di Francesca La Bella
Dopo cinque anni dall’attacco che portò alla caduta del Governo del Colonnello Muhammar Gheddafi, in questi giorni, varie voci sembrano annunciare un nuovo intervento in Libia. Secondo un articolo del New York Times, ripreso da molte testate italiane ed europee, l’amministrazione Obama starebbe valutando la possibilità di aprire, in collaborazione con gli alleati europei, un nuovo fronte contro lo Stato Islamico in territorio libico. Questa repentina escalation sarebbe strettamente collegata agli ultimi attacchi del gruppo islamista contro i terminal petroliferi della costa libica e alla perdurante condizione di instabilità del Paese, ulteriormente aggravata dalla mancata fiducia al neonato Governo di Fayez al Sarraj.
Davanti al fallimento dei negoziati che, supportati dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale nel suo complesso, avrebbero dovuto portare alla creazione di un Governo di unità nazionale che fungesse da barriera all’avanzata dello Stato Islamico nel Paese, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna ed Italia avrebbero, dunque, scelto di porsi alla guida di un nuovo intervento armato in Libia. Colloqui sarebbero in atto a questo scopo e se, gli incontri di Roma alla fine del 2015 sarebbero stati un primo passo verso la costituzione di un fronte comune a livello diplomatico, le ultime notizie descrivono un quadro in rapida evoluzione in senso militare. La settimana passata, a Parigi, si sarebbe svolto un importante incontro tra il Capo dello Stato Maggiore statunitense, Joseph Dunford Jr, e l’omonimo francese Pierre de Villiers in merito ad una eventuale azione armata in Libia. Il sito del Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti riporta, a tal proposito, che i colloqui si sarebbero concentrati sulla necessità di un intervento armato di contrasto dello Stato Islamico per impedire che il disequilibrio libico tracimi ad altri paesi africani. Durante le discussioni, sarebbe stata, però, evidenziata anche l’indispensabilità di un’azione di supporto al processo politico interno per garantire la sicurezza e la stabilità di più lungo periodo. A conferma di questo indirizzo, all’inizio di questa settimana, l’addetto stampa del Pentagono, Peter Cook, avrebbe dichiarato che le forze militari statunitensi si troverebbero già in territorio libico per vagliare le possibili alleanze con forze armate locali qualora, dopo un iniziale intervento aereo, dovesse esserci la necessità di un’azione via terra per consolidare il controllo territoriale.
Per quanto più caute rispetto a quelle degli alleali di oltre oceano, le parole del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e del Ministro della Difesa Roberta Pinotti, devono essere lette nella stessa direzione. Se Gentiloni, a margine del ventiseiesimo Vertice dell’Unione Africana ad Addis Abeba, avrebbe incontrato l’inviato ONU in Libia, Martin Kobler, per discutere la necessità di implementare il processo politico in atto in Libia nell’ottica di una veloce stabilizzazione del Paese, Pinotti avrebbe affermato che la soluzione alla questione libica deve essere trovata prima della primavera. Negando un’unilaterale accelerazione dell’iniziativa internazionale, il Ministro avrebbe dichiarato, in un intervista al Corriere della Sera, che è in atto un processo di “racconta di informazioni e di stesura di piani possibili di intervento sulla base dei rischi prevedibili”.
L’intervento, per quanto non
imminente, appare, dunque, in fase di preparazione, ma si può
riscontrare nelle dichiarazioni dei diversi attori un certo attendismo
rispetto all’evoluzione degli eventi. Se da un lato questo può essere
imputato alla mancanza di un Governo nazionale che richieda formalmente
un’azione di supporto in territorio libico per contrastare il pericolo
costituito dallo Stato Islamico, dall’altro il fallimento
dell’intervento internazionale contro Gheddafi con la conseguente
dissoluzione della Libia nella sua essenza statuale, costituisce un
precedente da cui è impossibile prescindere.
A completamento di questo quadro devono essere, infine, evidenziate le resistenze delle stesse forze libiche ad un eventuale intervento internazionale. All’annuncio dell’invio di truppe britanniche per l’addestramento delle forze armate libiche, Ahmed Maiteeq, uno dei 32 ministri del Governo Sarraj, avrebbe dichiarato che la presenza di forze armate straniere in Libia avrebbe offeso l’orgoglio nazionale e che la soluzione della problematica Stato Islamico avrebbe dovuto nascere da una alleanza interna alla Libia e non dall’intervento straniero. In linea con queste parole, le dichiarazioni rilasciate a Middle East Eye da Ibrahim Bate el Mal, portavoce del Consiglio Militare di Misurata, secondo le quali i bombardamenti potrebbero portare ad un peggioramento anziché ad un miglioramento della situazione. Un nuovo attacco internazionale, anziché creare le premesse per la risoluzione della questione libica, potrebbe, infatti, aggravare le attuali condizioni sociali ed economiche della popolazione, dando nuova forza alla propaganda dello Stato Islamico e permettendo al movimento jihadista di allargare la propria base di appoggio in altre aree del Paese.
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