Ascoltare Angela Merkel parlare di “destino” ed indicare come le strade dell’Unione Europea divergano ormai da quelle di Washington, è uno scenario decisamente anomalo, ma niente affatto sorprendente.
Chi segue il nostro giornale e la nostra storia, sa che da molti anni segnaliamo la crescente divaricazione tra le due sponde dell’Atlantico, ossia il passaggio dalla fase della concertazione internazionale a quello della competizione globale tra le maggiori potenze imperialiste. Su questo punto abbiamo dovuto spesso fare a “sportellate” con altre visioni molto radicate nella sinistra. Molti osservatori e analisti, anche seri, hanno continuato a ragionare su una fotografia ferma agli anni Novanta, piuttosto che sullo sviluppo – contraddittorio, sicuramente – del processo storico in atto.
Che i “destini” dell’Unione Europea a guida franco-tedesca e quelli degli Stati Uniti non coincidessero più, ci era parso piuttosto evidente.
Le vecchie camere di compensazione (Nato, Wto, Fmi), in cui gli interessi del primus inter pares (gli Usa) in qualche modo venivano gestiti in concerto con i partner europei, si sono via via svuotate e depotenziate.
E’ anche per questa ragione che avevamo guardato con qualche scetticismo alle mobilitazioni contro il Ttip; un trattato bilaterale Usa-Ue a nostro avviso irrealizzabile nelle nuove condizioni delle relazioni transatlantiche. Anche su questo, come sulla crisi della Nato, i fatti si sono incaricati di confermare una chiave di lettura.
In questi giorni sono molti gli analisti e gli esperti strategici che annunciano la morte del pilastro della Nato: l’art. 5, quello che assicurava il mutuo intervento in caso di aggressione. Un segnale di questa crisi era già venuto nel 2008 in occasione del conflitto in Georgia, quando il dittatore georgiano (oggi ministro del governo Ucraino, per dire...) invocò l’art.5 contro la Russia. Gli Usa erano d’accordo, ma i partner europei mandarono a benedire entrambi.
Trump, al recente vertice della Nato a Bruxelles, ha mandato in soffitta l’art.5. “Si tratta di un gigantesco errore”, commenta preoccupato un superatlantista italiano come Roberto Silvestri, presidente dell’Istituto Affari Internazionali.
Non certo casualmente, la Merkel ha immediatamente riempito il buco strategico rilanciando proprio – e in modo tempestivo – la priorità della Difesa Europea. E’ la Frankfurther Allgemeine Zeitung a rivelare il “piano segreto” della leadership tedesca fondato proprio sull’intervento “stabilizzatore” in Nord Africa per gestire i flussi migratori, l’esercito europeo e la massima centralizzazione delle leve decisionali economiche nel nucleo duro dell’Eurozona.
Pochi giorni prima del vertice del G7 a Taormina, la rivista americana Foreign Policy aveva pubblicato un articolo con un titolo assai esplicativo: “La Germania sta costruendo in silenzio un esercito europeo sotto il suo comando”. La vittoria di Macron in Francia assicura a questo progetto la copertura dell’arsenale nucleare francese, l’unico esistente in Europa dopo la dipartita della Gran Bretagna, rivelatasi ora come “il salto del tappo” che bloccava le ambizioni globali, anche sul piano militare, dell’Unione Europea.
Il nuovo scenario rimette in moto un vorticoso e contraddittorio gioco di alleanze. C’è da scegliere se investire sul progetto strategico della “Via della Seta” sponsorizzato dalla Cina; ci sono i limiti, le possibilità e i conflitti nella relazione con la Russia; c’è da stabilire il livello di interlocuzione con alcuni dei Brics come India e Brasile; c’è infine da ridisegnare la mappa del Medio Oriente, in cui i confini del vecchio Trattato Sykes-Picot vengono ormai brutalmente ignorati da anni di guerre e interventi militari esterni. Nel 1956 furono gli Stati Uniti a stoppare la pruderie delle vecchie potenze coloniali firmatarie di quel trattato (Francia e Gran Bretagna), intervenute militarmente contro la nazionalizzazione del Canale di Suez. Nel secondo decennio del XXI secolo, sono la Russia e le potenze europee a fare opera di interdizione verso le ambizioni statunitensi in Medio Oriente.
L’agenda delle relazioni tra Stati Uniti e il nucleo duro dell’Unione Europea, dunque, non sarà più la stessa dei decenni seguiti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. E’ un passaggio storico di cui prima si prende coscienza meglio è. Solo gli sciocchi possono pensare che sia “tutta colpa di Trump”. Un presidente statunitense improbabile come il miliardario indebitato è solo l’epifenomeno di una crisi delle classi dominanti, che non riescono più neanche a produrre una classe dirigente adeguata alle sfide. E questo rende il nostro mondo molto più instabile e pericoloso.
Che fare? Si può rimanere in attesa che il socialismo prevalga sulla barbarie o, peggio ancora, la meno speranzosa “comune rovina delle classi in lotta”. Oppure si può cominciare a mettere in agenda l’obiettivo della fuoriuscita dai trattati militari ed economici (dalla Nato a quelli Europei) che spingono il nostro e gli altri paesi su un piano inclinato. In fondo, anche quella per la sopravvivenza è comunque una lotta di classe.
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