Paolo Villaggio ha percorso l’affollatissima strada dell’uomo di
cultura italiano del Novecento: da originale, a tratti geniale,
interprete di una società in fase di profonda trasformazione, a
portavoce di indicibili banalità
sull’universo mondo. Questa parabola lo accomuna al 99% della cricca
intellettuale del nostro paese, un mondo che è transitato, senza colpo
ferire, dall’opposizione ai canoni culturali e politici dominanti al più
completo asservimento verso di questi. Una generazione intellettuale
prima organica, volente o nolente, a una visione del mondo. Poi
festosamente disorganica, e proprio per questo libera di sparare le più
immani boiate, le più trite ovvietà sub-culturali, circondata da
quell’aura intellettuale opportunamente veicolata dal dispositivo
televisivo. Eppure Paolo Villaggio è stato, per un breve periodo,
interprete di un’acuta riflessione sulla società italiana e sulle
contraddizioni generate dal suo arrembante sviluppo capitalistico. Tra il 1975 e il 1976 Villaggio è protagonista di due film eccezionali: Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi. Eccezionali
per vari motivi. In primo luogo, raccontano le vicende di un’Italia
borghese, arricchita ma ancora pezzente, incapace di gestire il lavoro
sicuro, la macchina a rate, la casa di proprietà, e che entra
immediatamente in cortocircuito sociale tra le nuove ambizioni e il
ricordo della povertà. Un paese piccolo borghese rapidamente
individualizzato, egoistico, competitivo. Negli anni Settanta, momento
di passaggio tra la recente povertà e il rapido arricchimento, molti
saranno i film e i libri che racconteranno questa inedita
trasformazione. Due su tutti: Dillinger è morto, di Marco Ferreri, e Un borghese piccolo piccolo, di Monicelli. Due film chiaramente superiori al Fantozzi di
Luciano Salce. Eppure i due film di Salce irrompono nella cultura
italiana per alcuni tratti originali e innovativi. Al contrario dei film
prima citati, non si prendono sul serio, non hanno ambizioni di sorta,
salvo poi acquisirle retrospettivamente grazie al successo clamoroso che
consacrerà la figura nazional-popolare di Villaggio. Nei Fantozzi la
critica della neo-borghesia parassitaria è al tempo stesso spietata e
indulgente. Fantozzi è nel medesimo tempo sia protagonista che vittima
del processo di borghesizzazione della società italiana, e non si
capisce mai dove finiscano le responsabilità sociali e dove inizino
quelle soggettive, individuali. Se nei film di Sordi la caratura
negativa del protagonista è immediatamente ascrivibile al personaggio,
in Fantozzi il lato comico e quello critico convivono in una sintesi
efficace e che giustamente ha avuto la capacità di divenire popolare
rimanendo, al tempo stesso, profondamente culturale. Non sono tanti gli
esempi simili, quelli cioè di una commedia, addirittura cabarettistica
in alcuni suoi tratti, in grado però di sviscerare (nei suoi limiti
ovviamente) un tratto ancora inesplorato della società italiana.
Dopo Il secondo tragico Fantozzi Villaggio viene fagocitato
dal suo stesso successo, replicando in sedicesimi, via via degradando,
un personaggio ormai completamente disattivato della sua carica
innovativa. Dagli anni Novanta Villaggio è definitivamente rientrato
nell’alveo dell’assoluta compatibilità al circuito
culturale-massmediatico berlusconiano, non tanto perché protagonista dei
suoi film, ma per la sequela di idiozie che ha saputo spargere in
questo trentennio, in cui l’atteggiamento da guru finiva definitivamente
per “macchiettizzarlo”. Peccato, per un originale interprete di quella
capacità molto italiana di saper coniugare la Cultura con il popolo,
l’alto e il basso, secondo un’espressione abusata. Paolo Villaggio è
stato tante cose nella sua lunghissima vita pubblica. A prevalere
nettamente nel ricordo collettivo saranno i due Fantozzi, e
perciò possiamo concludere che, nonostante tutto, nonostante lo stesso
Villaggio, oggi scompare un protagonista importante della cultura
italiana.
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