cui non ci possiamo sottrarre, anche dopo
decenni. Perché l’ignorare il proprio passato è il più grave crimine che si può commettere contro la Storia.
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