La Brexit non si riferisce esclusivamente alla UE: parla di classi sociali, di diseguaglianza, e di come si sentano i votanti esclusi dalla politica. E allora, da dove dobbiamo cominciare per rimettere la Gran Bretagna sulla retta via?
“Se hai soldi, voti per restare” mi ha detto, con una confortante sicurezza. “Se non ne hai, voti per uscire”. Lo scorso mercoledì eravamo a Collyhurst, il difficile quartiere al limite settentrionale del centro di Manchester, e non riuscivo a trovare una persona che avrebbe votato per restare. La donna con cui stavo parlando raccontava della mancanza di un parco locale, o di un parco giochi, e della sua impressione che tutte le cose migliori andassero alla rigenerata città delle meraviglie della grande Manchester, 10 minuti in fondo alla strada.
Soltanto un’ora dopo, sono stato a Manchester ad una fiera per il reclutamento di laureati, dove nove su dieci dei nostri intervistati sostenevano il restare, e alcuni parlavano di coloro che avrebbero votato per uscire con una fredda superiorità. “Alla fine, questo è il XXI secolo” diceva un ventenne. “Stacci”. Non per la prima volta, l’atmosfera intorno al referendum aveva lo sbuffo solforoso non solo della diseguaglianza, ma di una sorta di deforme lotta di classe.
E adesso eccoci qua, con quella terrificante decisione di uscire. La maggior parte delle cose di primo piano nella politica sono finite, no? Cameron ed Osborne. Il Partito Laburista come noi lo conosciamo, rivelatosi una volta di più come un fantasma che cammina, il cui mandato non raggiunge più il cuore dei suoi. La Scozia, che ha votato per restare nella UE dal 62% al 38% – è già indipendente nella maggior parte dei termini politici e culturali, e presumibilmente presto proseguirà per la sua strada.
Il Sinn Féin sta lamentando il fatto che il governo Britannico “ha dato forfait su qualsiasi mandato che rappresenti gli interessi politici o economici della gente nel Nord Irlanda”. Queste sono cose epocali per accadere in tempo di pace, e questo sicuramente è un momento drammatico per il Regno Unito, come – quando? Le date importanti del dopoguerra ci balzano alla mente – 1979, 1997, 2010 – e non si avvicinano a niente.
Perché, naturalmente, c’è molto di più del tema dell’Unione Europea. Si parla di classi sociali, e disuguaglianza, e di una classe politica ora così professionalizzata che ha lasciato la maggior parte della gente a osservare i rituali di Westminster con un misto di rabbia e sconcerto. Intrecciate a questo momento sono gli urlanti fallimenti politici che si aggiungono a quel problema: Iraq, lo scandalo delle spese dei parlamentari, il modo in cui Cameron è passato dal piacevole volto dell’alta società a quello duro dell’austerità, accentuando tutti i cliché sulle persone di cui non ti puoi fidare, quelli che rispondono solo per se stessi (qualcosa che si applica allo stesso modo alle prime vittime della nostra nuova politica, i Democratici Liberali).
Più di ogni altra cosa, la Brexit è la conseguenza dell’attacco alla contrattazione economica dei primi anni ’80, in base al quale abbiamo detto addio alle sicurezze e alle certezze dell’assetto post Seconda Guerra Mondiale, sostituite da un modello economico che è servito solo alla parte più popolosa del paese, lasciando troppo del resto della popolazione a un declino ansioso. Guardate la mappa dei risultati, e quella vasta isola di voti “restiamo” a Londra e nel sud-est, o quelle percentuali di voto da far cascare le braccia per rimanere nel centro della capitale: 69% a Tory Kensington e Chelsea, 75% a Camden, 78% a Hackney, in contrasto con esiti paragonabili per “uscire” in posti come Great Yarmouth (71%), Castle Point in Essex (73%) e Redcar e Cleveland (66%). Qui c’è un paese così sbilanciato da poter effettivamente cadere.
Negli ultimi sei anni, spesso con il mio collega John Domokos, ho girato per la Gran Bretagna per la nostra serie di video “Ovunque Tranne Westminster”, che apparentemente si occupa di politica, ma che in realtà cerca di indovinare il sentimento popolare, se una una cosa del genere esiste davvero. Guardo indietro, e trovo una quantità di presagi di quanto è appena avvenuto. Come primo avvertimento, c’è stato il temporaneo arrivo del Partito Nazionalista Britannico alle elezioni politiche dal 2006 in poi, che ha cavalcato la rabbia popolare rispetto all’immigrazione dagli stati aderenti alla UE, nel mezzo del mercato del lavoro “flessibile” di Gordon Brown, e una crescente crisi abitativa.
Pochi anni dopo, incontrammo alcuni muratori nel South Shields i quali ci dissero che la loro paga oraria era scesa di 3 sterline grazie ai nuovi arrivi dall’Europa dell’Est; la madre di Stourbridge che voleva una nuova scuola per i “nostri bambini”, il vecchio scaricatore di porto di Liverpool che guardava file di magazzini vuoti ed esclamava, “Dov’è il lavoro?”
A Peterborough nel 2013, trovammo una città lacerata da freddi risentimenti, dove la gente lamentava il fatto che le agenzie avrebbero assunto solo cittadini non britannici, i quali avrebbero lavorato a turni folli per paghe risibili; nella roccaforte dell’UKIP in Lincolnshire, trovammo comunità costruite intorno al lavoro agricolo e all’industria alimentare che erano nettamente divise in due, tra gli ottimisti nuovi arrivati e i locali miserabili e risentiti, dove Nigel Farage avrebbe potuto montare e organizzare continui incontri pubblici con folle estatiche. Anche nelle città che si pensava sdegnassero all’unanimità anche la sola idea di Brexit, le cose sono sempre state complicate. Manchester era spaccata 60-40 in favore del restare, a Brimingham la scorsa settimana ho incontrato persone anglo-asiatiche che parlavano dell’uscita dalla UE con la stessa passione e frustrazione di un sacco di persone bianche che stavano dalla stessa parte.
In così tanti posti, da lungo tempo esiste lo stesso miscuglio di profonda preoccupazione e spesso rabbia cocente. Soltanto raramente è sfociato in odio feroce (su questo punto ricordo Southway a Plymouth, e forti echi di islamofobia intorno a una zona commerciale abbandonata; o le donne a Merthyr Tydfil che giravano nel centro città urlando “Cacciateli fuori!”), ma sembra ancora rappresentare un nuovo cambiamento nella condizione nazionale. “La gentilezza della civiltà Inglese è forse una delle sue caratteristiche più marcate. Lo noti nell’istante in cui tocchi il suolo inglese” scriveva George Orwell nel 1941. Non adesso, vero?
Ciò che definisce queste furie è spesso abbastanza chiaro: una terribile carenza di case, un mercato del lavoro impossibilmente precario, la percezione troppo spesso trascurata che gli uomini (e gli uomini sono particolarmente rilevanti qui), i quali una volta erano certi della loro identità di minatori, o operai delle acciaierie, ora si sentono sviliti ed ignorati. I tentativi della politica tradizionale di calmare la rabbia l’hanno probabilmente solo peggiorata: viscidi regali alle “famiglie più laboriose”, o il cliché della “mobilità sociale” che stride come le unghie su una lavagna, con il suo suggerimento che l’unica cosa che Westminster possa offrire alla gente della classe operai sia una ingannevole possibilità di non essere più classe operaia.
E per tutto questo tempo, la storia che ora ha ormai raggiunto un tale spettacolare epilogo, stava soltanto fermentando. L’anno scorso, 3.8 milioni di persone hanno votato per l’UKIP. Il voto del partito laburista è in uno stato di apparentemente inarrestabile declino man mano che i suoi membri sono sempre più esponenti delle zone metropolitane e della classe media, problemi che l’ascesa di Jeremy Corbyn hanno peggiorato. Infatti, se la storia degli ultimi pochi mesi è di politici che sanno pochissimo dei loro supposti elettori di base, il leader dei Laburisti dovrebbe essere visto come il problema incarnato. I sindacati sono invisibili, e l’abilità dei Conservatori dell’era della Tatcher di parlare intensamente all’aspirazione della classe lavoratrice è andata smarrita. In breve, Inghilterra e Galles erano caratterizzati da un vuoto crescente, finché David Cameron – che ora si è sicuramente rivelato essere il più disastroso titolare di cariche pubbliche in tutta la nostra storia democratica – ha preso la decisione che potrebbe rivelarsi di aver completamente cambiato i termini della nostra politica.
Il primo ministro evidentemente pensava che l’intero dibattito sarebbe potuto iniziare e finire in maniera pulita in pochi mesi. Il suo compagno di scuola a Eton, Boris Johnson – e davvero riuscite a crederci che la storia politica degli ultimi quattro mesi sia stata in effetti una gara catastrofica tra due persone che hanno frequentato la stessa scuola esclusiva? – ha opportunisticamente abbracciato la causa della Brexit praticamente con lo stesso spirito. Ciò che non immaginavano era che una rabbia popolare diffusa e indiscriminata non avesse ancora trovato uno sbocco abbastanza potente, ma che l’organizzazione di un referendum e l’adesione alla causa dell’uscita dalla UE avrebbero portato esattamente a questo. L’UKIP è stato frenato dal sistema elettorale uninominale e dalle qualità polarizzatrici di Farage, ma la coalizione per la Brexit in realtà li ha neutralizzati entrambi. E così accadde: la causa dell’uscita dalla UE, così a lungo appannaggio di bisbetici e opportunisti, ha attratto una fetta del voto popolare per cui qualsiasi partito politico moderno darebbe un braccio.
Naturalmente la maggior parte dei media, che fa largamente parte della stessa distaccata entità Londinese che il grande patriota inglese William Cobbet ha chiamato “la cosa”, ha fallito nell’intuire quanto stava accadendo. Il loro è un mondo di foto, il grande non-evento che è il Question Time del primo ministro, e dibattiti assurdi tra figure di cui al pubblico non importa più nulla. L’alienazione delle persone accusate di documentare lo stato d’animo nazionale dalla gente che è realmente, è una delle rotture che hanno portato a questo momento: certamente ovunque io vada, la stampa e la televisione sono l’obiettivo di tanto rancore al pari di quello verso la politica. E già che ne parliamo, è anche ora che ci allontaniamo dalla penosa scienza dei sondaggi di opinione, che ora dovrebbe sicuramente limitarsi ai test di prodotti e roba simile. La comprensione del paese è stata per troppo tempo inquadrata in percentuali e domande tendenziose: bisognava andare dentro al paese, e semplicemente ascoltare.
Sappiamo tutti quale crudele ironia sta nel mezzo di tutta questa storia: che la Gran Bretagna – o ciò che ne rimane – avrà ora una brusca virata verso destra, e che i problemi che hanno alimentato questo momento, diventeranno peggiori. Bene, ci siamo. La storia raramente è logica; finché non li colpisce direttamente, molte persone probabilmente saranno più sostenitrici di quel tipo di super-tatcherismo al quale potremmo essere ben soggetti, rispetto a quello che tanta altra gente vorrebbe. Ancora più precisamente, se Inghilterra e Galles hanno preso una drastica svolta verso l’incertezza e le tensioni, non si tratta della loro prima volta. È una considerazione difficile da fare in un momento come questo, ma la politica lo farà – deve andare avanti. Se abbiamo paura non solo di ciò che questa decisione significa per il nostro paese, ma di quanto essa dica della sottostante condizione sociale della Gran Bretagna, avremo da combattere. Ma prima avremo da ragionare, probabilmente più profondamente che mai.
Orwell scrisse il suo magistrale Il Leone e l’Unicorno quando l’Europa stava cadendo a pezzi, e l’isolamento del Regno Unito era più materia di retti princìpi che di caos politico. L’Inghilterra, disse, “sembra una famiglia, una famiglia vittoriana piuttosto antiquata, non con tante pecore nere ma con tutti gli armadi traboccanti di scheletri. Ha una parentela ricca colui a chi ci si deve inchinare, e parenti poveri quello su cui ci si siede sopra, e vi è una profonda cospirazione di silenzio sulla fonte del reddito familiare.”
Tra gli under 25 che hanno ovviamente sostenuto una parte, e le persone più grandi dall’altra, le altre sue parole suonano profetiche: “è una famiglia in cui i giovani sono generalmente ostacolati e la maggior parte del potere è nelle mani di zii irresponsabili e zie costrette a letto”. E l’ultima riga suona così: “Una famiglia controllata dai membri sbagliati – che forse, è molto vicino a come si possa descrivere l’Inghilterra in una frase.”
Con Farage gongolante e Johnson e Gove esultanti, quelle parole assumono un potere tutto nuovo. E per quelli di noi che si sono svegliati con le peggiori notizie immaginabili, esse implicano una domanda che dovremmo probabilmente esserci posti molto tempo prima che queste avvenissero: come faremo a mettere l’Inghilterra e il Galles sulla buona strada? Pensiamo a quella donna di Collyhurst: “Se non hai soldi, voti per uscire.” In questa frase non c’è solo il trionfo del leave contro ogni aspettativa, ma l’evidenza di grandi fallimenti che lo stordito sistema politico ha solo ora incominciato a riconoscere, lasciato da solo a occuparsene.
John Harris - per The Guardian
(traduzione Angela Zaccheroni)
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