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05/07/2017

Mar Cinese, Trump sfida Pechino

di Michele Paris

La politica degli Stati Uniti nei confronti della Cina ha fatto registrare una chiara evoluzione negli ultimi giorni, segnati da una serie di iniziative dell’amministrazione Trump che indicano un’accelerazione su questioni estremamente delicate come la Corea del Nord e le contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale.

Nel fine settimana, una nave da guerra americana, il cacciatorpediniere lanciamissili “USS Stethem”, ha varcato il limite territoriale delle dodici miglia nautiche dell’isola di Triton, nell’arcipelago delle Paracel, sotto il controllo cinese dal 1974 ma rivendicato anche da Vietnam e Taiwan. Questo limite è riconosciuto dal diritto internazionale per quanto riguarda le acque al largo di un determinato territorio, anche se la sovranità cinese sulle isole Paracel rimane contesa.

Per gli ambienti militari e il governo USA, l’operazione di domenica servirebbe ad affermare la “libertà di navigazione” nelle acque del sud-est asiatico e allo stesso tempo a respingere le pretese cinesi sulle isole in questione. Simili blitz della marina militare americana erano stati relativamente frequenti durante l’amministrazione Obama e la stessa isola di Triton era stata visitata dalla nave “USS Curtis Wilbur” nel gennaio del 2016.

Con l’avvicendamento alla Casa Bianca, Trump si era inizialmente rifiutato di autorizzare operazioni di questo genere, così da evitare segnali negativi verso Pechino in un momento nel quale stava cercando di dare l’impressione di voler promuovere un qualche dialogo con la Cina, principalmente attorno al programma nucleare nordcoreano.

Già meno di sei settimane fa, Trump aveva però dato il via libera alla prima incursione della sua presidenza all’interno dei limiti territoriali di isole contese e sottoposte all’autorità cinese. In quell’occasione, la “USS Dewey” si era avvicinata a un atollo artificiale facente parte delle isole Spratly, localizzate anch’esse nel Mar Cinese Meridionale e reclamate, oltre che da Pechino, da Filippine, Malaysia, Vietnam e Taiwan.

L’operazione era stata seguita da una dichiarazione minacciosa del segretario alla Difesa americano, generale James Mattis, il quale aveva avvertito che Washington non avrebbe accettato la militarizzazione da parte cinese di isole artificiali contese né “minacce unilaterali allo status quo”.

Il governo cinese risponde tradizionalmente in maniera molto dura alle provocazioni americane, avendo più volte chiarito di non essere disposto a rinunciare al controllo di territori e tratti di mare non solo potenzialmente ricchi di risorse energetiche, ma dai quali passano rotte commerciali di importanza fondamentale.

Dopo i fatti del fine settimana, un portavoce del ministero della Difesa cinese ha così chiesto agli USA di “mettere immediatamente fine a operazioni provocatorie che violano la sovranità e minacciano la sicurezza della Cina”. Pechino, inoltre, ha assicurato che “continuerà ad adottare tutte le misure necessarie per difendere la propria sovranità e sicurezza”.

La dichiarazione cinese ha anche fatto riferimento a quello che in molti hanno definito come un cambiamento di attitudine in Asia sud-orientale sulle contese territoriali, soprattutto nelle Filippine, definendo in sostanza l’azione americana come destabilizzante e “contraria al desiderio di stabilità” espresso dagli altri paesi della regione.

L’irritazione di Pechino è dovuta anche all’annuncio di settimana scorsa dell’approvazione da parte dell’amministrazione Trump di una fornitura di armi per 1,4 miliardi di dollari a Taiwan. Una notizia che aveva spinto il ministero degli Esteri cinese a sollecitare gli USA al rispetto della cosiddetta politica di “una sola Cina”, abbracciata ufficialmente da Washington fin dagli anni Settanta del secolo scorso.

Anche il presidente, Xi Jinping, avrebbe chiesto e, secondo la stampa cinese, ottenuto garanzie su questo punto nel corso di un colloquio telefonico con Trump proprio poche ore dopo l’operazione navale nelle isole Paracel.

Che questi sviluppi rientrino in un quadro generale caratterizzato da un possibile cambio di marcia americano nei confronti di Pechino è confermato anche dalla recente decisione di applicare sanzioni a banche cinesi che operano con la Corea del Nord, così come dall’inclusione della Repubblica Popolare in un rapporto del dipartimento di Stato che condanna i paesi meno impegnati nella lotta al traffico di esseri umani.

L’irrigidimento dei rapporti con la Cina e il ritorno di Trump ai toni che avevano caratterizzato la sua campagna elettorale rispecchierebbero la frustrazione della Casa Bianca per i mancati risultati sulla crisi in Corea del Nord. Dopo il faccia a faccia ad aprile tra Xi e Trump, quest’ultimo aveva affermato di attendersi in fretta azioni concrete da parte cinese per richiamare all’ordine l’alleato nordcoreano.

Se pure Pechino ha preso iniziative in linea con le sanzioni americane e internazionali contro Pyongyang, tra cui lo stop alle importazioni di carbone nordcoreano, la propria influenza sul regime di Kim Jong-un è limitata e, soprattutto, la strategia americana era fin dall’inizio soltanto una manovra per giustificare un aumento delle pressioni, se non addirittura un’azione militare.

Gli Stati Uniti, d’altra parte, hanno respinto nelle scorse settimane le proposte cinesi per aprire un dialogo con la Corea del Nord, restando fermi invece sulla richiesta – impossibile da accettare – che quest’ultimo paese rinunci preliminarmente al suo programma di armi nucleari.

Mentre sembrano dunque stringersi gli spazi della diplomazia e con le relazioni Washington-Pechino nuovamente in fase calante, sempre nel fine settimana Trump ha dato segnali significativi delle sue intenzioni di rafforzare l’asse dell’alleanza con Giappone e Corea del Sud.

Il presidente americano ha ricevuto venerdì alla Casa Bianca il neo-presidente sudcoreano, Moon Jae-in, mentre lunedì ha discusso telefonicamente con il primo ministro giapponese, Shinzo Abe. Il vertice di Washington ha dato quanto meno segnali di un maggiore allineamento di Moon alle posizioni USA sulla Corea del Nord dopo le preoccupazioni dovute a un’attitudine considerata più conciliante verso Pyongyang rispetto ai suoi due predecessori.

Abe, a sua volta, avrebbe assicurato l’impegno di Tokyo a garantire l’unità degli alleati per spingere il regime nordcoreano “a cambiare il proprio pericoloso atteggiamento”. Trump sarebbe riuscito anche a convincere i leader di Giappone e Corea del Sud a partecipare a un incontro trilaterale sulla Corea del Nord a margine del G20 di Amburgo che prenderà il via venerdì prossimo.

La collaborazione e il dialogo tra Seoul e Tokyo risultano fondamentali per la strategia cinese e nordcoreana degli USA, visto che negli ultimi anni i due alleati americani si erano scontrati su varie questioni legate al periodo coloniale e bellico, con il risultato di permettere alla Cina di intensificare i legami diplomatici ed economici soprattutto con la Corea del Sud.

I segnali delle ultime settimane suggeriscono quindi che all’interno dell’amministrazione Trump sia in atto una revisione delle relazioni con Pechino. L’ostentata collaborazione sulla Corea del Nord o la presunta alchimia personale tra Trump e Xi sono sempre state peraltro il tentativo della nuova amministrazione americana di confondere le acque nel quadro di un’agenda internazionale con al centro il contenimento della Cina, anche attraverso il confronto militare.

Il passaggio a politiche più apertamente aggressive nei confronti di Pechino, in primo luogo tramite l’escalation delle pressioni su Pyongyang, comporta inevitabilmente un aumento dei rischi di uno scontro diretto tra le due potenze nucleari, sia su questioni di primaria importanza, come appunto la crisi nella penisola di Corea, sia apparentemente minori, come dimostra la recente provocazione americana nel Mar Cinese Meridionale.

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