La legge contro le proteste in Egitto resta dov’è. Sarà modificato
solo l’articolo 10, ha fatto sapere ieri il governo egiziano, dopo la
sentenza della Corte Suprema che sabato ha dato la benedizione ad una
normativa a lungo combattuta dalla società civile. L’Alta Corte
ha etichettato come costituzionale la legge, eccezion fatta proprio per
l’articolo 10 che riconosceva al Ministero dell’Interno il potere di
annullare una manifestazione precedentemente autorizzata dal governo
stesso.
Secondo Agenzia Nova, inoltre, il parlamento potrebbe anche
intervenire su un altro elemento critico: trasferire la competenza a
concedere l’approvazione a manifestare alla magistratura e non al
Ministero dell’Interno.
Ma resta l’impianto della normativa che dal 2013 vieta e punisce
severamente con il carcere manifestazioni e proteste indette senza
l’autorizzazione dell’esecutivo, uno strumento che in questi anni di
governo nato dal golpe del generale al-Sisi, consente all'esecutivo di attaccare manifestazioni e
arrestare attivisti e semplici cittadini. Ad essere impediti sono
ritrovi e sit-in di più di 10 persone e pene fino a 5 anni di carcere
per chi protesta senza autorizzazione.
Una vera e propria criminalizzazione della protesta e della
libertà di espressione che da anni le organizzazioni egiziane combattono
perché la considerano – a ragione – una dei capisaldi
dell’istituzionalizzata campagna di repressione indetta a luglio 2013 da
al-Sisi. Fino alla sentenza della Corte Suprema, i ricorsi
mossi contro la legge si fondavano sulla sua anti-costituzionalità sulla
base della violazione dell’articolo 73 che garantisce libertà di
espressione e riunione.
Nel mirino non solo l’articolo 10, ma anche gli articoli 7, 8 e 19, riguardanti permessi e pene relative. L’articolo 7
individua gli atti considerati reati seppure la manifestazione è stata
pre-approvata dal governo, e dunque criminalizzati a priori: tra questi
interruzione della produzione, danneggiamento del diritto al lavoro di
altri cittadini, occupazione di strade, blocco del traffico,
danneggiamento di proprietà pubbliche e private. Le pene carcerarie sono
definite dall’articolo 19 e vanno da 2 a 5 anni con una multa aggiuntiva da 50mila a 100mila sterline (2.600-5.200 euro).
L’articolo 8, invece, è quello relativo alla
notifica della protesta che secondo la legge gli organizzatori devono
presentare alla stazione di polizia del quartiere dove la manifestazione
è prevista, dando anche dettagli in merito (data e ora, slogan
previsti, motivazione, nome e indirizzo degli organizzatori).
Insomma, non cambierà molto in Egitto soprattutto per le migliaia di persone arrestate negli anni passati. Se
alcuni di loro potrebbero presentare ricorso se detenuti durante
proteste autorizzate, è difficile che qualcuno esca: sulla stragrande
maggioranza di loro pesano anche pene accessorie che li manterranno
dietro le sbarre. “Le pene dei manifestanti incarcerati sulla base delle legge anti-proteste – spiega al quotidiano al-Shorouq
Mohamed al-Baqer – includono generalmente altri reati, come disturbo
della quiete pubblica, danneggiamento di proprietà pubbliche e private e
disturbo degli interessi pubblici”.
La morsa governativa sulla società civile non si allenta. Su
questo si basa il potere e la “legittimità” del golpe di al-Sisi che,
privo di una rappresentanza parlamentare, fa di esercito e servizi
segreti la sua base di legittimazione all’interno di un circolo vizioso
che vede coinvolto potere economico, militare e politico. Ma
proprio la crisi economica che sta strangolando le classi più povere e
sta provocando la scomparsa della classe media sarà, secondo molti
osservatori, la miccia di esplosione della protesta. Non nell’immediato,
ma nel medio periodo.
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