Dopo mesi di estenuanti trattative (sempre tesissime), incontri
formali e non, ieri a Vienna i ministri di 14 Paesi aderenti all’Opec (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) hanno
messo da parte momentaneamente le divergenze politiche raggiungendo
un’intesa che prevede la riduzione dei livelli produttivi di greggio di
1,2 milioni di barili al giorno portando così il totale giornaliero a
32,5 milioni di barili. L’accordo entrerà in vigore a gennaio.
Resta ora da capire come l’Organizzazione si accorderà con i Paesi
non-Opec. In primo luogo con la Russia che potrebbe partecipare al
vertice fissato per il 9 dicembre a Doha in cui si dovrebbe chiedere ai
Paesi che non fanno parte del cartello di produrre 600.000 barili di
petrolio al giorno in meno. In passato Mosca si è detta favorevole ad
abbassare di 300.000 barili giornalieri la sua produzione che supera al
momento i 10 milioni di barili al giorno. Una disponibilità, in tal
senso, è stata manifestata anche dall’Oman che si sarebbe impegnata a
tagliare fino al 10% di quanto produce.
A sbloccare lo stallo sui negoziati, ci sarebbero state le “concessioni” fatte dall’Arabia Saudita, Iraq e Iran.
Dopo l’accordo sul nucleare, Teheran aveva posto come condizione per un
congelamento della propria quota il raggiungimento dei 4 milioni di
barili al giorno, ovvero il livello pre-embargo. Richiesta accolta dalla
“nemica” Riyadh che ha accordato alla Repubblica islamica di mantenere
la produzione a 3,8 milioni di barili al giorno. A sua volta la
monarchia saudita ha accettato il taglio di 486.000 barili al giorno e
l’Iraq di 210.000. L’annuncio di ieri ha prodotto risultati positivi nei
mercati: le quotazioni del greggio sono aumentate e il rialzo dei
titoli del settore ha sostenuto le piazze affari (Milano ha registrato
la prestazione migliore).
Sembra essersi sbloccata quindi una situazione che nei mesi si era
fatta sempre più intricata. Nell’ultima riunione, lo scorso fine
ottobre, le divergenze emerse in seno all’Opec erano state numerose.
Innanzitutto erano apparse evidenti le resistenze all’accordo di
Iran e Iraq. Teheran si era detta restia a bloccare la produzione
proprio ora che può tornare ai livelli pre-sanzioni. Baghdad, invece, si
era opposta all’intesa perché negli introiti del greggio trova le
principali fonti di finanziamento per le spese di guerra contro
l’autoproclamato Stato Islamico. Ai malesseri iraniani e
iracheni si erano poi aggiunte le richieste di esenzione dal blocco di
Libia e Nigeria che, in ripresa dopo un lungo periodo di stallo,
avrebbero voluto mantenere uno status privilegiato per tornare a
standard di produzione e di esportazione pre-crisi.
Tuttavia, le difficoltà di questi mesi vanno al di là di una mancata
intesa economica. A far perdurare lo stallo ha inciso sicuramente il più
ampio contesto geopolitico nel quale i Paesi dell’Opec si muovono. In
un Medio Oriente e un Nord Africa segnati da un perdurante
disequilibrio, dalla lotta contro lo Stato Islamico (Is) e da
un’insanabile frattura che divide Iran e Arabia Saudita (che ha portato,
di fatto, alla creazione di due blocchi contrapposti), ecco che il
petrolio diventa allo stesso tempo moneta di scambio e arma di
pressione. La vendita del petrolio finanzia le guerre come
quella saudita in Yemen o quella irachena in casa per riconquistare il
territorio occupato dall’Is. Senza poi dimenticare che gli oleodotti
cementano relazioni internazionali: il Kirkuk-Ceyhan tra il Governo
Regionale curdo-iracheno (Krg) e la Turchia; il Green Stream tra Libia e
l’Italia.
Quanto detto appare tanto più per vero per ciò che riguarda l’Arabia Saudita. Riyadh,
in forte crisi politica a livello interno e nell’area mediorientale,
prova ad imporsi come attore di primo piano proprio attraverso il
petrolio. Nei mesi passati, infatti, la continua discesa del
prezzo del petrolio poteva essere principalmente imputata alla volontà
saudita di saturare il mercato in modo da mettere fuori mercato lo shale
oil statunitense. Tuttavia, la mossa si è rivelata un boomerang: il
crollo del prezzo del greggio ha avuto conseguenze negative per le casse
di Riyadh e, dato il suo ingente investimento di fondi in chiave
anti-Iran in Yemen, nel Bahrain, in Siria (finanzia qui gruppi islamici
più o meno radicali), la scelta di aderire ad un tavolo negoziale in
seno all’Opec è stata considerata da Ryadh l’unica strada percorribile.
Soprattutto quando appare sempre più fallimentare la politica estera del
regno wahhabita: dalla Siria, passando al Libano, arrivando fino in
Yemen, re Salman non ha raggiunto alcun obbiettivo concreto nonostante i
milioni di dollari investiti.
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