di Michele Paris
La politica degli Stati Uniti nei confronti della Cina ha fatto
registrare una chiara evoluzione negli ultimi giorni, segnati da una
serie di iniziative dell’amministrazione Trump che indicano
un’accelerazione su questioni estremamente delicate come la Corea del
Nord e le contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale.
Nel
fine settimana, una nave da guerra americana, il cacciatorpediniere
lanciamissili “USS Stethem”, ha varcato il limite territoriale delle
dodici miglia nautiche dell’isola di Triton, nell’arcipelago delle
Paracel, sotto il controllo cinese dal 1974 ma rivendicato anche da
Vietnam e Taiwan. Questo limite è riconosciuto dal diritto
internazionale per quanto riguarda le acque al largo di un determinato
territorio, anche se la sovranità cinese sulle isole Paracel rimane
contesa.
Per gli ambienti militari e il governo USA, l’operazione
di domenica servirebbe ad affermare la “libertà di navigazione” nelle
acque del sud-est asiatico e allo stesso tempo a respingere le pretese
cinesi sulle isole in questione. Simili blitz della marina militare
americana erano stati relativamente frequenti durante l’amministrazione
Obama e la stessa isola di Triton era stata visitata dalla nave “USS
Curtis Wilbur” nel gennaio del 2016.
Con l’avvicendamento alla
Casa Bianca, Trump si era inizialmente rifiutato di autorizzare
operazioni di questo genere, così da evitare segnali negativi verso
Pechino in un momento nel quale stava cercando di dare l’impressione di
voler promuovere un qualche dialogo con la Cina, principalmente attorno
al programma nucleare nordcoreano.
Già meno di sei settimane fa,
Trump aveva però dato il via libera alla prima incursione della sua
presidenza all’interno dei limiti territoriali di isole contese e
sottoposte all’autorità cinese. In quell’occasione, la “USS Dewey” si
era avvicinata a un atollo artificiale facente parte delle isole
Spratly, localizzate anch’esse nel Mar Cinese Meridionale e reclamate,
oltre che da Pechino, da Filippine, Malaysia, Vietnam e Taiwan.
L’operazione
era stata seguita da una dichiarazione minacciosa del segretario alla
Difesa americano, generale James Mattis, il quale aveva avvertito che
Washington non avrebbe accettato la militarizzazione da parte cinese di
isole artificiali contese né “minacce unilaterali allo status quo”.
Il
governo cinese risponde tradizionalmente in maniera molto dura alle
provocazioni americane, avendo più volte chiarito di non essere disposto
a rinunciare al controllo di territori e tratti di mare non solo
potenzialmente ricchi di risorse energetiche, ma dai quali passano rotte
commerciali di importanza fondamentale.
Dopo i fatti del fine
settimana, un portavoce del ministero della Difesa cinese ha così
chiesto agli USA di “mettere immediatamente fine a operazioni
provocatorie che violano la sovranità e minacciano la sicurezza della
Cina”. Pechino, inoltre, ha assicurato che “continuerà ad adottare tutte
le misure necessarie per difendere la propria sovranità e sicurezza”.
La
dichiarazione cinese ha anche fatto riferimento a quello che in molti
hanno definito come un cambiamento di attitudine in Asia sud-orientale
sulle contese territoriali, soprattutto nelle Filippine, definendo in
sostanza l’azione americana come destabilizzante e “contraria al
desiderio di stabilità” espresso dagli altri paesi della regione.
L’irritazione
di Pechino è dovuta anche all’annuncio di settimana scorsa
dell’approvazione da parte dell’amministrazione Trump di una fornitura
di armi per 1,4 miliardi di dollari a Taiwan. Una notizia che aveva
spinto il ministero degli Esteri cinese a sollecitare gli USA al
rispetto della cosiddetta politica di “una sola Cina”, abbracciata
ufficialmente da Washington fin dagli anni Settanta del secolo scorso.
Anche
il presidente, Xi Jinping, avrebbe chiesto e, secondo la stampa cinese,
ottenuto garanzie su questo punto nel corso di un colloquio telefonico
con Trump proprio poche ore dopo l’operazione navale nelle isole
Paracel.
Che questi sviluppi rientrino in un quadro generale
caratterizzato da un possibile cambio di marcia americano nei confronti
di Pechino è confermato anche dalla recente decisione di applicare
sanzioni a banche cinesi che operano con la Corea del Nord, così come
dall’inclusione della Repubblica Popolare in un rapporto del
dipartimento di Stato che condanna i paesi meno impegnati nella lotta al
traffico di esseri umani.
L’irrigidimento dei rapporti con la
Cina e il ritorno di Trump ai toni che avevano caratterizzato la sua
campagna elettorale rispecchierebbero la frustrazione della Casa Bianca
per i mancati risultati sulla crisi in Corea del Nord. Dopo il faccia a
faccia ad aprile tra Xi e Trump, quest’ultimo aveva affermato di
attendersi in fretta azioni concrete da parte cinese per richiamare
all’ordine l’alleato nordcoreano.
Se pure Pechino ha preso
iniziative in linea con le sanzioni americane e internazionali contro
Pyongyang, tra cui lo stop alle importazioni di carbone nordcoreano, la
propria influenza sul regime di Kim Jong-un è limitata e, soprattutto,
la strategia americana era fin dall’inizio soltanto una manovra per
giustificare un aumento delle pressioni, se non addirittura un’azione
militare.
Gli Stati Uniti, d’altra parte, hanno respinto nelle
scorse settimane le proposte cinesi per aprire un dialogo con la Corea
del Nord, restando fermi invece sulla richiesta – impossibile da
accettare – che quest’ultimo paese rinunci preliminarmente al suo
programma di armi nucleari.
Mentre sembrano dunque stringersi gli
spazi della diplomazia e con le relazioni Washington-Pechino nuovamente
in fase calante, sempre nel fine settimana Trump ha dato segnali
significativi delle sue intenzioni di rafforzare l’asse dell’alleanza
con Giappone e Corea del Sud.
Il presidente americano ha ricevuto
venerdì alla Casa Bianca il neo-presidente sudcoreano, Moon Jae-in,
mentre lunedì ha discusso telefonicamente con il primo ministro
giapponese, Shinzo Abe. Il vertice di Washington ha dato quanto meno
segnali di un maggiore allineamento di Moon alle posizioni USA sulla
Corea del Nord dopo le preoccupazioni dovute a un’attitudine considerata
più conciliante verso Pyongyang rispetto ai suoi due predecessori.
Abe,
a sua volta, avrebbe assicurato l’impegno di Tokyo a garantire l’unità
degli alleati per spingere il regime nordcoreano “a cambiare il proprio
pericoloso atteggiamento”. Trump sarebbe riuscito anche a convincere i
leader di Giappone e Corea del Sud a partecipare a un incontro
trilaterale sulla Corea del Nord a margine del G20 di Amburgo che
prenderà il via venerdì prossimo.
La collaborazione e il dialogo
tra Seoul e Tokyo risultano fondamentali per la strategia cinese e
nordcoreana degli USA, visto che negli ultimi anni i due alleati
americani si erano scontrati su varie questioni legate al periodo
coloniale e bellico, con il risultato di permettere alla Cina di
intensificare i legami diplomatici ed economici soprattutto con la Corea
del Sud.
I
segnali delle ultime settimane suggeriscono quindi che all’interno
dell’amministrazione Trump sia in atto una revisione delle relazioni con
Pechino. L’ostentata collaborazione sulla Corea del Nord o la presunta
alchimia personale tra Trump e Xi sono sempre state peraltro il
tentativo della nuova amministrazione americana di confondere le acque
nel quadro di un’agenda internazionale con al centro il contenimento
della Cina, anche attraverso il confronto militare.
Il passaggio a
politiche più apertamente aggressive nei confronti di Pechino, in primo
luogo tramite l’escalation delle pressioni su Pyongyang, comporta
inevitabilmente un aumento dei rischi di uno scontro diretto tra le due
potenze nucleari, sia su questioni di primaria importanza, come appunto
la crisi nella penisola di Corea, sia apparentemente minori, come
dimostra la recente provocazione americana nel Mar Cinese Meridionale.
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