La normalizzazione dei rapporti tra Israele e mondo arabo, a scapito della questione palestinese, è realtà da tempo. Mentre centinaia di palestinesi restavano bloccati ad Arish in Egitto a causa della chiusura del valico di Rafah verso Gaza (di nuovo chiuso per l’operazione “Sinai 2018”, lanciata dall’esercito egiziano una settimana fa), Tel Aviv e Il Cairo firmavano un accordo miliardario.
Per i prossimi dieci anni la compagnia israeliana Delek
Drilling e l’americana Noble Energy riforniranno l’Egitto con 64
miliardi di metri cubi di gas, un contratto dal valore di 15 miliardi di
dollari. Il gas arriverà dai due giacimenti sottomarini
Leviatano e Tamar e sarà gestito dalla compagnia egiziana Dolphinus
Holdings. Dovrebbe arrivare tramite un condotto nel deserto del Sinai,
ancora in via di costruzione a causa dei continui sabotaggi, o via
Giordania.
Nonostante la scoperta del mega giacimento offshore di Zohr, da parte
dell’Eni, dunque, l’Egitto resta un importatore di gas. In attesa che
il bacino egiziano diventi produttivo, Il Cairo fa affari con il paese vicino, da
alcuni anni impegnato nell’esplorazione ed estrazione di gas
sottomarino, una ricchezza enorme nascosta nel Mediterraneo e che ha
aperto numerosi contenziosi: se quello con Gaza è stato
facilmente vinto da Israele minacciando le compagnie straniere
interessate, quello con il Libano per il blocco 9 resta aperto con tutta
la sua portata di instabilità.
Per il governo Netanyahu l’accordo è una vittoria su tutti i fronti:
il primo ministro ha festeggiato la firma definendola foriera di risorse
“per l’educazione, la salute e il welfare dei cittadini israeliani”,
capace di “rafforzare la nostra sicurezza, la nostra economia e le
relazioni regionali”.
Perché la vittoria non è solo economica, ma anche politica:
rientra nella strategia, ampiamente sostenuta dall’attuale
amministrazione statunitense, di normalizzazione dei rapporti con i
paesi arabi, in particolare del cosiddetto blocco sunnita, che metta
all’angolo definitivamente le legittime rivendicazioni del popolo
palestinese. E se l’Egitto è stato il primo paese a firmare un
trattato di pace con Israele, l’attuale presidente al-Sisi ha dimostrato
di avere con Israele interessi comuni, soprattutto a Gaza dove
all’assedio israeliano iniziato nel 2017 è seguito quello egiziano, a
partire dal golpe militare del 2013. Dalla distruzione dei
tunnel sotterranei che rifornivano i gazawi di materie prime e beni di
prima necessità al mancato sostegno dei gruppi palestinesi che nel 2014
dovevano siglare il cessate il fuoco con Israele, la campagna anti-Fratelli Musulmani di al-Sisi ha devastato il suo braccio palestinese, Hamas.
Anche al-Sisi festeggia: il fabbisogno di energia del popolo
egiziano, in costante crescita, è esplosivo e da solo il paese non è in
grado di farvi fronte. E accorre nelle capitali dei paesi vicini, non
solo a Tel Aviv ma anche a Riyadh: negli anni passati, nel chiaro
obiettivo di legare Il Cairo a sé e alla propria politica regionale, la
petromonarchia ha cominciato ad inviare petrolio all’Egitto con ricchi
finanziamenti e prestiti. Una realtà che svela la debolezza del regime
egiziano, dipendente dal mondo arabo fuori e intrappolato in una grave
crisi economica in casa, subita da tutto il popolo che si sta
gradualmente e rapidamente impoverendo.
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